• Non ci sono risultati.

III – L’essenza del tragico

Nel documento Georges Bataille e l’estetica del male (pagine 80-96)

La misura dell’uomo di fronte alla natura La spiegazione

scientifica della natura o la riflessione su ciò che della natura ri-schia di soverchiarci nella sfera aperta dal sublime, esime ormai dal mito. Ma quando la natura intorno viene concepita come vita altra da quella dell’uomo, come elemento o frammento del cosmo con cui fortuitamente veniamo in contatto e a cui desideriamo rovino-samente accedere per espanderci con esso, la natura riprende il suo mistero e la sua forma inquietante. Il paesaggio è solo il punto di partenza o il motivo scatenante verso l’immersione in un panico che sfiora il nulla del quale la vertigine del cosmo, come l’estasi, consente un’esperienza senza oggetto. Ma qui siamo già sul piano dell’impossibile. Il contatto con un mondo più vasto, o comunque al di là rispetto alla comune percezione, rivela in Bataille l’esercizio della dismisura. «Da tempo – scrive Bataille ne L’apprendista

stre-gone (1938) – l’intelligenza ha smesso di sentire l’universo in balia

del potere della ragione che prevede. L’esistenza stessa si riconosce come soggetta al caso a patto di portarsi alle altezze del cielo stel-lato e della morte. Si riconosce nel suo splendore, creato a imma-gine di un universo non contaminato dalla bruttura del merito o dell’intenzione» (LAP, I, 534; 27). L’andare al di là, l’amplificare, risponde al bisogno dell’uomo «di rendere la realtà conforme al suo pensiero», infatti «ogni forza esige, dentro di lui, di sottomet-tere al capriccio del sogno il mondo mancato nel quale è soprag-giunto» (LAP, I, 527; 21).

Condizione dell’esserci è la rottura e l’orrore che lacerano il velo di maya della rappresentazione: «Sul muro dell’apparenza ho proiet-tato immagini di esplosione, di strazio» (LC, V, 269; 47). Ma prima bisogna fare in sé il silenzio nel quale evocare «tutte le lacerazioni immaginabili».

Nel mito Bataille rivendica quel legame del soggetto col cosmo che la società moderna ha ormai perduto in una conoscenza dive-nuta sapere strumentale; ma il mondo «non è qui perché l’uomo lo

conosca, ma perché egli ne sia ebbro» (CH, I, 495). In realtà, se lo gnosticismo e il senso del negativo che ad esso si accompagna fon-dano in Bataille il senso della dismisura, di un immaginario che sostituisce al cosmo ordinato il groviglio intricato di una vita che assomiglia di più al caos e al caso, tutto ciò mantiene i limiti del-l’uomo nei confronti della natura. Dire che la natura e il cosmo possono essere afferrati attraverso l’immaginario significa riconosce-re che si ha bisogno di un’esperienza limite contro la razionalità che rende la natura opaca e ridotta. In ciò Bataille presenta delle profonde affinità con Simone Weil per la quale: «Allo stesso modo di Heidegger, il mondo in cui opera la scienza è divenuto

immagi-ne, rovesciamento del nesso uomo-mondo, oblio dell’essere.

L’in-comparabile ricchezza concettuale della scienza contemporanea non cela il fatto che in essa non è più in questione un rapporto equilibrato con la natura, quale Simone Weil vede nella scienza greca (la geo-metria, l’arte della misura), ma un processo illimitato di soggettivazione del mondo, l’entificazione della natura» 1.

