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II, 3 Pietro Nardi

Nel documento Storia della critica della Scapigliatura (pagine 40-52)

Il saggio che il Nardi propose è una riedizione della tesi di laurea che egli discusse alle soglie della Prima Guerra Mondiale, nel 1914, sul fenomeno della Scapigliatura.

Egli volle astrarre gli autori scapigliati dal contesto storico-culturale, concentrandosi sulle qualità individuali di autori da lui ritenuti più rappresentativi e tracciando una storia della Scapigliatura, prendendo come punto di partenza il bisogno (nato tra il 1860 e il 1870) di superare le vecchie e logore forme linguistiche, dando così vita ad un movimento che prese il nome di “avvenirismo”.

“E intanto il vulgo intuona per le piazze La fanfare dell’ire, ed urla a noi fra le risate pazze:

Arte dell’avvenire.”13

E’ pur vero che gli scapigliati furono fortemente influenzati dall’epoca che li precedette; ma non per questo non si caratterizzarono come

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Tutte le citazioni del Nardi qui riportate sono tratte da P. Nardi, La Scapigliatura. Da Rovani a Dossi, Arnoldo Mondadori editore, Verona, 1968.

grandi innovatori, preparando un avvenire che si concretizzò in movimenti come il Decadentismo o il Crepuscolarismo.

Gli ultraromantici (come Nardi chiamava gli epigoni italiani del romanticismo) ebbero una fortuna in due tempi diversi: il primo corrisponde agli anni della nascita della Scapigliatura, prima dell’imporsi del Carducci sulle scene culturali; il secondo al quinquennio precedente la Grande Guerra, che coincise con la nascita del movimento Futurista, al quale Gian Pietro Licini pose le basi. Destino volle che tale autore fosse tra uno dei maggiori divulgatori del Cremona e del Dossi e che costituisse un ponte tra gli Scapigliati e le avanguardie di primo novecento.

Se vogliamo fare un excursus riguardo alla fortuna e all’influenza che ebbe questo movimento all’alba del nuovo secolo, basti dire che, nel 1907, quando Gozzano pubblicava La via del rifugio, uscirono postumi i versi di Camerana e che, tre anni dopo, vennero stampate migliaia di copie destinate al grande pubblico delle Opere di Dossi (l’esempio del quale fu tenuto sempre ben presente da molti poeti novecenteschi). E dopo di essi, via via, tornarono alle luci della ribalta Cremona, Ranzoni, Boito, Tarchetti, Praga e Rovani.

Il Nardi specificò che il suo obiettivo non era quello di trarre dall’ombra le figure degli Scapigliati (che pure hanno avuto un discreto successo, dal secolo scorso in poi); ma di voler scoprire “che cosa la

loro parola abbia voluto dire”.

Tuttavia la fine del fenomeno che iniziò con Rovani e terminò con Dossi non fu, anche se doloroso, uno sterile tramonto; preparò infatti una nuova alba, “come si passa, fuori della nostra volont{, dalla notte al

giorno”.

E’ importante sottolineare l’unità del processo artistico degli scapigliati, da molti messo in dubbio, senza tuttavia dimenticarsi di riconoscere quanto eterogenee furono queste personalità; alcune delle quali non riuscirono a staccarsi completamente dal passato, mentre altre guardarono con più maturità all’avvenire.

Nardi si preoccupò, invece di citare alla rinfusa nomi di scapigliati, di concentrarsi su quelli che ritenne più importanti e che analizzò nella

tesi: cioè Giuseppe Rovani, Iginio Ugo Tarchetti, Emilio Praga, Arrigo Boito, Giovanni Camerana e Carlo Dossi.

Tra questi autori, solo il Tarchetti e il Camerana meritano l’appellativo di ultraromantici, mentre il Boito e il Praga solo in parte. La definizione di avveniristi, invece, è appannaggio del Rovani e del Dossi.

Per quanto riguarda la parola Scapigliatura, va detto che il romanzo dell’Arrighi ha contribuito a metterla in circolazione come fenomeno morale e politico, ma essa esisteva già. Lo stesso Arrighi la usò precedentemente nell’opera Gli ultimi coriandoli (in cui usa l’espressione “scapigliatura artistica”).

Da questo momento in poi tale fu il termine per indicare nei manuali il tentativo di rivoluzione dei poeti e scrittori milanesi.

Giuseppe Rovani.

