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I – La via dell’impossibile

Nel documento Georges Bataille e l’estetica del male (pagine 97-123)

L’illusione del bello di natura Nel senso moderno la

sensi-bilità estetica oscilla fra un tentativo di conciliazione fra io e mon-do, in uno sforzo di omogeneità di cui la rappresentazione in quan-to immagine non può fare a meno, e la consapevolezza, al culmine in Bataille, nella più forte immediatezza del sentire, di una realtà estranea che risulta frammentaria e stridente. L’articolo del 1938 Le

paysage ne è una conferma. Qui Bataille scrive: «Un uomo può

ri-conoscere l’abbandono in cui si trova. L’universo lo ignora come un vetro ignora la vespa che si infrange contro la sua superficie il-lusoria» (P, I, 521). Accade lo stesso per gli uomini: visi aperti in apparenza ma altrettanto impenetrabili del vetro. E tuttavia «ogni volta che l’uomo si scontra con l’impossibile trova in se stesso un’attitudine notevole a riconoscere dei segni che annunciano la prossima riuscita e la liberazione della sua pena» (P, I, 521). L’estraneità viene dunque colta come ostacolo ma anche come un impossibile da superare. Ci vengono incontro le illusioni: «La varie-tà infinita delle apparenze ha disposto facilmente le prospettive mu-tevoli della speranza: la stella dei magi è animata da un grande splendore ogni volta che brilla al di sopra del cammino che condu-ce alla morte» (P, I, 521). Si prospetta un crescendo di incanto e di turbamento insieme, rafforzato dall’immagine successiva introdot-ta dal secondo riferimento biblico: «Le siepi in fiamme all’estremità di un campo, lo scheletro dell’uccello sulla spiaggia, la costellazione scintillante» (P, I, 521), sono segni di una qualche gioia che nasce già minacciata perché «gli uomini sono agitati dalla speranza come fiamme nel vento» (P, I, 680 n. 3). Sembrerebbe comunque una correzione della prima disincantata affermazione sull’indifferenza dell’universo, tanto più in quanto l’autore afferma che persino il deserto, i luoghi senza vita «parlano all’uomo e gli comunicano delle emozioni cariche di speranza» (P, I, 521), quasi che dovessero dare delle risposte alle sue, peraltro insensate, domande. Fin qui Bataille descrive, non senza partecipazione, i nostri consueti e

illu-sori sentimenti di fronte all’aspetto (chaque figure) delle cose. Il to-no però cambia bruscamente e dalla descrizione si passa alla do-manda: «Che significato hanno queste fontane di Roma o queste cime nevose dell’Engadina? Il sole o la notte sono qualcosa di più di un caso felice? E come mai un paesaggio – formato d’apparen-ze messe insieme senza alcun senso – seguendo i punti in cui si sof-ferma lo sguardo- è così vuoto e senza fascino, un po’ più lontano breccia aperta sul mondo abbagliante?» (P, I, 521-522). Nient’altro che una legge di affinità o di contrasti spiega secondo Bataille «gli effetti che pongono fra noi e il vuoto inesorabile uno schermo com-posto da un gioco di luci umanizzate» (P, I, 522). E se i fiori, gli uccelli e i prati riempiono il nostro spirito di un senso di beatitu-dine, i deserti e le notti di tempesta non mancano ugualmente di colmarci di sentimento, e lo stesso accade per il paesaggio urbano che oppone al fasto dei ricchi il nefasto mondo dei poveri 1. In altri termini, sappiamo appagarci col bello e col sublime. Ma ciò acca-de ogni qual volta il caso dispone felicemente luci ed ombre in mo-do tale che risultino gradite a quegli esseri «ora saturi di giorno, ora saturi di notte» che noi siamo. Allora «la vita può anche non scor-gere nulla di estraneo e di vuoto sulla scena nella quale essa viene giocata. Ma l’illusione dipende da una coincidenza aleatoria» (P, I, 522). Lo schermo in cui luci ed ombre si dispongono a darci l’illu-sione del paesaggio sparisce come le immagini di un sogno. La con-clusione riprende il linguaggio di Baudelaire: «La noia, la noia sen-za partecipazione (sans coeur) e sensen-za disgusto si impossessa allora dello spazio occupato dalla volontà di vivere – la noia durevole e fredda che riduce le fontane, le cime, i bei paesaggi a ciò che sono» (P, I, 522) Non si può non sentire l’eco del linguaggio di Baudelai-re, ma rovesciato: qui il tedio viene invocato come luogo di verità e, ciò che più colpisce, il senso del paesaggio farebbe parte della volontà di vivere, vista come il versante della debolezza e della il-lusione volontaria. C’è però un motivo profondo che non è sotto-lineato esplicitamente: il senso del paesaggio con la sua consolazio-ne – non a caso in Kant il bello naturale vivifica le nostre facoltà – ci toglie come il velo di maya la possibilità di avere il senso dell’uni-verso, di respirare l’aria algida del cosmo che non è diversa dal freddo, estraneo vento del labirinto sotterraneo. Inseriti nel paesag-gio ci illudiamo di non essere soli nel cosmo mentre la noia non ci consente più di continuare a sbattere contro il vetro dell’illusione. La noia «dà in qualche modo all’uomo che ne è schiacciato la pos-sibilità di aprire sull’universo gli occhi senza speranza e vuoti di comprensione della vespa che muore» (P, I, 522). È senza dubbio

