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III – Il maleficio nella letteratura: Michelet

Nel documento Georges Bataille e l’estetica del male (pagine 188-196)

Il mondo notturno dei sabba Nello scritto su Jules

Miche-let il carattere essenziale della Miche-letteratura e dell’arte, altrove acco-munato col sacrificio sul piano più generale dell’eterogeneo, emer-ge più distintamente sotto il segno del maleficio. Si tratta della pre-fazione alla riedizione nel 1946 de La Sorcière, l’elegia di Michelet sulla donna, un testo nel quale la poesia si intreccia con la storia 1. La via seguita da Michelet non è una strada maestra in cui l’au-tore si muova con sicurezza scientifica e metodologica («credo che egli fosse come smarrito» afferma Bataille), tuttavia il suo è un per-corso che agli occhi di Bataille, poco interessato in questo ambito alla verità storica, conduce verso le vie del Male. Bataille precisa i contorni di questo Male: non si tratta della forza che ci permette l’abuso nei confronti dei più deboli, «ma di quel Male che va con-tro il proprio interesse, e che è voluto da un desiderio folle di li-bertà» (LM, IX, 210; 59). Le informazioni che abbiamo sulla stre-goneria, per quanto scarse e alterate dal momento che si tratta di documenti dell’Inquisizione, ci permettono di vedere in essa i ca-ratteri del maleficio. Infatti, secondo Bataille, la tortura e la messa a morte da parte dell’Inquisitore non è che la condanna esaspera-ta di atteggiamenti e pratiche che, a differenza di quelle riconduci-bili al sacrificio – carico di valori e valenze collettive e sociali – ri-spondono soltanto ad esigenze private, a necessità esistenziali del-l’individuo e sono legate alla magia. Il sacrificio, benché terreno di distruzione e di morte, ha come fine la conservazione, istinto inse-parabile della nostra condizione di esseri finiti, cioè mortali. È pro-prio dell’essere infatti stabilire i limiti che lo mantengono nella vita; tuttavia il nostro esistere si oppone alla finitezza che a sua volta è resa tollerabile dall’esperienza dell’instabilità dell’essere. I sacrifici che si compongono di distruzione e di morte se sono considerati criminali nei fatti, nella loro essenza sono contemporaneamente funzionali alla comunità che, attraverso la distruzione di una par-te dei suoi beni, si assicura la sopravvivenza: è questa la pratica

storica del sacrificio, ma Bataille vuole qui risalire a ciò che fu al-l’origine la sua essenza. Alal-l’origine, secondo Bataille, il sacrificio stava nel rapporto fra essere ed esistenza possibile, quell’esistenza che in orrore della morte «ci spinge il più lontano possibile dal regno delle tenebre» (LM, IX, 213; 62). Lo stesso «desiderio di

ele-varci» è uno dei tanti modi di manifestarsi di una forza che ci

spin-ge «agli antipodi della morte» Si tratta di «uno stimolo angoscioso» che non agisce solo sul nostro istinto ma anche sulla creazione di principi morali. In altri termini, le elaborazioni spirituali, la mora-lità e il bene comune che noi esibiamo con parole alte, vengono in realtà da un sentimento di negazione della morte in cui esprimia-mo in chiave positiva un vuoto «rivestito dello smalto di valori ri-splendenti». Per quanto questo atteggiamento sia connaturato al nostro essere e costituisca il fondamento della nostra vita «noi non potremmo mai attenerci ad esso in modo assoluto» (LM, IX, 213, 62). Nella visione di Bataille la vita stessa reclama, insieme ai valori e al desiderio della durata, «le ombre della morte» che lascia in-grandire in sé «fino ai limiti dell’esistenza, fino alla morte stessa» (LM, IX, 213, 62). È questa la caratteristica del maleficio che si configura quindi come sacrificio allo stato puro, senza altra finali-tà al di fuori di sé, sotto il segno della assoluta gratuifinali-tà. Alla nostra esistenza di uomini, infatti, non è sufficiente «che le ombre della morte rinascano nostro malgrado: dobbiamo anche richiamarle

vo-lontariamente – in modo rispondente con esattezza ai nostri

biso-gni» (LM, IX, 213, 62). In questo quadro il maleficio riconduce l’esistenza all’essere, è dalla parte dell’essere contro l’esistenza limi-tata che vuole contemporaneamente vivere e travalicare i limiti.