L’attività del Rovani può essere divisa in due periodi: al primo appartengono romanzi (il Lamberto Malatesta, la Valenzia Candiano e il

Manfredo Palavicino) che non riescono a liberarsi dal genere del

romanzo storico di ascendenza manzoniana - sarebbe inutile cercare la nascita della Scapigliatura in queste esperienze letterarie -; il secondo periodo, invece, con la scrittura di Cento anni, de La Libia d’oro e de La

giovinezza di Giulio Cesare, aprì una nuova stagione culturale.

Nardi si oppose alla critica sua contemporanea, che osservava Cento

anni e La Libia d’oro mettendosi esclusivamente dal punto di vista

dell’autore, per capire quali fossero le sue intenzioni. Il punto fondamentale da comprendere, per quanto riguarda la nascita della Scapigliatura, è il rapporto che il Rovani instaura con il lettore: egli è sempre presente, stabilisce dei veri e propri colloqui con il pubblico, instaurando con esso un rapporto ambiguo volendo, tra una freddura e un’altra, tenerselo amico (a differenza del Manzoni che tende sempre a carezzare il lettore).

Elemento caratteristico di un tale prosatore e giornalista era l’ironia; tuttavia “sotto al riso del Rovani, c’è alcunché di diverso del pessimismo,

sustrato naturale del riso del Manzoni e del Nievo. Questo riso si spegne, talvolta, quando la commozione piglia il sopravvento, sulle labbra del

Manzoni. (Così nel passo che comincia: “Addio monti sorgenti

dall’acque”). Sulle labbra di Rovani non si spegne mai. Perché mancano,

a Rovani, ideali fortemente sentiti, atti a ingenerar quel contrasto con la realtà, dal quale nasce bensì il riso, ma talora anche la tristezza, o lo sdegno.

Il contrasto è creato da Rovani ad arte. Presenta la scena, per il gusto di svelare il retroscena. E gioca in piena luce, quasi si prefigga che i lettori non dimentichino mai che la sua è una finzione, non la realt{.”

Tale invadenza del narratore nel romanzo implica un inevitabile cambiamento dei gusti del pubblico, che imparò ad apprezzare l’abilità di colui che tira le fila del romanzo e in esso fa sentire costantemente la sua ironica voce, più che il racconto stesso.

Inevitabilmente il romanzo stesso verrà distrutto dal sorriso demistificatore del narratore, rendendo il tutto simile a un gioco, ad uno scherzo, dove egli si diverte a mostrare, di tanto in tanto, l’artificialità dell’impianto.

Cento anni e la Libia d’oro rimangono pur sempre romanzi storici; ma

l’anima della Scapigliatura si fa sentire attraverso un’ironia del narratore che demolisce l’opera da lui stesso creata.

Inesatta è, quindi, la considerazione del Croce, secondo il quale il Rovani non è altro che un Manzoniano, “un seguace della formola di

quel romanzo, che consisteva, come si sa, nell’idea di una storia mescolata di invenzione o rappresentata mercé personaggi o avvenimenti immaginarii”. Tale considerazione è valida solamente per i

romanzi del primo periodo; quando l’autore non ha ancora imparato a ridere del suo stesso lavoro.

Nardi continuò l’analisi di Rovani, soffermandosi sulla “teoria delle arti”, secondo la quale esse devono procedere unite per il loro cammino, riflettendo la propria bellezza l’una nell’altra. Lo scrittore milanese pretendeva, dunque, di cercare “dietro lo sculture il letterato,

dietro il pittore lo sculture, dietro il musicista il poeta” e si adoperava

egli stesso a mettere in opera il suo programma, evocando i personaggi come se fossero dei dipinti e descrivendo in modo tecnico la musica,

per risvegliare dentro il lettore le emozioni suscitategli dalla propria singola esperienza musicale.

In particolar modo, con l’opera Giovinezza di Giulio Cesare, Rovani sperimentò questo nuovo universo di sensazioni, ponendosi sulla strada che sboccherà successivamente nell’estetismo.

Iginio Ugo Tarchetti.

A proposito di questo autore, il Nardi non apportò una critica che si discostasse da quella tradizionale. Si preoccupò di sottolineare l’aspetto inquieto e introverso della sua personalità, angosciato dal pensiero della morte, disposto a grandi slanci amorosi, ma profondamente infelice. Turbato anche nel suo rapporto con la fede e desolato dalla squallida realtà, lo scrittore scapigliato si racchiuse in un mondo interiore, fatto di ricordi e di memorie lontane.

L’unico pensiero che possiamo intuire chiaro e immutato nel Tarchetti è, forse, l’antimilitarismo.

