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II – L’impossibile e la poesia

Nel documento Georges Bataille e l’estetica del male (pagine 123-149)

Il luogo dell’impossibile L’impossibile è nozione chiave di

un modo d’essere e di agire dello spirito. Bataille tenta di comuni-care fin dove ci si può spingere nella totale de-soggettivazione del soggetto o, più semplicemente, nell’abbandono della coscienza vrana come centralità dell’organismo umano a vantaggio della so-vranità di un soggetto fuori di sé. La nozione e l’esperienza dell’im-possibile, è un modo della sovranità, libertà illimitata del soggetto che pone tra parentesi, nel gioco mortale del rischio, la sua limita-tezza, spendendo fino alla morte la sua libertà. L’Impossibile è an-che, come si è già avuto modo di sottolineare, il testo più poetico di Bataille. Esso è percorso da una radicale corrente antirealistica: «Il realismo – scrive – mi dà l’impressione di un errore, solo la vio-lenza si sottrae al sentimento di povertà delle esperienze realiste. La morte e il desiderio soli hanno la forza che opprime, che tronca il respiro. Solo l’eccessività del desiderio e della morte permette di raggiungere la verità» (IMP, III, 101; 5). Così nella Prefazione alla seconda edizione dove Bataille motiva la modifica del titolo al suo libro da L’odio della poesia a L’Impossibile. All’autore stesso il nuo-vo titolo non appare molto più chiaro del precedente, e tuttavia aggiunge: «ma può diventarlo un giorno...: intravedo nel suo insie-me una convulsione che insie-mette in gioco il moviinsie-mento globale degli esseri. Una convulsione che va dalla scomparsa della morte a quel furore voluttuoso che, forse, è il senso della scomparsa» (IMP, III, 102; 6). Siamo nell’ambito della contrapposizione del disordine soggettivo all’ordine logico e razionale. L’esperienza interiore rap-presenta la confluenza e il centro di sperimentazione e sedimenta-zione insieme, zona di crogiolo dell’intensità del soggetto decentra-to e plurimo, che non riconosce più audecentra-torità o freni al di fuori di sé se non nei limiti insormontabili della parola.

Scrive Bataille: «La verità ha dei diritti su di noi. Essa ha per-fino tutti i diritti su di noi. E tuttavia noi possiamo, e addirittura dobbiamo rispondere a qualche cosa che, non essendo Dio, è più

forte di tutti i diritti: quell’impossibile al quale non accediamo che obliando la verità di tutti questi diritti, che accettando la scompar-sa» (IMP, III, 102; 6). Come si vede Bataille non attribuisce alla se-duzione poetica il carattere del diritto e della verità, ma ciò signi-fica semplicemente che egli non ne fa una questione di principio né, tantomeno, di verità oggettiva, per evitare di ricadere nella pro-clamazione di un sapere acquisito. Tuttavia, benché la verità abbia tutti i diritti su di noi, possiamo, e dobbiamo rispondere a qualche

cosa che, pur non avendo il carattere di serietà dell’utile e del reale,

ha su di noi il potere senza diritto della seduzione. Sfera vaga non per mancanza di realtà – il sentire è reale quanto gli oggetti e la percezione di essi – ma per mancanza di limitatezza e per assenza di un linguaggio che lo esprima direttamente, l’impossibile è ciò che risponde in senso essenziale alla nostra umanità non subordi-nata all’ordine del discorso e all’ordine sociale. L’impossibile che si sostituisce a Dio regge bene il confronto perché Dio è concepito come la realtà altra e interiore, invisibile, superiore a tutti i diritti. A Dio si sostituisce una rovinosa sovranità che non ha punto di riferimento se non in se stessa, quindi qualcosa che gira a vuoto e nel vuoto. Così Bataille chiarisce il senso della sua finzione lettera-ria: «credo – scrive – che in un certo senso i miei testi narrativi raggiungano chiaramente l’impossibile»(IMP, III, 102; 5). Finzione portatrice della verità dell’intimità nascosta che non può trovare altra espressione se non quella del racconto o del romanzo per di-re, fra “pesantezza” e “orrore”, l’odio della poesia per ogni arte che invece di distruggere il mondo lo conferma nella sua solidità, nel nocciolo della consuetudine.