Come abbiamo visto, è congeniale alla nostra natura di uomini il tentativo «di introdurre nella vita, offendendola il meno possibile,

la maggior quantità possibile di elementi che la avversano» (LM, IX, 215; 64); ciò definisce la funzione compensativa della pratica del sacrificio che tenta di raggiungere i suoi fini riducendo per quan-to può «l’intrusione di elementi foschi». Questi elementi sono pre-senti invece nelle arti magiche della stregoneria. Almeno questa è l’interpretazione dei sabba che viene suggerita a Bataille dalla let-tura di Michelet. I sabba sono innanzitutto la parodia del sacrificio cristiano, quindi al di là della veridicità o meno di ciò che realmen-te in essi accadeva, quel che conta è che «avevano il valore signifi-cativo di un mito o di un sogno» (LM, IX, 217; 66). Un significa-to che ha le sue ricadute nell’anima individuale dalla quale sgorga con nessun altro scopo se non quello di soddisfare un desiderio contro la razionalizzazione presente nel sacrificio cristiano,

tenden-te a soggiogare lo spirito. Lo spirito della stregoneria si realizza in modo antagonistico al sacrificio cristiano, cercando di opporsi in tutti i modi possibili, e la libertà della pratica magica sembra il ter-reno adatto per riaccostarsi con ogni mezzo all’oggetto dell’orrore, a Satana, alle potenze del Male in opposizione al Bene imposto dal Cristianesimo. Bataille cita Michelet: «Gli uni non ci vedevano al-tro che terrore, gli altri erano commossi dalla fierezza melanconica in cui sembrava assorto l’eterno Esiliato» (LM, IX, 217; 66) 2. Non può sfuggire il registro poetico e simpatetico di Michelet di fronte alle evocazioni magico-sataniche delle streghe. L’evocazione di Sa-tana si compie nella direzione delle tenebre contrapposte alla luce del Bene di fronte al quale l’inversione è tanto forte da divenire ol-traggiosa e blasfema 3. «In questa inversione – scrive Bataille – al vertice dell’idea di sacrificio, l’immagine della morte infamante di Dio, la più paradossale e la più ricca è sorpassata» (LM, IX, 217; 66). A questo superamento non è estraneo un carattere parassitario, in quanto inversione del tema cristiano, ma quella che Bataille de-finisce «l’audacia già eccedente dell’inversione» è il culmine di un movimento dell’animo teso a richiamare con la maggior forza pos-sibile quell’aspetto dell’orrore legato alla morte che generalmente siamo portati a fuggire. Michelet, in altri termini, viene letto alla luce di una realizzazione, che una volta sarebbe veramente accadu-ta, del sacrificio puro.

Bataille inoltre individua nell’inversione parodistica della messa nera un elemento di contaminazione in virtù del quale, in tempi in cui la civiltà contadina non si ritrovava più nella Chiesa ufficiale, si sarebbe quasi verificato un ritorno della gnosi. Leggiamo infatti: «La grandezza sconosciuta di questi riti di contaminazione, il cui senso è una nostalgia di contaminazione infinita, non si valuta certo più del dovuto» (LM, IX, 217; 67). La gnosi era contaminazione di alto e basso e secondo Michelet «è tipico del Medioevo mettere sempre faccia a faccia il molto alto e il molto basso»; riferendosi alle sto-rie d’amore dei poemi cavallereschi, aggiunge: «Quello che i poe-mi nascondono possiamo scorgerlo altrove. A queste passioni ete-ree si mescolano visibilmente molte volgarità» 4. Nulla però auto-rizza a pensare che Michelet avesse in mente le contaminazioni gno-stiche che è dato intravedere nel commento di Bataille il quale non si preoccupa nemmeno di chiedersi quanto di leggendario o di reale ci fosse nei sabba. Non a caso l’analisi dell’opera di Michelet avvie-ne sotto il segno della letteratura. Bataille non è affatto interessato al contenuto di scientificità del testo, ma al suo contenuto di verità esistenziale nel senso, già sottolineato, del superamento del puro

