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IV – Il mondo mitico di William Blake

Nel documento Georges Bataille e l’estetica del male (pagine 196-200)

Le visioni e i miti Alla vita normale di William Blake fa

ri-scontro l’eccezionalità delle sue opere che «hanno un carattere squi-librato, stupiscono per la loro indifferenza alle regole comuni» (LM, IX, 222; 74). Fedele ad alcuni elementi biografici ormai noti, Bataille riferisce una certa originalità nelle idee del poeta: portava il berretto frigio quando a Londra i Giacobini venivano visti come i nemici peggiori, proclamava la libertà sessuale in un mondo che preferiva l’adulterio clandestino, ma soprattutto privilegiò rispetto alla vita esteriore il suo mondo interiore: «Le mitiche figure che hanno composto questo mondo erano la negazione delle realtà este-riori» (LM, IX, 223; 75). La visionarietà del poeta viene letta da Ba-taille come il risultato di un eccesso di esuberanza e dismisura che non sono da attribuirsi a straordinari fenomeni percettivi, ma ad una capacità umana di coltivare i sogni interiori. Il risultato di que-ste visioni «è qualcosa di esorbitante, di sordo alla riprovazione altrui, che innalza al sublime questa poesia dai colori violenti» (LM,

IX, 222; 74).

Bataille servendosi delle affermazioni del poeta stesso riporta alle giuste dimensioni la capacità visionaria e la presunta pazzia di Blake che, se fu visionario, non commise mai l’errore «di attribuire un valore reale alle sue visioni» (LM, IX, 222; 74). Le visioni di Blake appaiono come un’alta capacità poetica che crea forme com-piute dell’immaginario, e il poeta «vide in esse creazioni dello spi-rito umano» (LM, IX, 222; 74). Non è un’affermazione generica sulla capacità artistica del poeta, se la si collega a quanto Bataille afferma in apertura del saggio: «Blake seppe ricondurre con propo-sizioni di una semplicità perentoria l’umano alla poesia e la poesia al Male» (LM, IX, 221; 73). Lo stesso Blake afferma che tutti sia-mo potenzialmente visionari, quindi la visione, come elaborazione dell’immaginazione, appartiene a tutti; in questo è umana, legata alla nostra esistenza che, incapace di sopportare solo la banalità, ha bisogno di sprigionare le sue energie. Un’eccezionale energia è

in-fatti, secondo Bataille, alla base del genio poetico di Blake che si esprime attraverso le visioni. A differenza di altri autori, dilaniati dall’incertezza fra la intensità poetica e la realtà esteriore, Blake non conosce esitazioni: egli afferma la perentorietà del genio poe-tico. In nome del quale, come Bataille sottolinea, era convinto «di avere una missione soprannaturale da compiere» (LM, IX, 223-224; 75). La missione era quella di affermare la realtà della visione poe-tica da non confondersi comunque come oggetto reale. Sapeva che le sue visioni erano frutto di immaginazione, altro dalle percezioni consuete dei sensi e tuttavia le paragonava a quelle dei profeti. Scriveva infatti nel Catalogo descrittivo: «I profeti descrivono ciò che loro appare nella visione come uomini realmente esistenti che essi hanno visto coi propri organi immaginativi immortali; e così gli apostoli» 1. Blake non considera esistenti nella realtà le sue visioni, ma esse hanno un valore «al di là della realtà del mondo naturale», mentre in virtù della Immaginazione che egli definisce Divina l’uo-mo viene in contatto «con la realtà essenziale» 2. La missione di cui parla Bataille si configura quindi come la convinzione da parte del poeta di sentirsi araldo del valore dell’immaginazione che, come si vedrà più avanti, permette all’uomo di giungere alla vera religione le cui radici non sono nei dogmi esterni all’uomo, ma nel genio poetico universale.

In nome della sovranità della poesia, che in Blake più che in altri poeti si presta a indagini interpretative di tipo psicanalitico, Bataille discute la categoria della introversione di Jung, all’interno della quale si è tentato di ridurre l’ispirazione poetica di Blake. Se-condo la definizione di Jung, riportata da Bataille, «l’intuizione in-troversa percepisce tutti i processi che sono nel fondo della co-scienza, in modo distinto quasi quanto la sensazione estroversa per-cepisce gli oggetti esterni. In conseguenza, per l’intuizione le imma-gini dell’inconscio non hanno minor dignità delle cose o degli og-getti» (LM, IX, 225; 77) 3. Bataille la confronta con una affermazio-ne di Blake: «Le percezioni dell’uomo non si limitano agli organi percettivi, l’Uomo percepisce più di quanto possano scoprire i sen-si (per acuti che sen-siano)», e conclude: «Il vocabolario di Jung è un po’ sfuggente», cioè riduttivo in direzione dell’introversione, laddo-ve la frase di Blake si riferisce al «sentimento poetico» (LM, IX, 225; 77). Secondo Bataille infatti «la poesia non accetta i dati dei sensi nella loro nudità: ma non è [...] disprezzo dell’universo este-riore. Essa rifiuta piuttosto i limiti precisi degli oggetti fra di loro, ma ne ammette il carattere esteriore. L’immaginazione, in altri ter-mini, non abolisce il carattere trascendente degli oggetti. La poesia