Da questo punto di vista, è inevitabile l’accostamento dell’autore con personaggi romantici del calibro di Werther, Obermann, Ortis, Adolphe ed è evidente l’influenza di scrittori come Hoffmann e Poe.

Egli fu un idealista, “ma senza ideali definiti. E per ciò incapace di uscire

dal circolo vizioso che se ne generava. E per ciò inquieto.”

Se l’Io di Rovani riescì finalmente a conquistare la sua libertà, l’individualismo di Tarchetti non ha una soluzione: egli non poté superare la sua inquietudine e la riversò nell’arte, dove la dimensione della follia trova un ampio spazio.

Emilio Praga.

Ormai sono stati scritti fiumi di inchiostro riguardo alla vocazione di pittore e di poeta del Praga e l’influenza che ciò ebbe sui suoi lavori. Il Nardi calcò i toni sulla differenza tra due diverse stagioni dell’esperienza poetica del Praga: in un primo momento (coincidente con Tavolozza) in cui l’artista si contraddistinse per il suo intento

provocatore e per un certo cinismo; mentre la raccolta Penombre nacque sotto il segno di un’anima decadente.

Fondamentale per la crescita e formazione culturale dell’artista, fu il viaggio a Parigi; dove, molto probabilmente, entrò in contato con coloro che soltanto nel ’67 verranno chiamati impressionisti e con Baudelaire.

Nel primo lavoro. Tavolozza, prevalgono scene luminose inserite in un contesto di tipo popolare e l’attenzione per le piccole cose, per gli oggetti:

“Ogni oggetto ha il suo attributo: ogni attributo dona all’oggetto un piccolo suggestivo segreto: gli lega un ricordo, gli fa assumere una particolare fisionomia.

Perché nella vita dei semplici, le cose occupano generalmente il posto, che, nella vita d’uomini più evoluti, prendono le astrazioni, le idee. […] In verità la poesia di Praga è piena di cose. E’ questo un carattere che perdura, nella produzione poetica praghiana.”

Il periodo di Tavolozza coincise con uno studio del Praga sulla realtà, la quale è interpretabile solamente alienandosi da se stessi: l’Io non è più al centro della poesia. Al contrario, dunque, dei romantici, egli si orientò verso la rappresentazione, la sua arte fu principalmente un’arte visiva.

Le poesie sono permeate di una simpatia (nel senso etimologico della parola) verso i soggetti descritti e la passione non sconvolge più l’animo del poeta; tantoché il Nardi giunse ad affermare che Praga fu “sulla via del naturalismo, pur non potendosi dire un naturalista, perché

il problema dell’impersonalità non è dinnanzi al suo spirito”.

Egli si impose, senza dubbio, come un poeta innovativo, uno degli esponenti più interessanti della Scapigliatura e, almeno nelle intenzioni, un sovversivo. Se Rovani tolse valore con l’ironia alla materia storica - romanzesca, Praga fece qualcosa di simile in

Tavolozza per quanto riguarda la lirica: le provocazioni da un punto di

vista linguistico e di contenuto ebbero molto probabilmente l’intenzione di sconvolgere il pubblico benpensante.

Da questo punto di vista, il Praga può essere accostato al francese Musset: vi troviamo la stessa spavalderia, lo stesso disprezzo per l’opinione pubblica (basti leggere la poesia dello scapigliato “La mia

ganza, una bimba assai devota”). Essi ricalcarono l’immagine del

giovane che si affaccia con sicura esuberanza alla vita e che commenta con cruda schiettezza ed ironia tutto ciò che lo circonda.

“Lo scetticismo dei giovani è per lo più frutto di una sconfinata fiducia in se medesimi. Di qui le pose gladiatorie di fronte a una società necessariamente convenzionale e fittizia. […] L’opposizione per sfoggio d’indipendenza e di forza.

Gli uomini maturi sono religiosi e credenti? Bisogna essere bestemmiatori e atei. Sono sentimentali e virtuosi? Bisogna essere cinici e libertini.”.

Tuttavia, questa maschera cadde (sia per Musset che per Praga) quand’essi fecero il loro primo incontro col dolore e il cinismo, per lasciare il posto al sentimento che avevano così ben celato dentro di loro.

Questa svolta epocale avvenne per il Praga tra il ’62 e il ’64; cioè quando suo padre morì e l’azienda familiare entrò in crisi: l’artista si ritrovò a passare da una condizione economica agiata ad uno stato di profonda indigenza.