desiderio di autoconservazione per andare verso gli estremi del pos-sibile. Il significato del sabba è già definito, secondo Bataille, nel-la violenta reazione da parte delnel-la Chiesa. Ma c’è un aspetto che nella visione batailliana è molto più importante: «I popoli – egli dice – hanno perduto da allora il potere di soddisfare i loro sogni per mezzo di riti» (LM, IX, 217; 66). A questo punto non importa mol-to che cosa accadesse durante le messe nere e se fossero veramente tali, conta invece che l’umanità abbia tentato una pratica per i suoi sogni, per esprimerli all’esterno e collettivamente non come nei ri-tuali sacrificali a fin di Bene, ma per esternare una forte e prorom-pente esigenza interiore. I sabba hanno quindi un carattere di festa e «Michelet ha il merito di avere accordato a queste feste del non-senso il valore che è loro dovuto. Egli ne ha restituito il calore uma-no, che non è tanto quello dei corpi, quanto quello dei cuori» (LM,

IX, 217; 66). Naturalmente non si è trattato di tutta l’umanità ma solo di quella parte che, non avendo nulla da perdere, non aveva più nulla da “calcolare”. Il non-senso di cui parla Bataille ha una doppia valenza: non solo è totalmente inutile sul piano pratico, ma appartiene agli emarginati. Michelet drammatizza con molta effica-cia il legame tra il rito e la rivolta: «Avvenne di colpo, credo; un’esplosione di furia geniale che portò l’empietà all’altezza delle collere popolari. Per capire cos’erano queste collere, bisogna ricor-dare che il popolo, tirato su proprio dal clero nella fede e nell’attesa del miracolo (la fissità delle leggi di Dio non gli passava neppure per la testa), aveva atteso, sperato un miracolo per secoli, e non era mai venuto. Lo chiamava invano nel giorno disperato del supremo bisogno. Il cielo da allora gli sembrò l’alleato dei suoi feroci carne-fici, ed anche lui feroce carnefice. Ecco la Messa nera e la

Jacque-rie» 5. Bataille è più prudente: ammette che non possiamo essere certi del rapporto diretto fra riti satanici e movimenti di rivolta, tut-tavia non ha dubbi sul fatto che «i riti di stregoneria sono propri degli oppressi» (LM, IX, 218; 67). Affiora nel sollevamento popo-lare la tensione verso le oscure potenze espressa nel verso virgiliano già sottolineato da Freud: Flectere si nequeo superos, Acheronta

mo-vebo 6. Il popolo degli emarginati non trovando rispondenza nella preghiera rivolta alle forze celesti si volge alle forze degli inferi. In realtà «niente è chiaro di ciò che riguarda questo mondo inferiore; ma ciò non diminuisce il merito di Michelet, che ne ha parlato co-me del nostro mondo, animato dal trepidare del nostro cuore e re-cante in sé la speranza e la disperazione che sono retaggio nostro e in cui noi ci riconosciamo» (LM, IX, 218; 67-68). In altri termi-ni Michelet ha espresso in chiave letteraria il senso del maleficio.

