Alla luce del quadro descritto finora, emerge chiaramente come il concetto di trauma preso in considerazione dagli studi di fine secolo non corrispondesse ad una semplice estensione di una condizione psicologica all’interno di un dominio letterario o mediatico. Come ha osservato Allen Meek, tale concetto aveva già ricoperto un ruolo centrale nel corso della produzione teorica -innanzitutto psicoanalitica e filosofica- di tutto il ventesimo secolo, a partire da quella che potremmo definire la spinta iniziale data in questo senso da Freud, in direzione di un’estensione dalla dimensione interiore/individuale a quella collettiva del trauma. In un iter teorico che ha di fatto attraversato l’intera sua opera, Freud -che nella sua produzione teorica aveva lavorato anche, potremmo dire, nel tentativo di trovare elementi di coerenza tra intuizioni emerse in periodi e fasi differenti della sua ricerca- aveva conferito al trauma una collocazione centrale nell’ambito della topografia dei meccanismi psichici da lui descritta. Ci riferiamo qui a quel discorso nato già nel 1911 a partire da Totem e tabù, e poi giunto, attraverso una serie di altri scritti assai rilevanti (si pensi al Disagio nella civiltà53, o a Psicologia delle masse e analisi dell’io54), al suo saggio su Mosè55, ultimo contributo freudiano in termini cronologici (1939), che ravvisava proprio nel trauma storico del patricidio la spiegazione della nascita dei fondamentali tabù culturali del popolo ebraico in primis, ma in definitiva anche della cultura occidentale in generale, così come si era andata definendo nel corso dei secoli successivi fino al presente dell’autore. Il concetto freudiano di trauma – principalmente come lo ritroviamo in Al di là del principio di piacere56, e che raggiungerà la sua forma
più approfondita nel Mosé57- individuava alla base dell’identità del soggetto singolo e del gruppo una violenza repressa, connaturata all’essere umano. In questa stessa chiave poi tale concetto venne ripreso da Benjamin e da Adorno per l’elaborazione della loro critica della cultura di massa, dando luogo a teorie che
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Si veda S. Freud, Il disagio nella civiltà, in id., Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 54
Si veda S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in id, Opere, vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino, 1976, pp.
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S. Freud, Mosè e il monoteismo, op. cit. 56
Si veda S. Freud, Al di là del principio di piacere, op. cit. 57
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analizzavano nel primo caso lo shock endemico della vita moderna, e nel secondo caso la violenza della propaganda attraverso i mass-media. Come scrive Allen Meek infatti, nei tardi anni Trenta, fu confrontandosi con la profonda crisi economica che avrebbe poi portato alla seconda guerra mondiale, e poi all’Olocausto, che Freud, Benjamin e Adorno svilupparono le loro teorie sul trauma storico. Se in Mosè e il monoteismo Freud tentò di spiegare l’identità ebraica ponendola in relazione con il trauma collettivo dell’omicidio del padre primario e con l’impatto psichico della credenza monoteistica, Benjamin58 fece della teoria freudiana sullo shock come descritta in Al di là del principio di
piacere parte della sua tesi sull’esperienza urbana e sulla fotografia. Adorno
invece propose una teoria sull’uso psicoanalitico della musica di Wagner (scritto tra 1937 e 1938 sebbene pubblicato nel 1952), includendovi concetti e dinamiche come la memoria traumatica e la ripetizione compulsiva, che più tardi approfondì nella sua critica della cultura di massa e della dissoluzione del soggetto.
“Dopo la guerra seguendo le tesi di Benjamin sulla storia come catastrofe, [Adorno] sostenne che Auschwitz costituisse un trauma per il pensiero filosofico. Nel periodo del dopoguerra anche Barthes tornò sul problema del trauma nei suoi saggi sulla fotografia [e tutti questi] testi hanno [poi] costituito un riferimento per gran parte dei recenti trauma studies.”59
Sebbene la recente ricerca sul trauma e i media si sia concentrata primariamente sull’evidenza visiva, sulla testimonianza e sulla commemorazione, mostrando perciò l’inapplicabilità in forma diretta delle teorie precedenti ai fenomeni caratterizzanti della società contemporanea e della sua peculiare tipologia di soggettività, quei primi testi hanno in ogni caso avuto il merito di introdurre nella riflessione teorica un’idea più complessa e più chiara, dal punto di vista filosofico e storico, della relazione esistente tra violenza politica, media moderni e identità collettive. È in questo modo allora che si stabilisce il loro punto di contatto con le teorie contemporanee che oggi riflettono su questioni riguardanti la riduzione dell’individuo umano alla sua mera esistenza biologica, sulla possibilità di
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Si veda W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in id., Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, di cui discuteremo nel corso del prossimo capitolo.
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rappresentazione del trauma60, e di qui poi sulla definizione stessa del trauma e sulla sua natura, imbattendosi a questo proposito nel dualistico dissidio tra un trauma inteso come puro evento esterno al soggetto che lo esperisce, dunque oggettivo, o come fenomeno interno, soggettivo, scaturente da un’elaborazione inconscia (frutto anche di un’interazione tra l’esperienza vissuta e il bagaglio personale e peculiare dell’individuo). In altre parole, per citare lo studio compiuto da Ruth Leys in merito, la contemporanea teoria sul trauma sembra lottare con se stessa per risolvere una contraddizione fondamentale che l’ha caratterizzata sin dall’origine: la contraddizione tra una “teoria del trauma mimetica e non mimetica”61. Laddove l’istanza antimimetica sarebbe sorta in un secondo momento con lo scopo di bilanciare l’insorgere di alcuni elementi di instabilità ai fini di una descrizione della soggettività traumatica (su cui torneremo nei prossimi paragrafi),la prima di queste due categorie corrisponderebbe, secondo la scansione di Leys, all’ipotesi dissociativa sul trauma propria degli studi fondativi degli anni Novanta, con la loro enfasi sull’assenza da se stessi, ovvero sulla perdita del controllo sulla propria persona. Se intendiamo infatti il trauma come uno stato di “dissociazione o assenza da se stessi in cui la vittima inconsciamente imita o si identifica con l’aggressore o con la scena traumatica, in una situazione che è paragonabile ad uno stato di forte suggestionabilità o di trance ipnotica”62, l’atto dell’imitazione, e più specificamente l’imitazione ipnotica, lungi dal costituire solo un metodo di indagine o un trattamento dei sintomi del trauma, si configurerà come il prototipo per la “concettualizzazione del trauma […], poiché la tendenza della persona ipnotizzata a imitare o ripetere ciò che le era stato detto di dire o fare, rappresenta [in realtà] il modello basilare per l’esperienza traumatica”63, ovvero per le prime teorie psicoanalitiche sulla memoria traumatica.
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Si pensi anche per esempio alla “vita nuda” di cui parla Agamben, e più in generale ai discorsi sulla violenza politica e sulla sovranità del soggetto, cui avremo modo di accennare nel corso dei prossimi capitoli, che mostrano come il concetto di trauma possa essere utilizzato come chiave di lettura di diverse formazioni ideologiche.
61 R. Leys, cit, p. 8. 62 ivi, p. 8-9. 63 Ibidem.
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2.4 Criticità e ambiguità della teoria della dissociazione, la rappresentazione