nega e distrugge la realtà prossima, perché vi vede lo schermo che ci occulta il vero assetto del mondo» (LM, IX, 225; 77). Interlocu-tori diretti qui Witcutt 4 e le teorie psicanalitiche in genere, che applicate alla poesia finiscono col dire molto sull’inconscio del poe-ta e poco sulla poesia stessa, ridotpoe-ta a fenomeno di introversione. Inoltre, dal punto di vista di Bataille, l’accentuare il versante intro-verso della poesia di Blake significa sottrarle uno dei suoi massimi capisaldi, quello della universalità del genio poetico espresso da Blake con singolare vigore ma che è di tutti. Per quanto riguarda invece la poesia in generale c’è un sostrato teoretico molto impor-tante: senza l’affermazione dell’esteriorità la poesia stessa riflette-rebbe mondi solo interiori, individuali, che precluderiflette-rebbero la co-municazione. Con molta chiarezza Bataille afferma: «La poesia am-mette nondimeno l’esteriorità in rapporto all’io degli utensili o dei muri» (LM, IX, 225; 77).

Ma a questo punto, se è chiara la posizione antipsicologistica più complesso è invece il rapporto fra la poesia e il mondo ester-no: il mondo esterno e la natura non smettono di esistere e di ave-re una solida consistenza, ma non per questo sono cose fra cose. Infatti la poesia è, secondo Bataille, negazione e distruzione della realtà prossima. Quando Bataille afferma che «l’insegnamento di Blake si fonda anzi sul valore in sé – esteriore all’io – della poesia», sembra confondere interiorità con introversione, mentre si delinea, come soluzione nascosta, una sorta di soggetto poetico trascenden-tale che supera l’individualità della coscienza dell’io sovrano a fa-vore della coscienza sovrana che rinuncia a quell’io che si costitui-sce in legame di ordinamento utilitaristico con gli oggetti. L’univer-so esteriore funziona, in altri termini, come la natura per il senti-mento del sublime in Kant: è presente per essere superata da una visione sovrasensibile. Bataille non dice nulla di tutto ciò in questa sede, ma certo va intesa in questo senso la citazione del seguente passo di Blake: «Il Genio Poetico è l’uomo vero e il corpo o forma esteriore dell’Uomo deriva dal Genio Poetico» (LM, IX, 225; 77). La poesia di Blake sembra qui rispondere perfettamente alla qua-lità non privata dell’esperienza interiore che «è conquista e come tale per altri». Bataille non ignora la lezione della fenomenologia: la coscienza è coscienza di qualcosa, anzi «è coscienza di altri [...] rigetta fuori di sé, si inabissa in una folla indefinita di esistenze possibili» (EI, V, 76; 108).

Il passo di Blake sopra citato prosegue in una direzione in cui il Genio poetico non si limita alla poesia, ma in virtù dell’affinità fra gli uomini si estende anche alla religione. «Le Religioni di

tut-ti i popoli – afferma il poeta – derivano dal modo diverso in cui ciascun popolo ha ricevuto il Genio poetico... come tutti gli uomini si assomigliano (benché siano infinitamente vari), così si assomiglia-no tutte le Religioni, e, come sempre avviene tra simili, hanassomiglia-no un’unica fonte. La loro fonte è l’Uomo Vero, in quanto Genio Poe-tico» (LM, IX, 225- 226; 77). Si è detto da più parti che non solo l’opera ma il pensiero di William Blake va molto al di là del suo tempo, in realtà queste affermazioni, senza dubbio in polemica col razionalismo materialistico settecentesco, rientrano perfettamente nell’ambito del relativismo antropologico dell’epoca che, se da un lato esclude i dogmi, dall’altro ammette diversi modi di esprimere l’esigenza religiosa in una sfera che sgorga dalla comune umanità. Il passo citato è contenuto in una brevissima opera dal titolo

Tut-te le religioni si riducono ad una del 1788. Non a caso il commento

di Bataille si colora di accenti vichiani: nota come Blake tracci l’identità fra religione e poesia col risultato di opporre la religione alla razionalità della morale e «di fare della religione l’opera del-l’uomo (non di Dio, non della trascendenza della ragione)», men-tre «restituisce alla poesia il mondo in cui noi ci muoviamo» (LM,

