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II – Il mito solare in Van Gogh

Nel documento Georges Bataille e l’estetica del male (pagine 58-80)

Il giallo funesto dei girasoli Nei due brevi saggi che

Ba-taille dedica a Van Gogh privilegia, nell’esasperazione metonimica a lui congeniale, l’aspetto della follia che porterà il pittore al sacri-ficio. Proprio ciò che Bataille fa di Van Gogh è uno degli esempi più lampanti del suo metodo di alterazione poetica.

Si possono individuare due modi fondamentali per accostarsi a Van Gogh: quello consueto degli storici dell’arte e quello dei poeti e dei filosofi che videro in lui qualcosa che eccedeva la storia del-l’arte. In quest’ambito bisogna distinguere fra Jaspers da una par-te, e dall’altra Drieu de La Rochelle, Artaud, Bataille e René Char che operarono nei confronti del pittore un processo di identificazio-ne, facendone un mito e vedendo nel suo agire artistico e umano un ritorno al mito non solo come memoria ma anche come pratica.

Jaspers afferma: «Van Gogh avrebbe voluto dipingere Cristo, i santi e gli angeli; vi rinunciava perché ciò lo turbava e sceglieva con modestia gli oggetti più umili; anche in questi si avverte lo slancio religioso» 1. Descrive poi il movimento inquietante dei quadri: «La terra dei paesaggi pare vivere, si solleva e s’abbassa in onde, gli alberi sono come fiamme, tutto si torce e si tormenta, il cielo pal-pita. I colori ardono [...] La luce accecante del sole di mezzogior-no gli è congeniale. Vi è in lui un bisogmezzogior-no di realismo che lo fa indietreggiare di fronte ai soggetti mitici, alla pittura di idee, anche se ne è attratto, per rivolgersi con modestia a ciò che lo circonda. Questo mondo circostante diventa per lui mito, accentuandolo lo trascende» 2. Il filosofo tedesco, prima di Bataille, vede nel pittore la trasformazione in chiave mitica degli elementi circostanti e un carattere di realismo che in Bataille diventerà l’unica realtà che fi-nirà per distruggere Van Gogh. Senza definirla come tale, Jaspers individua quindi un movimento di dépense, rafforzato dal raffronto con Hölderlin in opposizione al carattere apollineo dell’arte e della personalità di un Goethe, sempre un poco distante e distinto dal-la sua opera. Nel caso di Van Gogh «il creatore si consuma

nel-l’opera. Ciò che lo consuma non è lo sforzo, il lavoro eccessivo, ma le esperienze e i movimenti intimi che esprime grazie ad una sem-plice modificazione funzionale, un crollo psichico che lo porta alla distruzione» 3; e con riferimento alle opere del 1888-90, leggiamo: «Quest’arte emana da una concezione del mondo che non è possi-bile formulare a posteriori, che l’artista non ha voluto cosciente-mente rappresentare: è un movimento che esprime lotta, stupore, amore. L’arte, anche nella sua perfezione, non è che un mezzo. Qui non c’è artificio, ma ritorno alla sorgente originaria. Ciò che si in-carna non è la tecnica acquisita, ma l’esperienza vissuta di una per-sonalità in sfacelo» 4. Parla il filosofo e lo psichiatra che, senza con-fondere arte e patologia, riconosce tuttavia nel carattere schizofre-nico di Van Gogh la radice di un’espressività estrema in cui

l’un-heimlich che Van Gogh era sempre stato, ormai si scatena senza più

remore fino alla “sorgente originaria”. Certamente Bataille avrebbe condiviso quest’analisi, e tanto più la convinzione jaspersiana secon-do la quale «la personalità, il talento preesistono alla malattia ma non hanno la stessa potenza» 5. Se dalle lettere indirizzate a Theo emerge fortemente la spiritualità evangelica di Van Gogh, la “fol-lia della croce” più che quella del mito, l’esito finale della sua vita non è con questa in contrasto: la schizofrenia appartiene agli eterni esiliati, stranieri dovunque, esclusi dalla comprensione e dalla con-divisione, una delle condizioni per la predilezione funesta di situarsi dalla parte dei vinti. «Mi sembra – scrive Jaspers – che la fonte intima dell’esistenza si apra per un istante, che i recessi più profon-di della vita vengano alla luce. Per noi quest’esperienza è sconvol-gente; non possiamo sopportarla a lungo e la fuggiamo. Nelle gran-di opere gran-di Van Gogh per un attimo la vegran-diamo realizzata senza che ciò la renda sopportabile. La nostra emozione non ci porta ad accogliere l’estraneo, ma ci spinge a trasformarlo in una figura a nostra misura» 6. È l’operazione tentata da Drieu de La Rochelle che, nei Mémoires de Dirk Raspe, si propone non una biografia del pittore quanto una raffigurazione mitica di se stesso.