Quel che è interessante nella posizione weiliana qui sottolinea-ta da Dal Lago è il carattere di immagine che assume il mondo, non un mondo che coinvolge ma un mondo da conoscere astratta-mente e che con la scienza diventa, agli occhi di Bataille, valido ma disumano. Bataille naturalmente non rifiuta la scienza ma, come Simone Weil, rifiuta l’entificazione della natura che all’interno della visione scientifica pone uomo e natura sullo stesso piano. Fra noi e la natura cosmica esiste un’estrema lontananza che la scienza non colma e alla quale anzi dà un carattere fittizio. Il divario può essere colmato momentaneamente non con la contemplazione, che alme-no da Leopardi in poi accentua la lontananza e l’estraneità, ma con un’estensione esacerbata e ingigantita della vitalità dell’essere. La posizione heideggeriana del prendersi cura subisce una profonda alterazione per lasciare il posto all’abbandono a forze con le qua-li si famiqua-liarizza a prezzo d’esserne sopraffatti. Come si è detto, il cosmo ordinato si trasforma nelle mani di Bataille in un universo caotico in cui il caso domina ma in cui l’esperienza interiore del colpevole si inserisce deliberatamente. Troviamo anche qui un ri-flesso dell’heideggeriano esser-gettato, ma la storia sottesa all’atteg-giamento batailliano è più vicina alla storia naturale che alla storia. Ne sono una conferma alcuni passi de L’esperienza interiore e del

Colpevole che scritti durante la guerra non ne parlano, mentre vi si

afferma con molta chiarezza come la guerra non sia stata altro che la causa scatenante della scrittura 2. Quello che è per Simone Weil il declino della giustizia attraverso la forza viene visto da Bataille

come volontà di potenza, come espressione massima della propria umanità. Naturalmente per Bataille come per Simone Weil si tratta di non eludere fittiziamente la necessità come opposta all’immagine del mondo. Se per Simone Weil si apre la via della responsabilità etica, Bataille si volge invece alla tragedia e al destino.

Il senso del tragico chiarisce l’idea della condizione umana e quindi della vita e della morte, al di là dell’eredità heideggeriana. Con “ostinazione religiosa” Bataille ne La Mère-Tragédie (1937) traccia i contorni di ciò che appartiene alla vita umana: «il percorso che va dalla foresta dionisiaca alla rovina dei teatri antichi». Infatti «quando le esistenze si sottraggono alla presenza del tragico diven-tano meschine e ridicole», mentre «sono umane nella misura in cui partecipano a un orrore sacro» (MT, I, 493). Bataille prosegue de-lineando gli aspetti fondamentali delle feste tragiche, tragiche per-ché uniscono alla frenesia della gioia la sofferenza. Il dio che si fe-steggia con lo spettacolo tragico è il dio dell’ebbrezza e della ragio-ne stravolta: le baccanti che divoravano i loro stessi figli ragio-ne sono un esempio. I teatri greci che nelle loro rovine giungono fino a noi te-stimoniano l’atteggiamento del più felice dei popoli di fronte «al-la nera mostruosità, al«al-la follia, al crimine [...] Il teatro come il son-no riapre alla vita la profondità carica d’orrore e di sangue dell’in-timità dei corpi» (MT, I, 493). È evidente in questo breve scritto l’impronta nietzscheana della visione del mondo greco, troviamo però soprattutto un’accentuazione del peso del crimine che in Nietzsche manca, e dal punto di vista teorico la distinzione che il filosofo tedesco stabilisce fra apollineo e dionisiaco qui è divorata nell’estensione del dionisiaco. Se il sonno apriva per il mondo greco la chiaroveggenza profetica e componeva nitide forme, per Batail-le il sonno assomiglia di più alla trance in cui fuori di sé si può fare di tutto.

Lontanissima da qualunque funzione catartica, la tragedia è qui lo scatenarsi di orrori e di sangue. Il sonno proviene da forze oscu-re degli Inferi. Non senza oscu-revocaoscu-re in dubbio la storia del teatro tragico Bataille fa quindi risalire i suoi miti e i suoi riti alle divinità ctonie: «In nulla il teatro appartiene al mondo uranio della testa e del cielo: esso appartiene al mondo del ventre, al mondo inferna-le e materno della terra profonda, al mondo nero delinferna-le divinità cto-nie. L’esistenza dell’uomo non sfugge all’ossessione del seno mater-no più di quanto mater-non sfugga alla morte. Essa è legata al tragico in quanto non è la negazione della terra umida che l’ha prodotta e alla quale ritornerà. Il più grande pericolo è l’oblio del sottosuolo oscu-ro e lacerato poscu-roprio dalla nascita degli uomini svegli» (MT, I, 494).