un’esperienza spaventosa dalla quale l’uomo può trarre però le sue conclusioni. «Non si tratta solo di allontanare il ricordo delle zam-pillanti illusioni: nei suoi occhi calmi ma perduti verso un orizzonte fuggevole, l’immagine dell’avvizzimento definitivo doppia quella del fiore privato del suo splendore. Egli guarda allora con una collera lenta il mondo delle illusioni. Si rinchiude in un silenzio pesante e con una gioia che lo angoscia poggia il piede nudo sul suolo umi-do, fino a sentirsi affondare nella natura che lo annienta» (P, I, 522). La natura è tutt’altro dal paesaggio che sgorga invece da una nostra illusoria esigenza e mentre ci rende familiare un mondo estraneo ci allontana dalla verità. Qui si affaccia col suo pessimismo il Bataille della tradizione dei moralisti: la verità è la nostra unica dimensione e in essa si prova una gioia carica d’angoscia che man-tiene per noi lettori un sapore di contraddizione: quella “lenta col-lera” che affiora nello sguardo vuoto e arido sembra tutt’altra cosa rispetto alla dionisiaca violenza piena di immagini de Il labirinto o de La Mère-Tragédie. Il paesaggio, essendo a misura d’uomo, è pos-sibile solo in una natura umanizzata mentre Bataille vuole lasciare la natura a se stessa, indipendente dall’uomo, per non ricadere nel-l’ambito di un umanesimo che rifiuta.

Sembrerebbe delinearsi una totale insensibilità nei confronti del bello naturale. In realtà da un lato si legge una resistenza voluta all’illusione del paesaggio; dall’altro lato c’è da parte di Bataille un rifiuto alla pretesa dell’intuizione cosmica nel suo insieme se non attraverso il salto. La nozione della natura appare come un punto limite teorico ed estetico continuamente suscettibile di contamina-zioni. La sua idea di universo o di cosmo puro non toccato dal no-stro sguardo viene affermata e disattesa continuamente in una scrit-tura nella quale la nascrit-tura è presente come luogo di rimbalzo del negativo. La natura finisce con l’essere essenzialmente spazio popo-lato di oggetti, l’uomo tra essi, indifferenti fra loro mentre la tota-lità del vuoto li ignora. E tuttavia, come già in Chevelures, si ripro-pone nei testi batailliani un’analogia, e quindi una forma di comu-nicazione, fra gli oggetti dell’universo e l’uomo. Da questo punto di vista il testo più significativo è L’impossible (1962), nelle cui pagi-ne emerge la natura vista come il fuori di sé in cui si cerca il com-pletamento, la sufficienza dell’esistere, riconoscendosi alla fine nel-l’altro.