Da questo punto di vista lo stesso Hegel, che pure intuisce la verità del negativo, rafforza il senso del mondo anche attraverso l’arte, mentre ogni poesia vera è la voce della volontà di distruzio-ne. Bataille sostituisce alla “terra” di Heidegger il vuoto della ver-tigine. Il rapporto mondo-terra sprofonda nella rovina. Se si tratta in Bataille come in Heidegger di lasciar parlare le cose, in Heideg-ger è ancora possibile ricostruire un mondo: essendo la sfera arti-stica quello spazio che apre ogni volta, nel suo carattere inaugurale questa possibilità. Per Bataille il mondo è una costruzione del sa-pere, la fisicità è tutt’altro che solida nella interiorità non riflessa: su di essa non poggia proprio nulla. La sua consistenza è un’acqui-sizione scientifica che non ha però riscontro nell’esperienza interio-re dove tutto è, secondo il riferimento ad Eraclito, estinterio-remamente fluido. La vertigine del mito annulla la consistenza della terra e il mito a sua volta non è se non la rappresentazione poetica o la

spe-rimentazione fino al delirio della vertigine in cui il soggetto può incorrere. Si tratta naturalmente del soggetto sovrano che non tiene più conto del mondo dell’utile per sussistere. Più esattamente, l’io batailliano rinunciando alla sua centralità e alla sua identità rinuncia alla consistenza e alla sussistenza: è uno dei punti cruciali in Batail-le. In realtà l’io sembra abdicare a priori alla sua durata, ad un’es-senza sostanziale in quanto ente, per precipitarsi verso l’essere. Ma l’essere per Bataille è la morte nel senso che si compie nella mor-te. Non solo, come per Heidegger, siamo “esseri-per-la-morte”, non solo la morte dà significato alla nostra vita, più radicalmente l’essere che noi siamo si realizza nella morte, come momento estremo in cui l’impulso all’autoconservazione non esercita più la sua forza. Quan-do non si ha più paura della morte non si deve ricorrere a patti per esistere, non si deve sottostare a condizioni esteriori al proprio sé. Se questo modo di vedere abolisce tutti i presupposti fonda-mentali su cui si fondava il soggetto classico, la soggettività dilatata di Bataille ha i suoi antecedenti oltre che in Eraclito, da Bataille evocato esplicitamente ne La Mère-Tragédie, in Empedocle e in una tradizione che unisce Orfeo ad Hölderlin e Rilke; e finalmente, at-traverso Schopenhauer e Nietzsche, alla tradizione orientale in cui il soggetto, l’io, è abolito nella immersione del tutto.

L’esperienza interiore testimonia della familiarità di Bataille con

lo Zen e tuttavia Bataille afferma: «Il mio metodo è agli antipodi dello yoga» (EI, V, 194; 256); e spiega che cosa si debba intende-re con yoga: «esercizi indù di concentrazione»; ammettendo che sa-rebbe «ottima cosa» se esistessero dei manuali che, al di là «delle escrescenze morali o metafisiche», spiegassero e consentissero di apprendere un metodo per raggiungere «la concentrazione lenta,

ironica, dei pensieri verso un vuoto, l’abile destreggiarsi dello spirito

su temi di meditazione in cui sprofondano successivamente il cie-lo, il suocie-lo, il soggetto» (EI, V, 194; 256 e 257)1. La sottolineatura della raffinatezza e dell’efficacia del metodo che consente l’agilità e la mobilità di «una danza incantatoria» nel movimento ironico del-lo spirito, prelude alle ragioni della sua antiteticità al modo di sen-tire di Bataille. Infatti esso è un mezzo efficace e viene all’origine concepito come tale, per ottenere il distacco dalla realtà circostan-te. Anzi, «non vi è mezzo più rapido per sfuggire alla “sfera dell’at-tività” (se si vuole, il mondo reale)» (EI, V, 194; 257). Il suo intrin-seco carattere di mezzo sembrerebbe reinserirlo, in ultima analisi, in quella sfera dell’attività che pure vorrebbe distruggere. In effetti la questione appare più complessa: «proprio in quanto è il mezzo migliore, a proposito dello yoga la domanda si pone

rigorosamen-te: se ricorrere a dei mezzi definisce la sfera dell’attività, come di-struggerla, quando fin dall’inizio si parla di mezzo? Ora lo yoga altro non è se non tale distruzione» (EI, V, 194; 257). Data l’impo-stazione del discorso ci saremmo aspettati che Bataille rifiutasse allo yoga la capacità distruttiva in quanto azione efficace. Il fatto è che tale metodo di concentrazione è senza dubbio esperienza pri-vilegiata individuale e si propone non la messa in questione totale della sfera dell’attività ma il distacco individuale da essa e da quello che Bataille definisce il “continuum umano”. Bataille afferma sotto-lineando graficamente l’importanza del concetto: «LE MIERIFLES