Alla ricerca di un modo di sentire comune Bataille non si affi-da alla storia o alla scienza, ma all’inconscio legato alla funzione materna che comprende in sé nascita e morte. Da questo punto di vista la tragedia si configura, come del resto la gioia dalla quale è impossibile scinderla, come luogo del paradosso. Naturalmente il richiamo all’inconscio non è proposta di ritorno allo stato di natu-ra, tanto lontano nel tempo che per l’uomo è quasi impossibile par-larne. Lascaux ou la naissance de l’art è a questo proposito illumi-nante: quando l’uomo che siamo stati diventa conoscibile per noi attraverso gli scarsissimi segni di cui l’arte è quello più manifesto, l’uomo è già fuori dalla natura animale. Tuttavia la natura perma-ne perma-nell’uomo sempre. Ciò che è stato modificato perma-nella storia cerca non solo di reprimere il lato animale, ma l’immediatezza della cor-poreità a vantaggio dello spirito, del lavoro in cui ormai l’uomo si identifica. Attraverso quest’identificazione l’uomo tenta di rendere più facile un’esistenza che è di per sé difficile con quei «mezzi mi-serabili» che noi riteniamo essere il fine. Bataille non vuole propor-re un ritorno assoluto alla pratica del tragico ma la memoria di es-so come momento insubordinato della vita dell’uomo. In realtà il fine vero dell’uomo «non è quello del lavoro che si svolge alla luce del giorno: si afferra, invece, nella notte del labirinto» (MT, I, 494). Viene tradotta così in termini poetici l’opposizione teorica, ma an-che esistenziale, tra sapere e non-sapere. La tragedia è, con Nietz-sche, il luogo ideale in cui gli impulsi non si preoccupano di essere coerenti in un rapporto di causa e di effetto, ma sussistono con-temporaneamente senza tendere alla compiutezza.

Nell’Esperienza interiore leggiamo: «La conoscenza non è in nul-la distinta da me: io nul-la sono, è l’esistenza che io sono. Ma l’esistenza non le è riducibile: tale riduzione richiederebbe che il noto fosse la fine dell’esistenza e non l’esistenza la fine del noto» (EI, V, 129; 176). Qui si chiarisce il rapporto tra esistenza e conoscenza che apre nell’esistenza la “notte”, la “macchia cieca” che riporta dal noto all’ignoto. Naturalmente si tratta di rinunciare alla pretesa hegeliana della compiutezza del sapere, nel quale il filosofo vedeva il solo fine dell’uomo: «L’uomo compiuto era per lui necessariamente “lavoro”: poteva esserlo, lui, Hegel, essendo “sapere”. Poiché il sapere “lavo-ra”, cosa che non fanno né la poesia, né il riso, né l’estasi» (EI, V, 130; 177). Da questo punto di vista la tragedia è l’abbandono to-tale dei mezzi e il labirinto è luogo notturno per eccellenza, dove non si produce se non riso, estasi, lacrime, crimine, azioni che non producono nulla.

l’im-magine del mostro che uccide e viene ucciso, traduzione del Mino-tauro che rappresenta la nostra verità e può rivelarsi solo nei ba-gliori della notte non alla luce del giorno, tempo della produzione e della razionalità nella quale il mostro procede camuffato 3.

La luce del giorno funzionale alla ragione è deleteria per l’inten-sità della vita. Sul nostro funesto desiderio di luce medita Klos-sowski ricordando il Virgilio dell’Eneide 4. Già nel titolo, Un si