Significativi appaiono i seguenti passi: «Non una riga in cui, co-me al sole la rugiada del mattino, non giochi la dolcezza dell’ango-scia» (IMP, III, 161; 87). Noi non siamo abituati a concepire l’an-goscia come dolce, mentre Bataille esprime con estrema

semplici-tà in un ossimoro velato la contemporaneisemplici-tà dell’urgenza di scrivere con l’angoscia di distruggersi che è alla base della scrittura 2. An-che il cielo è legato all’angoscia: «Nell’inumano silenzio della fore-sta, sotto la luce plumbea, opprimente, di grosse nubi nere, perché andai angosciato, immagine derisoria del Delitto, inseguito dalla Giustizia e dalla Vendetta? Ma ciò che infine trovai, sotto un rag-gio di sole fiabesco e nella solitudine fiorita delle rovine, fu il volo e il grido meravigliosi di un uccello -minuscolo, beffardo e ornato del piumaggio variopinto di un uccello delle isole! E ritornai trat-tenendo il respiro in un alone di luce impossibile, come se l’inaffer-rabile afferrato mi lasciasse posato su un piede» (IMP, III, 173; 101). Il respiro lirico del testo si commenta da sé, ma quel che è notevole è il fatto che Bataille smentisce se stesso: il paesaggio è un’illusione, ma è difficile sottrarsi ad esso. Anzi Bataille si spinge o viene spinto più in là: una sensibilità acuta lo porta non solo al senso di incantesimo ma addirittura a sentire presenti gli assenti: «Come se un silenzio di sogno fosse D., che un’assenza eterna ma-nifestasse. Rientrai furtivamente: colpito da incantesimo»(IMP, III, 173; 101). Certo quel che si trova in questa pagina non è il rifles-so di una composizione della natura in paesaggio e nemmeno la pretesa dell’intuizione della sua totalità, sono i singoli elementi – il raggio di sole, l’uccello che sembra venire da altri luoghi – che por-tano l’incanto della scoperta di ciò che accade una volta soltanto e solo per noi, non per necessità ma per grazia. Il paesaggio viene continuamente posto e distrutto a vantaggio dei singoli elementi, e come sempre la luce scaturisce dall’ombra e dal nero. La natura ha i segni dell’ignoto, dell’inintellegibile, che si accompagna alla pos-sibilità di afferrare per un attimo l’inafferrabile per proiettarsi su dimensioni altre, vaghe ma non per questo meno avvertite. È que-sta un’opera letteraria di finzione, ma Bataille finge avvenimenti e non sensazioni 3. Ha provato ciò che dice, altrimenti non lo avreb-be detto. Il testo prosegue: «Mi sembrava di questa casa, che la vi-gilia mi aveva sottratto mio fratello, che un soffio dovesse rove-sciarla. Essa si sarebbe sottratta come D., lasciando dietro di sé un vuoto, ma più inebriante di tutto al mondo» (IMP, III, 173; 101) 4. Una natura non conciliata ed estranea suscita o riecheggia l’ango-scia del nostro essere, ma l’angol’ango-scia è la verità; del resto Bataille afferma più volte che senza angoscia non potrebbe vivere, allo stes-so modo in cui «camminare, in una bufera, su un sentiero di mon-tagna senza attrattive, non è un riposo (assomiglia di più a una ra-gion d’essere)» (IMP, III, 108; 15). L’attrattiva ci riconferma nel nostro mondo angusto che arrediamo di cose piacevoli, ma

l’uccel-lo variopinto e la siepe in fiamme al limitare del prato sono in sé e non per noi: o sono segni di illuminazione o vengono sviliti. Quan-do afferriamo tutta l’angoscia di cui sono carichi aprono spazi che attraggono in un vuoto, in un nulla in cui si può provare tutto ciò che le normali attività non contemplano nemmeno. Il paesaggio conforta il nostro modo d’essere, la natura o l’universo cosmico che percepiamo con l’angoscia ci pone di fronte alla nostra “ragion d’essere”, che non consiste né nella serietà né nella realtà, ma nel-l’impossibile.

Dalla visione del cosmo l’accento si sposta sull’uomo che ha col cosmo inorganico, nonostante l’alterità irriducibile, un momento comune nel negativo assoluto. Si tratta della notte del male come momento di comunicazione assolutamente gratuita e fine a se stessa.