-SIONISI FONDANOSU UNESPERIENZAPRIVILEGIATA”; “ANDARE PIÙ LONTANOPOSSIBILEHATUTTAVIASENSOSOLOUNAVOLTA RICONOSCIUTO IL PRIMATO DI UNCONTINUUM”» (EI, V, 195; 257). Precisa ancora che, se di solito la separazione degli esseri ha un senso fondamentale e primario «nella nostra sfera di vita», c’è un tempo in cui «il passaggio da tu a io ha un carattere continuo» e «l’apparente discontinuità degli esseri non è più una qualità fon-damentale» (EI, V, 194 n.; 257 n.). L’esperienza privilegiata è, in al-tri termini, un’esperienza di intensità e di partecipazione al mondo degli uomini sottratti alla sfera dell’attività utile e non a quella del desiderio e dei sentimenti, come invece propone lo yoga, è un at-teggiamento di complicità e non di distacco. «Che cosa sarei – ciò che sono le pietre o il vento – se non fossi complice dei vostri er-rori? Sono un grido di gioia! [...] Penso allo stesso modo in cui una ragazza si toglie il vestito. All’estremo del suo movimento, il pensiero è l’impudicizia, l’oscenità stessa» (EI, V, 199-200; 264).

Lo yoga non distrugge affatto la sfera dell’attività, la interrompe soltanto, lasciando intatta la sua logica; e la partecipazione al tut-to passa attraverso l’indifferenza verso gli altri uomini e verso la sfera dei propri desideri. Non per caso lo stato etico si raggiunge per Schopenhauer attraverso l’abbandono del desiderio che condu-ce all’atarassia. Bataille dal canto suo non aspira affatto all’indiffe-renza, ma all’«ardore eccedente» in cui l’essere viene dato non co-me «via d’uscita» ma coco-me impossibile.

Le Meditazioni traducono il senso di complicità attraverso una straordinaria vicinanza e consonanza con la natura solitamente ne-gate. Leggiamo la MEDITAZIONEII:

Fra due tombe una lucciola.

La metto, nella notte, nella mia mano.

Da lì la lucciola mi guarda, mi penetra fino alla vergogna.

E ci perdiamo l’un l’altro nel suo chiarore: ci confondiamo l’un l’altro con la luce.

La lucciola, meravigliata, ride di me e dei morti e io pure mi meraviglio, ridendo di essere stato capito dalla lucciola e dai morti.(MM, V, 200; EI, 264-265)

Forse del tutto inintenzionalmente Bataille qui testimonia di fat-to che la partecipazione al mondo degli esseri è possibile soltanfat-to nell’apertura totale alla complicità con l’uomo; le meditazioni infatti seguono l’affermazione sull’impudicizia del pensiero. L’ardore ec-cedente che può appartenere a tutti si apre alla lucciola e ai mor-ti, entrambi appartenenti ad altri regni che con l’uomo in stato esta-tico hanno in comune la sovranità rispetto alla sfera dell’azione.

Nella MEDITAZIONEIII persino il sole sembra giocare col poeta:

Afferra un bottone della mia giacca.

Io mi attacco più bizzarramente a un bottone dei pantaloni. E ci guardiamo come bambini:

« Io ti prendo, tu mi prendi, per la barbetta.

Il primo...» (MM, V, 200-201; EI, 265).

L’intento erotico è evidente, e tuttavia, per una volta, la fila-strocca infantile su cui si intesse lo libera dall’angoscia ed emerge un senso giocoso che solo raramente in Bataille non si mescola al beffardo. Tutto ciò appare in armonia con la meditazione prece-dente di lontana eco rilkiana in quella comunione con i morti, av-vicinati e ricompresi nel mondo dei vivi in una risata di spontaneità che solo la gioia dell’intesa reciproca e liberatoria consente. La co-munità batailliana non comprende solo le affinità di spiriti isolati dal mondo dell’utile ma, rilkianamente, coloro che strutturalmen-te dell’utile non possono più parstrutturalmen-tecipare e che sono riscattati alla vita dall’abbraccio del pensiero dei vivi. Qui Bataille ricorda l’Or-feo rilkiano che esorta i morti «a mescolarsi a ogni cosa veduta» 2. L’autore mostra qui e altrove un forte senso della presenza dei morti, di chi «giace alle radici e a noi manda in silenzio un super-fluo vigore di baci» 3.