fu-neste désir, l’autore gioca sull’ambiguità: si tratta del desiderio cupo

e folgorante di chi perseguendo la verità al di là del «pensiero co-sciente», come per un impulso irrazionale trova la vita solo nella sua rovina. Scrive Klossowski riprendendo l’opposizione nietzschea-na fra il riso, le lacrime, l’odio e il pensiero cosciente: «Qualche cosa ride o piange in noi che per servirsi di noi ci rapisce e ci sot-trae a noi stessi, ma che servendosi di noi a sua volta si sotsot-trae; vuol dire che questo qualcosa non può essere altrimenti presente se non nelle lacrime e nel riso? Perché se io rido o piango in qualche mo-do, io intendo esprimere il fatto che si dilegua questo motivo sco-nosciuto che non ha trovato in me né immagine (figure) né senso, se non l’immagine di questa foresta o di queste ondate avide di te-sori sepolti» 5. In rapporto a questo motivo sconosciuto io non sono «nel senso di Nietzsche che frammento, enigma per me stes-so, orrido caso» 6. L’opposizione cosciente fra soggetto e oggetto viene vanificata da questa sorta di soggetto assoluto che sono il riso o il pianto; essi però non hanno oggetto e quindi non hanno fine che in se stessi; e, ciò che più conta, il soggetto è un soggetto dis-solto in un’essenzialità profonda che non ha nulla in comune con la coscienza consapevole di sé. Risponde invece «ad una immagine nascosta nel pieno giorno della coscienza, una immagine opposta al me stesso che si è soffermato sulla prospettiva del fine, a voler cer-care la massima consapevolezza per questo riso e per queste lacme; bisogna dunque che ci sia una necessità che, sveglia, mi fa ri-dere come se io ridessi o piangessi liberamente; ora questa necessità non è quella che rovescia la notte in pieno giorno, il sonno nello stato di veglia, le immagini del giorno pieno in quelle della not-te?»7. Klossowski, sulla scia di Nietzsche, vede l’essenza più pro-fonda dell’uomo proprio in un va e vieni continuo tra stato di ve-glia e stato di ebbrezza, tra il mondo notturno e quello diurno. Per quanto l’inconscio non sia estraneo al mondo di Bataille, il rovescia-mento delle immagini del giorno in quelle della notte non può es-sere visto come il verificarsi di una “necessità” senza decisione. L’esperienza interiore, così come il riso o il pianto della tragedia, non può essere identificata con l’inconscio: l’io ha coscienza di sé

e dell’uscire da sé, quel che perde è la garanzia della sua identità. Il tema essenziale resta in Bataille l’intrecciarsi e lo straziarsi reciproco fra vita e morte che la tragedia e i suoi riti orgiastici por-tano con sé come sintomo di una corsa verso la rovina. La cosa più difficile, ma anche essenziale, è vivere la vita fino alla morte, non conservarla ma spenderla tutta fino allo spreco totale. Se la dissipa-zione della vita va a discapito dell’individuo isolato costituisce un di più di vita nella comunicazione, attraverso la quale si configura la continuità degli esseri, un ritorno dionisiaco al tutto originario. Si tratta di un’estremizzazione del negativo che non è qui solo la morte vera e propria, ma il mondo notturno opposto al mondo del lavoro e della società ormai priva della sua umanità; non perché abbia lasciato dietro di sé i sacrifici umani o non si abbandoni sen-za freni all’erotismo, ma perché ancora ci si immagina come gli an-tichi e «i loro ciechi busti di pietra che il sapere dell’uomo sia il fondamento (socle) di questo universo stellato» (CH, I, 495). Ciò che veramente ci si deve attendere da un’esistenza umana è che il pensiero si lasci trascinare fino in fondo nella china che gli è pro-pria, precipitandosi senza riserve e senza prudenza «di fronte al mondo e al vuoto» 8. In questo istante felice «poco importa che le folgoranti figure che si proietteranno nella notte, siano le più fuga-ci: il felice scoppio di risa che accoglierà la loro apparizione si pro-lungherà ancora quando la nera oscurità si sarà inesorabilmente chiusa» (CH, I, 495). Qui non può sfuggire il tono lirico in cui le figure della fantasmagoria notturna assumono il bagliore incantato dei fuochi d’artificio, raffronto che come pochi rende il senso del rapimento istantaneo. Ma stranamente Bataille sembra trovare in esperienze di questo genere una promessa di intensità persistente: scompaiono le figure, resta l’eco di una risata, la predisposizione all’estasi, all’esperienza fuori del comune che riafferra il senso pro-fondo dell’esistere. L’attrazione verso l’oscurità permane, non ne-cessariamente la notte ci ingoia per sempre: è, come l’atto sessua-le, una piccola morte, l’abbandono alla chance senza interrogarsi sul dopo.