Le petit (1943) affronta il tema dell’essere di fronte al male in

termini che oscillano fra l’estrema crudezza e la nota poetica che anima anche L’Impossible. Le petit è nel linguaggio batailliano una traduzione dell’occhio cieco che da parodico ano solare, centro iro-nico del mondo, diventa ciò intorno a cui ruota la sessualità prima-ria e rimossa che infine tutto muove al posto di Dio. Del resto: «Dire: “Dio è il male” non è affatto ciò che si immagina. È una ve-rità tenera, un’amicizia per la morte, uno scivolare verso il vuoto, l’assenza. Ma Dio non è il male: non è il male non essendo il bene. Io lo colgo nel male, gli esseri si uniscono, conoscono l’amore illi-mitato nel male» (LP, III, 43; 185). È il male disinteressato che è alla base di ciò che la società «ha di intimo e di dolce». È ancora una volta l’unione poetica del “piccolo” col cosmo: «Il “piccolo”: irradiazione di agonia, della morte, irradiazione di una stella mor-ta, splendore del cielo che annuncia la morte – bellezza del giorno al crepuscolo sotto nuvole basse, acquazzone spazzato via dal ven-to». E ancora: «Dormo e sogno. [...] Il mio sogno risponde allo stato di stella morta in cui mi trovo, la stella morta brilla ancora da lontano, perde i suoi raggi in una immensità che vive: io mi raccon-to morraccon-to» (LP, III, 40; 182). Le petit è un testo fortemente erotico scritto con l’intento di reclamare il giusto posto per quella parte di noi stessi che è stata esclusa, per protestare contro «l’elusione di ciò che [l’uomo] ha sotto» (LP, III, 38; 180) 5. La crudezza senza reticenze di un indugiare su parti nascoste e trasgressive non ha comunque il senso di un generico rifarsi a verità psicanalitiche, ma quello di un richiamo all’infanzia e all’orrore che si crea nella re-pressione e nel rimosso: «Se evoco un’infanzia insudiciata e irreti-ta, condannata a dissimulare, è la voce più soave che dentro di me grida: sono io il “piccolo”, non ho altro luogo che nascosto. Non

è facile immaginare la tenerezza del piccolo condannato alla catti-va coscienza. Verrebbe da piangere insieme con me, a sentirlo le-gato, ridotto a essere soltanto orrore, nel suo coraggio ombroso e tenero» (LP, III, 38; 180). Con straordinaria sottigliezza linguistica in questo passo Bataille scrive piccolo senza le virgolette, a indicare l’identificazione metonimica fra le pulsioni del bambino e un suo punto del corpo, pulsioni che diventano tanto più invasive quanto più proibite. In questo come in altri passi Bataille, certo senza vo-lerlo e senza pensarci, raggiunge la poesia in virtù del carattere me-tonimico del suo discorso. Questo testo dissacrante che sembra ol-trepassare la soglia consueta del dicibile, traduce la trattazione freu-diana della sessualità anale in termini soggettivistici e sofferti. Quando Bataille scrive: «“Dio è il male”» (LP, III, 43; 185), Dio rappresenta l’ultimo imperativo categorico contro i rischi dell’ab-bandono del sacro, del divieto in quanto tale, del Male in quanto disordine e apertura. Affermare che Dio è il Male propone attra-verso uno slittamento linguistico sostitutivo la funzione feconda e umana del Male e richiama il senso del sacro attraverso il senti-mento forte del divieto. Il negativo è infatti il segno dell’intimità più profonda: «Gli uomini si misconoscono nel bene e si amano nel male. Il bene è l’ipocrisia. Il male è l’amore. L’innocenza è l’amore del peccato» (LP, III, 38; 179). È l’ultima barriera contro il neutro grigio dell’esistenza, in virtù di essa l’universo illuminato a giorno dai lumi della scienza e delle scienze mantiene i suoi eccessi notturni. Se Freud ci illumina su aspetti sgradevoli della nostra ses-sualità col rischio però di neutralizzarli, Bataille si incarica di con-servarne il tabù che seduce e crea lo iato fra desiderio e ordine. In questa ottica il senso trascendente del divino si trasforma o torna ad essere come nei primordi, mischiato all’immanenza, nel sacro. E in modo aforistico, senza che se ne stabilisca quindi una contigui-tà discorsiva, ma nell’affermazione dirompente e scandalosa, Batail-le chiama in causa i due poli fondamentali del nostro essere, il sa-cro e il sesso (la sa-croix, la queue), come ciò che maggiormente pesa sulla nostra esistenza: eccessivi entrambi, vivibili soltanto nella sfera dell’impossibile nella quale la nostra natura di esseri isolati si inter-rompe e dove cessa l’esistenza personale. È uno stato di vita e di morte insieme.