È il superfluo di cui Bataille vive e che appartiene a quella che egli definisce l’esistenza umana. Il soggetto assoluto hegeliano si perde nell’essere ab-solutus, sciolto da sé nello sviluppo e quindi rovesciamento dello stesso negativo hegeliano. Se infatti la sua as-solutezza si solidifica e si identifica nel sapere, e se per Bataille ciò che caratterizza l’esistenza autentica umana è il non-sapere, l’esserci del soggetto ha carattere impersonale e disperso. La comunità

dé-soeuvrée comprende tutti coloro che non hanno un’occupazione

Se il mondo dei morti è l’altra faccia della vita nella poetica rilkiana, se per Heidegger siamo esseri-per-la-morte, in Bataille la presenza della morte assume un significato più forte, un significa-to che compendia riflessioni a lui contemporanee e precedenti. Nel-la discontinuità degli esseri che dà luogo alle singole individualità, secondo il principium individuationis di nietzscheana memoria, si colgono analogie con la teoria simmeliana della vita che produce le forme individuali distinguendosi dalla specie che sopravvive all’in-dividuo, mentre durante tutto il processo della vita l’uomo è sotto-posto alla morte 4. Il rapporto fra Essere ed esserci di Heidegger è in Bataille il rapporto fra soggetto ed essere che diventa l’aspirazio-ne alla continuità degli esseri, laddove l’essere è colto per mancanza e non per possesso. Il desiderio dell’esperienza di morte non è che il desiderio di sperimentare in sé la totalità dell’essere che si sconta rinunciando alla propria integrità. È ciò che accade, almeno in par-te, nell’erotismo in cui il desiderio dell’altro si accompagna alla vo-lontà di lacerazione e di autolacerazione. È vero, nell’erotismo non si giunge alla morte, ma, e ciò è rilevante contro esagerazioni inter-pretative, Bataille afferma a proposito dell’analogia fra il denuda-mento e il sacrificio: «La distruzione reale, la messa a morte pro-priamente detta, non riuscirebbe a introdurre una forma di eroti-smo più perfetta di quanto non faccia la vaga equivalenza di cui ho detto [...] Nel passaggio dall’atteggiamento normale al desiderio, è insito il fondamentale fascino della morte. Ciò che nell’erotismo è in gioco è sempre lo sconvolgimento dell’ordine, della disciplina, dell’organizzazione individuale, di quelle forme sociali, regolari, sulle quali si basano i rapporti da persona a persona [...] L’orribile eccesso del movimento che ci anima illumina semplicemente il sen-so del movimento stessen-so. Ma non è che uno spaventosen-so segnale che ci ricorda senza tregua che la morte, rottura di quella discontinui-tà individuale a cui ci inchioda l’angoscia, si presenta a noi come una verità più eminente della vita» (E, X, 24-25; 26-27). È una emi-nenza di carattere estetico che in nessun altro autore viene dichia-rata così fortemente. Solo l’arte e la letteratura giocano così da vi-cino con la morte, in una esperienza che, mimando quella dell’ero-tismo, sfiora l’accesso alla totalità dell’essere. Ma lo sfiora soltanto perché noi, come già aveva sostenuto Heidegger, abbiamo esperien-za della morte attraverso quella altrui. A ben vedere «la vita è ac-cesso all’essere: se la vita è mortale la totalità dell’essere non lo è. La vicinanza della totalità, l’ebbrezza della totalità, dominano la considerazione della morte» (E, X, 29; 31). Si tratta di un paradosso che può essere vissuto fino in fondo da chi ha il coraggio della

esperienza estrema. Se la vita nella sua totalità sovraindividuale non ha a che fare con la morte e l’accesso all’essere è dato all’individuo solo nella vita, l’esperienza della totalità dell’essere si apre solo con lo sfiorare da vicino la morte. In questo quadro lo sconvolgimen-to dasconvolgimen-to dall’eccitazione erotica «ci conferisce un sentimensconvolgimen-to che supera ogni altro, per cui le cupe prospettive connesse alla condi-zione dell’essere individuale cadono nell’oblio» (E, X, 29; 31).