Nello scritto di Bataille la vita di Van Gogh viene sintetizzata in un unico gesto sacrificale, scandito e anticipato da due o tre episo-di salienti, tappe miliari episo-di una vita episo-difficile e solitaria non soltan-to per scelta propria ma per abbandono da parte degli altri. Van Gogh non è solo, come si dice di tutti gli artisti, si sente, come Kafka, anche abbandonato. Gli manca l’orgoglio consapevole e in-tegro di un René Char che, nonostante la sua dichiarata “vicinan-za” con Van Gogh, dice: «Non sono solo perché sono abbandona-to. Sono solo perché sono solo, mandorla tra le pareti del suo

gu-scio».7 Char definisce Van Gogh inaccessibile, mentre “la cortina di spiegazioni” non lo esaurisce.

Il pensiero di Bataille su Van Gogh ruota e si sviluppa intorno a un’idea fondamentale: «Non è alla storia dell’arte, è al mito in-sanguinato della nostra esistenza d’umani che appartiene Vincent Van Gogh. Egli rientra nel novero dei rari esseri che, in un mon-do stregato dalla stabilità e dal torpore, hanno d’improvviso rag-giunto il terribile “punto di ebollizione” senza il quale ciò che pre-tende di durare diventa insipido, intollerabile e declina» (VGP, I, 500). Per Bataille questo “punto di ebollizione” non ha senso solo per il soggetto raro in grado di raggiungerlo «ma per tutti, anche se non tutti hanno ancora percepito ciò che lega il selvaggio destino umano allo irraggiamento, all’esplosione, alla fiamma e solo per que-sta via alla potenza» (VGP, I, 500). In realtà il fervido desiderio di Van Gogh era quello di far dono a tutti della sua arte, non ambi-va nemmeno alla gloria, l’arte essendo ai suoi occhi il talento da mettere evangelicamente a disposizione di tutti. Nel pensiero di Bataille Van Gogh diventa, come già Empedocle nella visione di Hölderlin, colui che si sacrifica per la comunità: ciò fa parte del “mito insanguinato”. In questo dilatarsi dell’arte per tutti Bataille sottolinea dell’arte stessa il carattere profondamente umano, di mo-mento estremo capace di comunicare e quindi di risvegliare un tur-binio di sensazioni e sconvolgimenti tali che senza di essi la vita umana sarebbe insulsa. All’affermazione di Bataille sembra fare eco quella di René Char: «guardando i suoi disegni, seppi che fino a quel momento egli aveva come lavorato per noi soli» 8. Char allu-de eviallu-dentemente alla “comunità inconfessabile” 9 cui egli stesso appartiene con Bataille, Blanchot e idealmente tutti coloro che han-no una concezione estrema dell’esistenza e il coraggio di uscire dal torpore. Senza questo coraggio che trascina fuori dalla normalità non c’è comprensione né del mito né dell’arte.

Se la mutilazione rappresenta il rito sacrificale di Van Gogh, il pittore non sarebbe arrivato ad esso senza la forza e la spinta di un’arte che lo portò molto più in là di quanto in genere non acca-da. Ma sembra che Bataille arrivi a questa conclusione solo alla fine della sua riflessione su Van Gogh, nell’articolo Van Gogh

Promé-thée (1937), scritto sette anni dopo La mutilation sacrificielle et l’oreille coupée de Vincent Van Gogh (1930), dove appare un Van

Gogh che rinnova miti e riti in un’epoca che li ha ormai relegati nella notte della leggenda. Prima e dopo il gesto sacrificale Van Gogh celebra il mito della materia cosmica; questa almeno è l’inter-pretazione di Bataille che in tal modo sottrae Van Gogh alla storia

dell’arte lasciandolo all’arte intesa come pratica estrema ed estati-ca. Se la tecnica e il talento sono per Van Gogh, come dice Jaspers, mezzi per esprimere la sua passione per l’esistenza, secondo Batail-le all’origine di una certa visione della natura e quindi di una cer-ta produzione artistica c’è un’ossessione sacrificale latente che cul-mina nel raptus in preda al quale l’artista si taglia l’orecchio e lo offre a una prostituta.