IX, 226; 78). In Blake la sacralità del mondo poetico viene declinata in rapporto all’infinito e a Dio. Se, come dice Blake, «il desiderio dell’uomo essendo infinito, il possesso è infinito ed egli stesso è in-finito», se «chi vede l’infinito in tutte le cose vede Dio» 5 e se una visione del genere è opera della poesia, quest’ultima appare allora come attività in cui il mondo non è soltanto il mondo delle cose «al tempo stesso estranee e asservite», ma è il mondo che ci per-mette di immaginare l’infinito e da questo immaginario stesso sca-turisce un’altra verità del mondo. La verità del mondo vista con gli occhi del poeta che crea miti del tutto originali è l’oggetto dei poemi di Blake.

I miti religiosi dei poemi di Blake nelle loro originalissime e sconcertanti immagini possono essere variamente interpretati; quel che è rilevante è comunque il fatto che essi hanno nella spontaneità poetica e profetica (secondo l’autore) da cui sgorgano un caratte-re profondamente caratte-religioso. Si tratta naturalmente di una caratte-religiosità che sfugge a tutti i dogmi, ma nella quale alcune fondamentali fi-gure della tradizione biblica ritornano per intrecciarsi con i miti scaturiti direttamente dall’inesauribile impeto creativo del poeta. Bataille mette in luce il fatto che le immagini di Blake, togliendo il carattere formale delle verità religiose per riportarle alla loro vera natura, che è quella di rispondere all’esigenza di espansione illimi-tata degli esseri umani, rappresentano non il ripiegamento

dell’in-troverso, nel qual caso costituirebbero un impoverimento, un depo-tenziamento dello spirito dell’uomo, ma gettandoci fuori di noi, raggiungono pienamente l’unione di sacralità e di raffigurazione poetica, cioè unitaria e significativa, dell’esistenza comune a tutti gli uomini. Blake, in altri termini, spoglia poesia e religione del carat-tere dell’individualità e in questo modo «rende loro quella chiarezza in cui la religione ha la libertà della poesia e la poesia ha il potere sovrano della religione» (LM, IX, 226, 78). Nella poesia di Blake l’immaginazione crea miti che costituiscono idee guida in cui si condensano l’elaborazione dell’uomo di fronte agli elementi esterni e un’aspirazione ad esigenze dello spirito assolutamente fuori dal comune (che Blake non considera personali, sono anzi trascendenti rispetto al suo io), e tuttavia immanenti all’umanità; quindi la poesia elabora miti e la religione si delinea come attività mitopoietica. Questo è in realtà il motivo di fondo della visione di Blake e anche la conclusione che si può trarre dalle affermazioni fatte fino ad ora da Bataille che ha nei confronti di Blake una posizione contraddit-toria: da un lato mette in luce la religiosità di Blake, dall’altro vede i miti di Blake come evocazione di un’assenza di mito. La sovranità poetica della mitologia di Blake emergerebbe infatti dall’arbitrarietà assoluta che configura «l’opera autonoma di un visionario» in cui la poesia «delinea delle apparizioni furtive che non hanno la forza di convincere e hanno un vero significato soltanto per il poeta» (LM, IX, 227; 79). Si tratta infatti di figure mitiche del tutto auto-nome e arbitrarie nel senso che si tratta di miti inediti, non ascri-vibili a nessuna tradizione, e, privi di fede, rivelano l’impossibilità del mito nella nostra epoca. La poesia di Blake si rivela quindi co-me un paradosso proprio nella sua identità con la religione. «Par-lare di Enitharmon – dice Bataille – non rivela la verità di Enithar-mon, significa anzi ammettere l’assenza di Enitharmon in questo mondo in cui la poesia lo chiama invano» (LM, IX, 227; 79). In-dubbiamente Blake non pensava ai suoi miti come a divinità vere e proprie: Enitharmon, Luvah, Urizen, le figure che agiscono nel-l’opera di Blake dovrebbero essere in realtà la trasposizione poetica di uno spirito religioso, non della credenza in una religione parti-colare. D’altro canto Bataille ha sottolineato l’individualità assolu-ta delle figure mitiche di Blake e insieme «l’acutezza della sua vi-sione, il suo carattere di necessità» (LM, IX, 228; 81). Si ha la sen-sazione che Bataille qui sia indeciso fra l’apprezzamento del valo-re della mitologia di Blake come luogo di intensità che ha a che fare con ciò che si definisce, vagamente ma efficacemente, senti-mento religioso, e il timore, veramente fuori luogo, di proporre un

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