Poesia e linguaggio Il titolo L’odio della poesia pur

nel-la sua oscurità rispondeva alnel-la convinzione batailliana: «che alnel-la poesia vera e propria accedesse solo l’odio»; che quindi la visione poetica non avesse «senso e potenza che nella violenza della rivol-ta» (IMP, III, 101; 6), ponendosi oltre e contro la convenzionalità di una poesia letteraria. Ma qui bisogna chiarire: lo stesso Bataille precisa che mai Baudelaire o Rimbaud gli hanno ispirato tale avver-sione. Certamente agli occhi di Bataille i due poeti hanno fatto esperienza di «violenza totale» e di «invivibile tragedia». La poesia quindi è ambito di pratica interiore che può dire l’indicibile, ma solo perché il linguaggio, senza essere annientato, rivela nella paro-la poetica paro-la sua insufficienza e paro-la sua vocazione al silenzio. In que-sto Bataille non si discosta, almeno teoreticamente, da Artaud che vedeva il linguaggio discorsivo come opposto e assolutamente inu-tilizzabile per la voce della poesia: «Ciò che appartiene all’immagi-ne è irriducibile alla ragioall’immagi-ne e deve dimorare all’immagi-nell’immagiall’immagi-ne sotto pena di annullarsi» 5. In più luoghi Bataille insiste sul fatto che la poesia eccede il pensiero e naturalmente il discorso, e tuttavia, co-me ha già riconosciuto ne Il labirinto, la poesia non pretende di superare il linguaggio e nemmeno di creare artificialmente un lin-guaggio solo poetico, piuttosto la poesia si apre dei varchi, e a fa-tica, negli spazi che la parola strappa ogni volta nello slancio del-la trasfigurazione o deldel-la violenza poetica al discorso categoriale. In questo senza dubbio, come egli stesso afferma, i suoi sforzi si situa-no a fianco del surrealismo. Il linguaggio poetico, come la pratica erotica o il rapimento amoroso, è trasgressivo e si situa sul piano dell’impossibile in quanto trova le parole sempre insufficienti e tut-tavia necessarie. L’insufficienza delle parole è sempre rivelata in quanto esse hanno un senso ma mai un significato preciso, sono parole fuori dall’universo del lavoro, dell’utile, della logica. La poe-sia trova quindi la voce per l’intensità dell’eccesso. Scrive Bataille: «il racconto che rivela le possibilità della vita… chiama un momen-to di rabbia senza il quale il suo aumomen-tore sarà cieco di fronte alle sue possibilità eccessive» (LBC, III, 381; 5).

L’esperienza interiore pone in termini decisi il rapporto tra

lin-guaggio e stato estatico. Qui Bataille scrive: «L’esperienza interio-re è condotta dalla ragione discorsiva. La sola ragione ha il poteinterio-re di disfare la sua opera, di abbattere ciò che ha edificato. La follia non ha effetto, poiché lascia sussistere le rovine, sconvolge con la ragione la facoltà di comunicare (forse essa è, innanzi tutto, rottura della comunicazione interiore) l’esaltazione naturale o l’ebbrezza hanno la virtù dei fuochi di paglia. Senza il sostegno della ragione, non raggiungiamo la cupa incandescenza» (EI, V, 60; 88).

La poesia è innanzi tutto il contrario del sapere e dell’avere, è simile alla notte e alla morte che sono fini mentre il sapere è mezzo. Bataille sottolinea come nell’ambito del sistema hegeliano che si preoccupa dell’uomo compiuto «poesia riso ed estasi non sono nul-la. Hegel se ne sbarazza in fretta: non conosce altro fine se non il sapere» (EI, V, 130; 177). In quest’ambito sembra vanificarsi in He-gel il negativo che, individuato nel suo valore teorico e nella sua realtà esistenziale, è superato nello spirito del sistema. «La sua im-mensa fatica – scrive Bataille – si lega ai miei occhi all’orrore del-la macchia cieca» (EI, V, 130; 177). La macchia cieca è il luogo oscuro del non discorso, dove le parole acquistano esistenza di per sé essendo il contrario dell’azione che ha luogo nel pensiero discor-sivo, immerso nella riflessione del progetto; quest’ultimo «non è solo il modo d’esistenza implicato dall’azione, necessario all’azione,

Nel documento Georges Bataille e l’estetica del male (pagine 123-149)