I miti della materia sono gli unici a sussistere in un mondo che ha abbandonato Dio, e il Van Gogh di Bataille sembra nascere sen-za Dio. Ma le cose non stanno così. Bataille parte da un desiderio di Van Gogh espresso in una lettera del 1889: dipingere il sole in tutta la sua gloria. Le biografie e le lettere testimoniano l’evoluzio-ne del pittore da attivista evangelico a uomo deluso che si rinchiu-de in una spiritualità intima, dove un diffuso senso di religiosità si è ormai sostituito alla predicazione evangelica. Scriveva Van Gogh al fratello nel dicembre del 1881: «Per me quel Dio degli uomini di chiesa è morto e sepolto. Ma sono forse ateo per questo? Gli uo-mini di chiesa mi considerano tale – ma io amo, e come potrei pro-vare amore se non vivessi e se altri non vivessero? C’è nella vita qualcosa di misterioso. Che venga chiamato Dio o natura umana o altro è cosa che non riesco a definire chiaramente, anche se mi ren-do conto che è viva e reale, e che è Dio o un suo equivalente» 10. Come sostiene Jaspers non viene mai meno in Van Gogh il «terri-bile bisogno di religione» 11. In realtà la mutilazione appartiene al periodo della follia, senza la quale, secondo Bataille, sarebbe im-possibile capire l’ossessione per il giallo e i girasoli. Se infatti il gi-rasole era già presente nell’opera di Van Gogh, solo più tardi egli dirà che il suo desiderio è di «dipingere il sole in tutta la sua glo-ria» e affermerà in una lettera del gennaio del 1889: «Sai che Jean-nin ha la peonia, che Quost ha la rosa, ma io ho il girasole» 12.

Il saggio di Bataille non si apre direttamente sul sacrificio di Van Gogh, ma su un gesto simile compiuto da un oscuro disegna-tore di ricami. Leggiamo con Bataille uno stralcio del rapporto de-gli Annali di psichiatria: il giovane «si accorse del sole, si suggestio-nò, fissò il sole per ipnotizzarsi immaginando che la sua risposta fosse affermativa e quindi con l’assenso del sole si strappa il dito» (MS, I, 259; 45). Bataille precisa: «Il dottor Borel mi ha segnalato questa documentazione allorché gli indicavo l’associazione che ero stato portato a fare fra l’ossessione del sole e l’automutilazione di Van Gogh. Questa osservazione non è stata dunque il punto di partenza del confronto, ma piuttosto la conferma dell’interesse che presentava» (MS, I, 258 n.; 56). Nell’interpretazione di Bataille,