La conseguenza dal punto di vista letterario di questa disgrazia fu la raccolta di poesie Penombre, che risente dell’influenza dei poeti contemporanei francesi (in particolare, di Baudelaire) e di Arrigo Boito (che Praga aveva da poco conosciuto e col quale strinse una grande amicizia).

Fin dalla prime pagine di Penombre (un titolo che per il Nardi è intriso di “ambiguit{ crepuscolare”) notiamo la forte volontà del poeta di auto isolarsi, rinchiudendosi nel proprio universo interiore dove può rievocare i felici ricordi del passato. Una tale disperazione, costellata di funerei fantasmi e di immagini macabre, lo accosta inevitabilmente al Tarchetti.

Tuttavia, il Praga non si lasciò trascinare completamente verso questo deriva romantica, ma si oppose, cercando di affacciarsi alla realtà

esterna per cercare l’ispirazione di un tempo: Penombre è, dunque, una raccolta segnata da un “conflitto di tendenze opposte: nella drammatica

vicenda per cui il vecchio Praga, pur perdendo di momento in momento terreno, reagiva senza tregua al nuovo”. Il poeta, distrutto da alcol e

droghe, non trovava requie; fiaccato da una sofferenza fisica, ma soprattutto mentale.

Se in Penombre prevale un individualismo inquieto, in Trasparenze e nelle Fiabe e leggende il Praga - ignorato dal pubblico, avverso alla critica, sradicato dal suo ambiente-, si riaffaccia di nuovo al mondo osservandolo con rassegnata tristezza e in solitudine: se tempo addietro in Tavolozza aveva descritto gli umili e i poveri; adesso si trova il poeta stesso in una tale miserevole condizione.

Praga volle, dunque, sottolineare la comunione della sua anima con quella della natura; una natura che in Paesaggi sarà la protagonista assoluta attraverso una forma antropomorfizzata e drammatizzata; dove l’uomo è diviso tra la realtà che lo schiaccia e il richiamo dell’infinito che lo incanta (fortissima, in questo caso, la comunanza col Tarchetti).

Alla luce dell’esperienza poetica del Praga, il critico Nardi ne ha tratto le seguenti conclusioni:

“Vedemmo come Praga avesse cominciata la propria carriera poetica: alienandosi da se medesimo, o annullandosi nei propri simili. Ci troviamo ora dinanzi a una inversione nel suo modo di atteggiarsi di fronte alla realt{: ché ai propri stati d’anima è portato a dar corpo, proiettandoli e incarnandoli negli oggetti esteriori.

L’involuzione è dunque compiuta”.

Tuttavia quest’esperienza non si concluse del tutto con un fallimento. Il critico riconobbe nelle poesie praghiane, fatte di sofferenza fisica e spirituale, un’affinità con molti autori del novecento (tra i quali Gozzano, Palazzeschi, Saba e, in particolar, modo Pascoli).

Arrigo Boito.

L’arte di Arrigo Boito è caratterizzata da un dualismo, che lo portò da una parte a seguire una linea classicista e, dall’altra, verso una forma di romanticismo culturale e storico (basti pensare al Re Orso).

C’è in esso una volontà di comprensione dei fenomeni e di definizione di essi, dove le parole e le immagini evocate racchiudono tutto il pensiero; forte è la nostalgia per epoche ormai finite o che non sono mai esistite.

Tuttavia, non va scordato quanto il Boito fosse principalmente legato al mondo dei suoni; tanto da voler trasformare la poesia stessa in musica, attraverso un uso innovativo di allitterazioni e iati.

Questo lungo percorso attraverso due delle tre arti prese in considerazione dal Rovani portò Boito a una continua ricerca, pur senza mai trovare un completo appagamento:

“Mentre cercava di realizzare, in poesia, quel qualche cosa di liquido e di indefinito che è proprio della musica, par bene cercasse di rendere, in musica, quel concreto e determinato, che solo la parola e, più specialmente, la plastica possono tradurre.”.

E fu proprio questo aspetto che sancì il fiasco del Mefistofele.

Tale inquietudine espressiva è ciò che legò Boito alla Scapigliatura; entro la quale egli condusse, artisticamente parlando, una vita sdoppiata, che lo rese spettatore di se stesso. Diviso tra romanticismo e

classicismo, tra musica e parola, tra sogno e realtà, egli comprese

l’indissolubilità di questi termini e si pose al di là di essi, osservandoli con un sorriso ironico.