Al fondo dell’essere esiste un noi, spazio franto e lacerato dove comunichiamo in ciò in cui siamo uguali: dividiamo la stessa colpa d’avere ucciso Dio rendendo sacro il nostro crimine e la colpa di essere legati al corpo con i suoi desideri. Si tratta del residuo non fungibile ai fini dell’utile e della intelligenza sensibile prima che

essa sia asservita all’accumulazione del sapere; il residuo della ma-teria e della corporeità che non può scivolare nella china della spi-ritualizzazione, ma insieme è anche l’azione dell’intelligenza che si erge al di sopra dei limiti che la ragione teoretica le ha assegnato. Bataille paragona la filosofia «a una festa di nozze in campagna: nessun problema, solo con la testa dolorante, Kierkegaard che in-terroga (si dà delle risposte, inin-terroga ancora)» (LP, III, 49; 191). Un modo per dire che la filosofia non dà risposte ai problemi fon-damentali che riguardano non il sapere, ma l’esistere: fra i «nugo-li di professori» solo Kirkegaard si aggira con la testa che g«nugo-li duole per l’angoscia di vivere non di sapere. Bataille afferma: «dò a chi lo voglia una ignoranza in più» (LP, III, 51; 193).

La colpa e la poesia L’esperienza che ne L’impossibile

collega la presenza di un assente alla luce improvvisa di un raggio di sole, costituisce un superamento della natura “statica e data” che lega l’uomo alle leggi: «La natura mi gioca, mi getta più lontano di se stessa, al di là delle leggi, dei limiti che fanno che gli umili l’ami-no» (IMP, III, 217; 157). Quel raggio di luce consente un salto, un segno d’immensità non raggiunta, non per difetto ma per eccesso: «Io sono nel seno di una immensità, un di più eccedente questa immensità. La mia felicità e il mio essere stesso scaturiscono da questo carattere eccedente» (IMP, III, 217; 157). Kant definiva tut-to ciò infinità della ragione e il problema dell’infinitut-to non è certut-to estraneo alla riflessione batailliana, anche se per Bataille l’infinito assomiglia di più al vuoto e al nulla, legati al possibile di una espe-rienza dilatata fino all’impossibile

Il senso di eccedenza che la stessa natura apre con i suoi limi-ti, come il varco nella natura limitata del singolo io, dipendono da un senso di ribellione, motore di ciò che è veramente umano: «Il cuore è umano nella misura in cui si rivolta (questo vuol dire: es-sere un uomo è “non inchinarsi davanti alla legge”)» (IMP, III, 217; 158). In quest’ambito la poesia è essenzialmente salto, mantenersi in bilico sull’eccesso e non accettazione ma superamento della na-tura. Qui affonda la radice teorica ed esistenziale di un tipo d’ar-te che a partire dalla torsione viziosa raggiunge la deformazione e lo stravolgimento totale degli oggetti. La poesia è eccedere non so-lo la natura ma l’universo stesso, del quale si è assolutamente liberi di stravolgere col pensiero e con l’attività mimetica l’ordine appa-rente. In questo gioco di eccessi c’è il rifiuto d’inserirsi nella natu-ra. Se accetto la natura «io giustifico il mondo dato, me ne accon-tento» (IMP, III, 218; 158). Ma a questo punto si profila

un’alter-nanza contraddittoria e irrisolvibile di lucidità e perdita di sé, di oscillazione fra la riflessione calma e attenta sul possibile e la ver-tigine e il disordine dell’impossibile, in altre parole fra lo stato este-tico-estatico e i mezzi per raggiungerlo. «La chiara distinzione dei diversi possibili, il dono di venire a capo del più lontano, dipendo-no dall’attenzione calma. Il gioco senza ritordipendo-no di me stesso, l’an-dare al di là di ogni dato esige non solo questo riso infinito, ma questa meditazione lenta (insensata, ma per eccesso). È la penom-bra e l’equivoco. La poesia allontana nello stesso tempo dalla notte e dal giorno. Non può né mettere in questione né mettere in

Nel documento Georges Bataille e l’estetica del male (pagine 97-123)