Van Gogh e il disegnatore di ricami compiono un sacrificio costret-ti e trascinacostret-ti da una forza esterna: i raggi accecancostret-ti del sole. Ma se il rapporto fra il sole e l’imperativo sinistro dei suoi raggi è così chiaro nel caso clinico segnalato dagli “Annales”, non lo è per Van Gogh le cui biografie testimoniano, ancor prima del suo atto folle, un forte interesse artistico-cromatico per i colori solari e il giraso-le. Per Bataille essi diventano significativi solo a partire dalla mu-tilazione, che avviene nel dicembre del 1897. Non si tratta di un atto improvviso ma di un lungo covare che alla fine esplode. Sem-bra che a Bataille non interessi il percorso, e quindi il lavoro di accensione e di corrosione insieme, operato dall’immaginario di Van Gogh sui colori, e nemmeno gli interessa la malattia in sé ma – come egli dice – «il suo carattere sfrenato» (MS, I, 260 n.; 56, n. 2). Sottovaluta anche il fatto che Van Gogh soffrisse continuamen-te di labilità psichica – schizofrenica o epilettica non importa –: ciò che solo gli importa è il gesto sacrificale come rivelazione sull’ulti-mo periodo della vita dell’artista. È un peccato perché così Bataille sembra non cogliere, a differenza di Jaspers, quanto l’esasperazione portata dalla patologia abbia influenzato la sensibilità cromatica di Van Gogh, non solo nel gesto pittorico ma nell’acutissima e origi-nalissima riflessione testimoniata dalle lettere. Eppure Bataille stes-so stes-sostiene: «È relativamente facile stabilire fino a che punto la vita di Van Gogh sia dominata dai rapporti sconvolgenti che intrattene-va col sole, tuttavia questo argomento non era stato ancora affron-tato. I quadri con i soli dipinti dall’Uomo dall’orecchio tagliato so-no abbastanza coso-nosciuti, abbastanza insoliti per aver sconcertato: non diventano comprensibili se non a partire dal momento in cui sono visti come l’espressione stessa della personalità (o se si prefe-risce della malattia del pittore)» (MS, 259; 46). Su una cosa indub-biamente Bataille ha ragione: fino ad un certo periodo Van Gogh dipinge la «nota alta del giallo» 13 senza parlarne espressamente, anche se, come Bataille nota, «l’ossessione compare già a partire dal periodo parigino (1886-1888) con due disegni» (MS, I, 260; 46). Dino Formaggio fa una riflessione fondamentale, utile a capire il non detto di Bataille: il rapporto di Van Gogh non gioioso ma tragico col sole. Ricorrendo al Lawrence della Fantasia

dell’incon-scio, Formaggio spiega che la vita non deriva dal sole; al contrario,

è l’emanazione della vita stessa, ossia di tutte le piante e creature viventi, «a potenziarne d’umanità la luce nel suo risplendere sul mondo e nel mondo» 14. Le parole di Lawrence nascondono un’in-quietante affermazione su una sorta di antropofagia solare di un dio mostro che esige sacrifici, pronto quindi a divorare più che a

nutrire a sua volta. Ed è una traccia sulla via di un rapporto con la grandiosa bellezza cosmica, dietro la quale si nasconde per l’uomo un orrore tanto più inquietante in quanto da esso si è attratti come da una calamita. Senza dubbio è questa l’altra faccia del giallo pre-sente, da un certo momento in poi, in Van Gogh, e per Bataille la sola faccia. C’è in questo un’estremizzazione alterata della concezio-ne tipica del simbolismo, da Mallarmé a Char, e che sostituisce al senso romantico della natura l’incombere dell’universo cosmico che ispira col fascino un sentimento di sgomento. Il sole e gli astri non hanno nulla in comune con la nostra umanità e con la nostra liber-tà, sono guidati da una necessità indifferente. Nella visione batail-liana gli astri, e il sole in primo luogo, sono potenziali catastrofi, tale è il sole per Van Gogh che per sperimentarne gli effetti è di-sposto alla rovina.

Come si è detto l’ossessione solare era presente da tempo in Van Gogh, ma solo in una lettera del 1889 egli esprime il deside-rio di dipingere «il sole in tutta la sua gloria». Bataille azzarda: «È probabile che si esercitasse a fissare dalla sua finestra questa sfera abbagliante (cosa che un tempo certi alienisti hanno ritenuto un segno di follia incurabile)» ( MS, I, 261; 47); e lega la follia solare alla rappresentazione diretta non del sole, ma del girasole. Sarebbe quindi, da parte di Van Gogh, un modo ellittico per stabilire un rapporto col sole attraverso la rappresentazione del fiore che più da vicino lo ricorda e che segue il corso stesso del sole. Come Ba-taille sottolinea, nella lingua francese il girasole è chiamato anche semplicemente soleil, e del resto mai come nella follia il nome coin-cide con la cosa. Quando Bataille ricorda la lettera in cui il pitto-re dice di «avepitto-re un po’ il girasole» è difficile non leggepitto-re la frase nel modo in cui egli la intende, ovvero come la dichiarazione di un’ossessione più che di una predilezione estetico-cromatica. Co-munque sia, la non neutralità del girasole è dimostrata, secondo Bataille, dal fatto che nel momento della crisi del dicembre 1888 Gauguin, che viveva con Van Gogh, lo aveva ritratto mentre dipin-geva dei girasoli. Leggiamo ancora: «Questo stretto legame fra l’os-sessione di un fiore solare e il tormento più esasperato assume un valore tanto più significativo in quanto la predilezione esaltata del pittore sfocia talvolta nella rappresentazione del fiore appassito e