La malia della donna La donna, principale artefice delle opere maledette di magia e stregoneria, acquista nelle pagine di Mi-chelet le varie sfaccettature che le rendono dignità e consistenza in un mondo in cui godeva scarsissima considerazione. Parlando del Medioevo Michelet afferma: «Se la Vergine, la donna ideale, si ele-vava nei secoli, la donna reale contava pochissimo presso queste masse rurali, questo miscuglio d’uomini o di greggi. Miserabile fa-talità d’una condizione che solo la separazione delle abitazioni riu-scì a mutare, quando presero abbastanza coraggio da vivere per conto proprio, in frazione, o coltivare terre fertili un po’ distanti e costruire capanne nelle radure delle foreste. Il focolare isolato creò la vera famiglia. Il nido fece l’uccello. Da allora, non erano più co-se, ma anime. La donna era nata» 7. Attraverso una poetica affabu-lazione Michelet ricostruisce la figura senza volto e senza storia del-la donna delle cdel-lassi misere. È del-la donna che trova il modo di can-tare da sé la sua canzone in mancanza dei cavalieri al servizio della donna nobile. È la donna disposta a diventare strega. In fondo la stregoneria nasce da un atto di libertà interiore, dal desiderio di avere qualcosa di proprio, a cominciare dai folletti delle leggende: «Quando la grande creazione della leggenda dei santi si spegne e appassisce, questa leggenda più antica, e di ben altra poesia, viene a dividere la loro vita, regna segreta, dolce. È il tesoro della don-na che la culla e l’accarezza. Anche la fata è dondon-na, lo specchio fantastico in cui guardarsi» 8. Bataille commenta che dalla lettura di Michelet emergono «il capriccio e la dolcezza femminile» che «ri-schiaravano il regno delle tenebre» e «d’altro canto, qualcosa del-la stregoneria è legato all’idea che noi ci siamo fatti deldel-la seduzio-ne» (LM, IX, 218; 68). Anche grazie a Michelet, dunque, il fascino femminile si lega ad un ruolo attivo: nella stregoneria la donna agi-sce, opera nascondendosi, in un mondo che non le consente di far-lo apertamente. «Questa esaltazione della donna e dell’Amore, su cui si fonda oggi la nostra ricchezza morale, trae le sue origini non soltanto dalle leggende cavalleresche, ma anche dall’importanza che la donna ebbe nella magia» (LM, IX, 218; 68). Sulla scia di Miche-let, Bataille celebra l’immaginario intorno alla donna e all’amore. Ma quel che è più rilevante è che al nostro patrimonio culturale, anche a quello che essenzialmente si nutre degli elementi del Bene, ha contribuito un forte elemento di trasgressione che ha trovato nella marginalità, oggetto di condanna, il suo terreno più fertile. Alla stregoneria non meno che ai canti cavallereschi, non a caso citati da Michelet, siamo debitori di un immaginario, in ultima ana-lisi, di un modo di esteticizzare l’amore e la donna.

Nell’opera di Michelet, una visione così esaltata della strega, peraltro situata nell’ambito della marginalità, la sottrae all’infamia, le assegna una funzione alta. Secondo Bataille Michelet paga con questo un prezzo; egli afferma infatti: «La debolezza dell’argomen-tazione di Michelet – che è forse la debolezza dell’intelligenza uma-na – sta nell’avere fatto della strega l’ancella del Bene, per volerla salvare dall’obbrobrio. Egli ha voluto legittimarla con una utilità che essa avrebbe avuto, mentre la parte autentica delle sue opere la situa fuori di questa utilità» (LM, IX, 218; 68). In effetti, come dice Fortini, «la sua strega immaginaria si pone a metà strada fra l’età dei poteri magici autentici e l’età futura di una giustizia diversa. [...]: la Strega è solo la sacerdotessa non ancora riconosciuta di un culto che accolga in sé dèi inferi e dèi superi» 9. E l’opera di Mi-chelet si chiude con queste parole: «Se Satana fa questo, merita rispetto, bisogna dire che potrebbe essere uno degli aspetti di Dio»10. Nell’ottica batailliana il rispetto potrebbe e dovrebbe esse-re lasciato per coeesse-renza tutto dalla parte di Satana, mentesse-re Miche-let nel rapporto fra Bene e intensità che si spinge all’eccesso illimi-tato avrebbe, alla fine, scelto per i limiti del Bene.

Per chiarezza è necessario introdurre a questo punto la nozione batailliana di valore, che possiamo definire come la massima inten-sità «al di là del desiderio di durare» e che «esige che noi andiamo il più lontano possibile». Il valore può essere associato sia al prin-cipio del Bene che a quello del Male, con prospettive e aspettative diverse. «L’associazione del valore al principio del Bene – spiega Bataille – misura ciò che è più lontano per il corpo sociale (il punto estremo al di là del quale la società costituita non può avanzare); l’associazione al principio del Male misura invece il più lontano che

temporaneamente può essere raggiunto dagli individui o dalle

mino-ranze» (LM, 219-220; 69-70).