Un tale dualismo salvò il Mefistofele dall’influsso wagneriano: “Wagner

credeva ai propri fantasmi. […] Boito invece, ai propri fantasmi, non credeva: o meglio, non credeva a quel doppio di se medesimo, che s’abbandonava ad essi. Di qui l’ironia che pervade tutto il Mefistofele e da cui non va esente neppure la parte più ispirata ed eterea, il Prologo in

cielo, dove soltanto il riso di Mefistofele, ma anche il coretto dei

Cherubini, funge, per così dire, da controparte burlesca alla tensione mistica dello spartito troppo indulgente al lirismo.”.

Paradossalmente, pur seguendo l’innovativo percorso tracciato dal Rovani, la musica del Boito venne criticata anche dagli stessi Scapigliati, forse troppo legati alla tradizione musicale italiana, ignorando come essi usassero in ambito letterario gli stessi procedimenti.

Giovanni Camerana.

Tra il ’67 e il ’68 venne fondata a Torino la Società “Dante Alighieri”, un cenacolo di intellettuale che fu l’erede della Scapigliatura lombarda; tra i suoi membri si innalzava la voce di Camerana ad invocare la nascita di un’arte nuova, secondo i dettami dei compagni milanesi.

Tuttavia, più vecchi di almeno cinque anni, questi ultimi sembravano appartenere ad una generazione precedente; mentre i piemontesi mostrarono più consapevolezza dei mutamenti portati dal tempo, che imponevano azione e non una chiusura nell’universo interiore: si spalancano di nuovo le porte della fiducia nella società e nel progresso. Camerana stesso si lasciò attrarre dalla società e ne studiò i meccanismi. Si fece portavoce di un ultimo romanticismo filtrato attraverso un movimento, quello della Scapigliatura, che si stava ormai spegnendo; pur piantando il seme consegnatoli dalla poesia dei lombardi.

Per questa ragione rimase impresso per anni accanto al suo nome l’appellativo, datogli dal Carducci, di romantico fuori dal romanticismo. Alla stregua del Tarchetti, il Camerana fu un personaggio tormentato per tutta la vita (conclusasi col suicidio) da un malessere interiore e di questa condizione ne abbiamo un riscontro nella sua produzione. L’ amicizia stretta a vent’anni col Praga e col Boito lo inserì da subito nell’ambiente della Scapigliatura, dove egli parve sviluppare la tendenza (già riscontrata nel primo Praga) a lasciarsi impressionare

dal mondo esterno: in Bozzetti il solo paesaggio, scevro di qualsiasi presenza umana, diventa il protagonista assoluto delle sue opere e il tutto è permeato da un’assoluta tranquillità, una tranquillità apparente della quale ha bisogno l’anima dell’autore.

Tuttavia l’angoscia interiore minacciava sempre di estrinsecarsi, spazzando via la fallace calma delle prime poesie e l’influenza di Baudelaire tra il ’77 e l’85 si fece sempre più forte, portando ad una regressione in senso romantico (come avvenne a Praga) del Camerana; il quale ricercò nella natura echi della realtà interiore.

Un altro modello che si impose negli anni immediatamente successivi e portò l’artista torinese a dedicarsi anche agli schizzi a penna o a carbone di soggetti principalmente romantici (come castelli, terre inospitali e paesaggi nordici) fu quella di un altro grande francese: Victor Hugo.

In entrambi gli autori, il pittore può aiutare a comprendere il letterato: un’idea subisce una continua metamorfosi, viene fatta “passare dinanzi

attraverso una serie di fantasmi sovrapposti, così da farlo quasi sparire, dietro veli molteplici e sempre meno trasparenti”. E’ ormai lontana la

preoccupazione per la rappresentazione fedele della realtà; la quale rimane solo il punto di partenza dell’artista, dove egli trae ispirazione. Tuttavia un elemento collegò e rese omogenee tutte le esperienze artistiche del Camerana: la consapevolezza che non ci sia altra verità all’infuori della Morte. Questo tema serpeggiò attraverso tutta la sua produzione e l’attrazione (quasi carnale) per essa fu talmente forte che la donna stessa ne diventa un simbolo.

Alla luce di questa consapevolezza, il mondo esterno prende, agli occhi del poeta, tonalità scure e i temi preferiti divengono i fenomeni che ostacolano la luce (come la nebbia o le eclissi).

Carlo Dossi.

L’individualismo inquieto, che caratterizzò tutti gli scapigliati finora analizzati, il Dossi lo affrontò e lo esorcizzò attraverso il suo alter ego

Nel documento Storia della critica della Scapigliatura (pagine 40-52)

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