morto mentre nessuno, a quanto sembra, ha mai dipinto fiori

ap-passiti e Van Gogh stesso era solito rappresentare tutti gli altri fiori freschi» (MS, I, 260; 46). Il passo seguente con efficacia sintetica dà il quadro della situazione psicologica di Van Gogh e della sua identificazione con un sole a volte felice e a volte malato: «Questo

duplice legame che unisce il fiore astro, i soli-fiori e Van Gogh è d’altronde riconducibile ad un tema psicologico normale, in cui l’astro si oppone al fiore appassito come il termine ideale al termi-ne reale dell’io. È ciò che risulta abbastanza regolarmente, pare, nelle differenti varianti del tema» (MS, I, 260; 46). Ma il ricondurre la tematica del fiore ad una “situazione psicologica normale” avreb-be dovuto portare Bataille a riconoscere, per il periodo preceden-te la grande crisi, una poetica pittorica nella preceden-tematica in questione; mentre, ad onta delle sue stesse riflessioni, egli vede in atto soltanto un’operazione di trascendimento, in virtù della quale forze a lui estranee avrebbero suscitato il gesto pittorico di Van Gogh. Il ten-tativo di Bataille è di fare del motivo solare un elemento mitico allo stato puro.

Di fatto le lettere del pittore riflettono con dolente lucidità il decorso di un male dagli incerti contorni e, prima ancora, di una forte fragilità psicologica unita però alla consapevolezza della ne-cessità e dell’urgenza dell’autoesaltazione creativa. In questa luce il termine ideale di cui parla Bataille, confermato dai dati biografici, è Gauguin. Nei famosi quadri delle sedie vuote di persone, gli og-getti che le occupano, nella loro simbologia, riprendono più o me-no direttamente il fuoco (la pipa, la bugia con la candela), adom-brando la figura solare di Gauguin. In una lettera del dicembre del 1888 il pittore descrive a suo fratello un quadro: «La poltrona di Gauguin rossa e verde, atmosfera notturna, muro e pavimento an-ch’essi rossi e verdi, sulla sedia due romanzi e una candela» (MS,

I, 261; 48). Bataille riporta anche passi di una lettera del 17 gen-naio 1889 in cui Van Gogh scrive: «Vorrei proprio che De Haan vedesse un mio studio di una candela illuminata e due romanzi (uno giallo, l’altro rosa), appoggiati su una poltrona vuota (proprio la poltrona di Gauguin), tela da trenta in rosso e verde. Anche oggi ho lavorato al suo gemello, la mia sedia vuota, una sedia di legno bianco con una pipa e una borsa di tabacco. Nei due studi come negli altri ho ricercato un effetto di luce con del colore chiaro» 15. Secondo Bataille, già ad una semplice osservazione ci rendiamo conto che non si tratta di una poltrona o di una sedia, ma delle «persone virili dei due pittori». Le due opere messe a confronto rivelerebbero un forte contrasto a favore di Gauguin, «una pipa spenta (un focolare spento e soffocante) s’oppone a una bugia ac-cesa, un miserabile cartoccio di tabacco (prodotto disseccato e cal-cinato) a due romanzi ricoperti di carta dal colore vivace» (MS, I, 262; 48). È il momento in cui l’antagonismo da parte di Van Gogh nei confronti di Gauguin culmina nell’odio. Ma la collera contro

l’amico non è che una delle forme di lacerazione di fronte a chi gioca un ruolo dominante, tanto da diventare figura ideale «che assume le aspirazioni più esaltate dell’io fino alle conseguenze più dementi: l’umiliazione odiosa e disperata con la sua contropartita sconcertante, l’identificazione stretta di ciò che umilia con ciò che è umiliato» (MS, I, 262; 49). Si tratta solo a prima vista della ma-nifestazione palese del fenomeno psicanalitico del doppio, in cui si esaurirebbe e imploderebbe insieme l’atteggiamento di Van Gogh.

Nel documento Georges Bataille e l’estetica del male (pagine 58-80)