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La rappresentazione della caduta nel vuoto prima dell’11 settembre.

L’ambivalenza che emerge in tanti modi nella fotografia di Drew, riguardante il richiamo estetico in tensione con, o forse dovuto all’impossibile indeterminatezza della posizione dell’uomo, mostra paralleli con altri lavori artistici fotografici precedenti l’11 settembre.

Poste a confronto con le immagini dell’11 settembre, le contraddizioni messe in moto da Leap into the void (1960) una fotografia di Yves Klein rivelano le caratteristiche che rendono un’immagine del cadere nel vuoto tanto irresistibile da un punto di vista rappresentativo, nonché metafisico ed esistenziale. Un gesto centrale situato tra le generazioni artistiche (moderne e postmoderne) e le tradizioni geografiche (europea, americana, asiatica), la performance di Klein è un esempio nascente della body art in cui vediamo un praticante di judo con un fotografo –Harry Shunk- che documenta l’evento. La posizione del corpo di Leap

into the void di Klein mostra una contingenza tra agency e vulnerabilità che è

simile a quella della fotografia di Drew, la cui accezione è completamente diversa dal momento che nel caso di Klein siamo di fronte ad una performance artistica. In questo caso infatti il soggetto viene mostrato mentre si libra verso l’alto, il suo petto e la testa si inarcano verso il cielo, tentando di sbarazzarsi del peso del corpo. Con la sua foto, Klein sembra allora esprimere più che altro le aspirazioni di totale libertà proprie dell’utopia modernista, il potere dell’individuo (che come Amelia Jones ha affermato, sono assegnati ad un soggetto maschio, bianco, e occidentale), il suo desiderio di salire nell’aria a dispetto dei limiti del suo corpo. E di fatti nella fotografia, il corpo resta “al sicuro”, librandosi nell’aria e sovvertendo l’immanenza del suo corpo pesante, dispiegandosi più che altro come un veicolo creativo.

Successivamente, allora, e sulla stessa scia, tra il 1962 e il 63, sicuramente tenendo conto della foto di Klein, anche Andy Warhol creava una sua serie di serigrafie a partire da foto di tabloid che ritraessero persone nell’atto di saltare da edifici urbani. Questi “suicidi” –il titolo della serie è Suicides- erano parte di un più ampio progetto intitolato Death and Disasters (“morte e distastri”), una serie

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che avrebbe poi incluso i più noti “incidenti d’auto”, le “sedie elettriche”, le “rivolte razziali” e le immagini di Jackie Kennedy. L’immagine di Suicide (1962) impressiona all’interno della serie perché non si basa sulla scelta di un racconto seriale, limitandosi invece a mostrare il salto a mezz’aria di un uomo in un singolo

frame, un unico istante che Warhol ritiene sufficiente per il suo racconto. L’uomo

inquadrato è sospeso nell’aria, adiacente ad un edificio di mattoni, la geometrica regolarità del quale è in conflitto con le bolle spettrali e le pieghe causate dall’inchiostro della serigrafia. La figura terrificante, di cui faccia e corpo appaiono oscurati, viene colta in un empatica posizione accovacciata da un angolo obliquo. In questo caso allora, l’utilizzo di immagini fotogiornalistiche, lungi dal configurarsi come parte di una cosiddetta estetica dell’impassibile (meccanicamente riprodotta, mancante di rispetto verso l’immagine originale, senza tocchi emotivi o dichiarazioni che chiariscano il suo intento), suggerisce invece la scelta di Warhol di lavorare con un materiale orbitante intorno al concetto del trauma, in questo caso implicando poi una critica dello stile di vita e della politica americana contemporanea.

Sulla scia del lavoro di Warhol, nel 1979, l’artista Sarah Charlesworth creava una serie di sette lavori basati su fotografie di giornali di persone ritratte a mezz’aria, tutte nell’atto di saltare o di cadere da edifici, ingrandite molte e poi stampate come un unico fotogramma. Unidentified woman, hotel corona de Aragòn,

Madrid (1979-80), questo il titolo, mostrava una donna in caduta libera di fronte

ad un edificio a molti piani. Appropriandosi di un’immagine da un contesto e esibendola in un altro, Charleswoth continuava il lascito di Warhol nel mescolare diversi generi (arte e fotogiornalismo) e le loro funzioni, le loro tradizionali gerarchie, ed inoltre, servendosi proprio di quella decontestualizzazione essa prendeva una posizione politica rispetto alla nozione di genio artistico e autenticità, esibendo l’apparente naturalezza delle strutture significanti attraverso le quali nasce il significato fotografico.

In Unidentified woman, le gambe della donna sono esposte come se il suo vestito si alzasse sul dorso per coprire la sua testa e la faccia, mentre la grana dell’ingrandimento aggiunge mistero all’immagine, in cui il denso nero del fondo della fotografia contrasta con la luminosità della parte superiore, suggerendo

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l’idea di un ambiente subacqueo. La foto di Charlesworth sembra rimandare all’estetica di quella di Drew e del suo Falling Man, laddove essa enfatizza l’impressione di una figura che cade come se stesse fluttuando o nuotando in un mondo etereo senza forza di gravità. L’idea della morte, è dunque meno incombente rispetto agli altri due casi che abbiamo citato fin qui.

La foto di Charlesworth in altri termini, diluisce la percezione di chi guarda di un imminente impatto al suolo, e così, avendo assicurato che qui la violenza è solo potenziale –contraddetta dalla tranquillità o dal movimento arrestato della figura- essa colloca poi anche lo spettatore in un limbo metafisico a mezza via tra la fascinazione e l’orrore. Mentre la trasgressiva ripetizione nel lavoro di Warhol produce un effetto di panico o shock, con l’approccio di Charlesworth il tono si sposta invece su una interrogazione più fredda. Mentre Warhol da molte informazioni per confermare la modalità della morte, sia nel titolo che nell’immagine, Charlesworth le nasconde, forse conducendo a sperare diversamente, e alla fine definisce una scena il cui aspetto più provocatorio è la sua indeterminatezza.

In effetti anche Roland Barthes suggeriva l’importanza etica che una didascalia o un titolo racchiudono per fissare un significato quando sosteneva che il testo è il diritto del creatore di ispezionare l’immagine, e che dunque questo atto del fissare una denominazione sia in definitiva un atto di controllo. Per la sua foto, Charlesworth aveva scelto di rendere sconosciuto il nome proprio della donna raffigurata -il giornalista originario non riuscì a saperlo- e questa mancata identificazione può essere intesa come un codice implicito, ovvero come una garanzia di privacy per la morte, come l’imposizione di una distanza oggettiva, o come un rinuncia alla responsabilità. L’uomo di Drew e la donna di Charlesworth stanno cadendo: una ricostruzione che alla fine incoraggia a una lettura del lavoro come un documento di una vita corporea piuttosto che una istanza di anonimato, una figura senza peso, sospesa dall’estetica forse in un fato trascendente.

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