L’universo stellato di per sé ostile e lontano quando lo percepia-mo nettamente nella sua alterità, da un’altra angolazione, quella in cui noi stessi ci percepiamo nella nostra alterità, si configura non come oggetto rispetto a noi, ma come un altro soggetto cui ricono-sciamo la qualità di essere. Certo, si tratta di soggetti dall’irriduci-bile alterità ma ai quali in stato di ebbrezza possiamo fingere di assomigliare. Da questo punto di vista lo scritto Chevelures (1937) costituisce come un passaggio da una visione di estraneità ad una

visione del cosmo in cui l’uomo, abbandonando nell’istante ogni prudenza, si affida alla chance nel «credere o nel fingere di crede-re che il mondo non è là perché l’uomo lo conosca, ma perché ne sia ebbro» (CH, I, 495). La finzione qui proposta non designa una superficiale disposizione intellettuale, ma lo sforzo, il salto verso un’altra dimensione rispetto al modo consueto di abitare lo spazio e il tempo. In questa nuova dimensione, che corrisponde esatta-mente all’operazione della creazione artistica, l’uomo e la sua stessa figura si dilatano ad immagine che invade l’universo: Bataille crea dell’uomo una raffigurazione grandiosa fino a vederlo col viso «il-luminato, incoronato dalla sua capigliatura come da fiamme» (CH,

I, 495). Emerge la versione letteraria del surrealismo pittorico; co-me in altri luoghi, la scrittura batailliana è la traduzione in parole delle immagini del consapevole delirio surrealista, teso a far appa-rire le analogie fra cose lontane nello spazio ma non nella percezio-ne di una sensibilità attenta alla materia. Sempre in un registro di prosa lirica leggiamo: «Se sulla terra fredda che ci sostiene i pettini piegano i capelli secondo la moda, ciò che i loro denti dipanano è forse la traccia silenziosa di una natura tutt’altra, quella delle co-stellazioni, delle galassie, delle comete, dei soli, tracce di un fuoco dove il freddo ha disposto l’ordine delle nostre case» (CH, I, 495). E così scopriamo che non solo la terra è bassa ma che la sua super-ficie sostiene la razionalità e l’abitudine. Bisogna volgersi o molto in alto o molto in basso. L’ebbrezza viene dal mondo ctonio, dal sotto-terra, oppure dall’incendio dei soli, dai disegni delle costella-zioni a cui sembrano appartenere le nostre capigliature fatte «di luce e d’acqua», straniere rispetto al nostro corpo, di una materia che sembra provenire d’altri mondi. Non si tratta solo di un’ampia metafora perché Bataille interrompe il susseguirsi di queste inusita-te immagini per far riferimento ai Tibetani che «nei loro esercizi ascetici riescono a mutare la vita in modo tale che l’esistenza del proprio io ai loro occhi non è più situata nella testa, ma in una mano, nel torso o in qualunque altra parte del corpo» (CH, I, 496). Non è che un esempio per poter concludere che, allo stesso modo, il nostro essere può essere trasferito in quella strana sostanza incon-sistente che sono i capelli: «Se fosse possibile vivere non in una mano o in un piede, ma nell’inutile capigliatura, nulla tratterrebbe più questa vita sulla superficie del suolo, essa non sarebbe più che scroscio perduto di luce in un nero spazio, l’irrimediabile perdita di sé che è un fiume» (CH, I, 496). Al di là dell’efficacia delle im-magini, questo passo è teoreticamente più ricco di quanto non sembri: sembra configurarsi un certo qual distacco o interruzione

dall’ossessione del basso, ma soprattutto l’insistere sul piano delle rutilanti immagini della capigliatura significa, attraverso quell’agget-tivo “inutile”, sottolineare il fatto che laddove noi viviamo il nostro piede o la nostra mano, certo veniamo meno al pregiudizio astratto che noi siamo essenzialmente menti, ma viviamo comunque una parte utile, strutturale del nostro corpo senza la quale saremmo monchi. Bataille qui propone un ulteriore passaggio verso la

Nel documento Georges Bataille e l’estetica del male (pagine 80-96)