La visione storica di Michelet, insieme alla simpatia per la stre-ga, lo porterebbe a cadere nell’ambiguità; egli infatti assegnerebbe una durata ad una forma di valore originariamente sgorgato dal Male e che quindi non avrebbe dovuto avere un futuro. In termi-ni più concreti, farebbe assumere «gli obblighi di un corpo socia-le» a ciò che sarebbe dovuto restare un puro e semplice movimen-to di rivolta, inutilizzabile per la società del Bene, quindi per il fu-turo. In tal modo si vanifica agli occhi di Bataille quel mondo che era la festa dei sogni e del non senso, perché le conclusioni che Michelet permette di trarre vanno contro la libertà del disordine i cui risultati sono immediati e fini a se stessi. In altri termini, nel-l’andare in profondità nella forza del negativo, Michelet non

avreb-be avuto l’ardire morale di andare fino in fondo dalla parte delle forze del male; è la già ricordata debolezza dell’intelligenza, che di fronte al rischio della trasgressione totale e quindi dell’impossibile, arretra e paga con la perdita dell’ebbrezza l’inclinazione irriducibile alla ricerca di un senso; è la ragione contro il non-sapere. Bataille precisa che non intende affatto sminuire la forza del testo di Mi-chelet, accresciuta forse dall’ambiguità stessa. Al di là del giudizio più o meno esatto sulle ambiguità di Michelet, del resto facilmente individuabili, si legge fra le righe dell’analisi batailliana una sorta di delusione per un mondo di sogno che è tale in quanto resta al pas-sato, un altrove dall’aura mitica che, recuperato alla storia, rischia di perdere la carica di intensità legata alla trasgressione non reinte-grabile dell’immaginario.

1 J. Michelet, La sorcière, Préface de Georges Bataille, Éditions des Quatre Vents,

Pari-gi 1946; tr. it. La strega, a cura di P. Cusumano e M. Parizzi, Rizzoli, Milano 1977. Com’è noto il carattere storico dell’opera di Michelet è stato messo in dubbio da molti storici che hanno voluto concedere all’opera di Michelet solo il valore letterario della ricostruzione dei vari aspetti di un mito ma senza una periodizzazione attendibile. Per questi problemi rimando all’introduzione di F. Fortini (Le streghe non ritornano) alla traduzione italiana del testo di Michelet. La prima edizione de La sorcière esce nel 1862 presso l’editore Hetzel-Dentu che però chiede a Michelet l’autocensura dei passi più violenti. Ancora prima era stata pubblicata da Hachette, editore di Michelet, che si rifiutò però di distribuirla temendo le reazioni del-le autorità politiche ed eccdel-lesiastiche. Nel 1863 viene pubblicata a Bruxeldel-les e subito dopo di-stribuita a Parigi.

2 Cfr. J. Michelet, cit., p. 136.

3 Michelet riporta la testimonianza di Lancre secondo la quale, per coloro che

pratica-no le messe nere, in raffronto a Dio «è meglio il didietro di Satana» (Ibid., p. 137). Questa ed altre testimonianze, più o meno attendibili secondo Michelet, dimostrano quell’imposta-zione storica che Bataille non rifiuta, ma nella quale non sembra vedere il significato fonda-mentale del testo. Per F. Fortini (Introduzione, cit.), per esempio, al di là della precisione dei dettagli, il significato storico della figura della strega è nel vento di profezia che percorre tutta la letteratura dell’Ottocento. Coloro che vedono in essa soltanto un mito erotico-regressivo dimenticano secondo Fortini: «che tutto l’Ottocento democratico è attraversato dalla figura della donna combattente, [...] ossia di una donna che non è né madre né figlia né moglie ma sommamente desiderabile creatura di oltranza, dunque di eros e morte, [...] non solo mito, dunque, ma profezia» (p. 18). In ultima analisi Fortini sostiene che, se la stregoneria si dif-fuse dal medioevo in poi, intanto la strega combatteva di fatto una battaglia di retroguardia e inoltre dei sabba ai quali Michelet associa la stregoneria si parla storicamente soltanto a partire dal 1680. Non è quindi quella di Michelet una ricostruzione storica attendibile, ma non la si può vedere soltanto in chiave mitica dato il valore profetico che percorreva gli ideali ottocenteschi. Il fatto è che la posizione di Fortini si fonda su un’idea di progresso, senza dubbio molto ortodossa dal punto di vista del materialismo storico, di fronte alla quale po-sizioni come quelle di Bataille o di Barthes gli appaiono ingenue e confusionarie col loro

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