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“Un uomo vuole dimenticare una donna; egli l’ama a tal punto che l’averla perduta gli appare intollerabile. Se nel cinema classico una sbornia in piena regola l’avrebbe rimesso in carreggiata […] oggi servono ben altri metodi. In Se mi lasci
ti cancello182 il nostro eroe decide di farsi cancellare con un innovativo procedimento scientifico tutti i ricordi e le tracce lasciate dall’amata nella sua memoria. Durante il trattamento di rimozione –che incomincia nel presente e procede […] verso il passato- egli scopre […] il valore di quella relazione. […] Quando si risveglia il giorno successivo, si reca nel posto dove aveva incontrato per la prima volta il suo grande amore, e lì ritrova la donna. La loro storia può ricominciare proprio perché egli l’ha cancellata dalla memoria. Se mi lasci ti
cancello è un film emblematico poiché pone l’accento sull’odierno interesse per
identità, passato, trauma e ricordo”183.
Negli ultimi anni del Novecento e in particolare dalla fine degli anni Novanta, nell’ambito delle produzioni mainstream del cinema hollywoodiano e più in generale in quella occidentale, si è osservato un mutamento delle strategie narrative convenzionali, volto nella direzione di un progressivo incremento della complessità diegetica dei film. Tale fenomeno, a ben vedere, si inserisce nell’orizzonte di un più ampio cambiamento in corso nella cultura occidentale, in cui la linearità della lettura e quei principi di organizzazione teleologica della
fabula validi a partire dalla Poetica di Aristotele sembrano lasciare il posto a
forme nuove di connessione fattuale, che per certi versi trovano il proprio modello di riferimento nella disomogeneità della navigazione in rete. “Temporalità paradossali, punti di vista impossibili, falsi flashback, multiversi diegetici e falsi narratori”184 popolano i testi filmici di questa recente tendenza del cinema, alla quale sono state assegnate varie denominazioni, a seconda dell’approccio e della prospettiva da cui essa è stata via via analizzata. Dai mind-game films di Thomas
182
Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2002), di Michel Gondry.
183
T. Elsaesser e M. Hagener, Teoria del film, Einaudi, Torino, 2009, p. 167. 184
A. Minuz, “Guardare i film (e le cose) da capo: come imparammo qualcosa di profondamente cinematografico”, in Imago, vol.2, 2011, Bulzoni, Roma, p. 172.
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Elsaesser185, ai puzzle films di Warren Buckland186, ai forcing-path films di David Bordwell187, per citare solo alcune delle ipotesi teoriche e delle definizioni, questi lavori -come nel caso del film di Gondry con la sua struttura circolare- sembrano tutti accomunati da una serie di elementi che, seppure attraverso una serie di strategie ed espedienti formali molto eterogenei, mettono in discussione la tipica (topica) logica lineare del cinema classico per cui il protagonista porta avanti l’azione in un sistema di concatenazioni narrative causa-effetto, che condurranno infine alla risoluzione di problemi e ostacoli e dunque (possibilmente) ad un
happy ending. Si tratta di un’organizzazione della struttura formale e narrativa del
film che si riverbera poi in modo significativo anche sulle forme dell’esperienza spettatoriale messe in gioco: il ruolo dello spettatore, qui, diviene infatti più ambiguo, in un certo senso risultando al contempo interno ed esterno alla diegesi, ovvero al contempo testimone esterno e pedina manipolata intenzionalmente attraverso una tendenziosa costruzione del testo filmico.
Ad uno sguardo più generale allora, sembrerà perciò che questa nuova tendenza del cinema mainstream corrisponda anche ad un mutamento in atto sul piano culturale in senso lato, laddove, come scrive Buckland, se di norma la comprensione della propria esperienza e della propria identità passa sempre attraverso il confronto con le storie altrui e attraverso la costruzione delle proprie storie personali, nella cultura occidentale odierna, dominata dai nuovi media, le esperienze si vanno caratterizzando per un progressivo incremento di ambiguità e frammentarietà, un cambiamento al quale corrisponde sul versante cinematografico la modificazione delle forme della narrazione e di rappresentazione delle vicende oggetto dei film. Detto in altri termini, quel che si sottolinea come tratto caratterizzante del cinema contemporaneo cui ci stiamo riferendo è il fatto che le strategie formali e narrative da essi adottate abbiano assunto progressivamente forme sempre più “opache e complesse”188: una complessità crescente, che secondo Buckland rovescia una serie di interpretazioni
185
Si veda T. Elsaesser, The Mind Game Film, in, W. Buckland (a cura di), Puzzle Films. Complex
Storytelling in Contemporary Cinema, Wiley-Blackwell Publishing Ltd, Oxford 2009, pp. 13-41.
186
Si veda Buckland, cit., pp. 1-12. 187
Si veda D. Bordwell, Narration in the Fiction Film, University of Wisconsin Press Madison, 1985, e D. Bordwell, “Film futures”, in Substance, 2002, n. 97, pp. 88-104.
188
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psicoanalitiche e mette in gioco la rappresentazione di esperienze e identità radicalmente nuove, “solitamente codificate come disturbate e traumatiche”189. Vale la pena allora di esplorare l’influenza di queste nuove tipologie di strategie formali e narrative, dal momento che esse hanno a che vedere con le dinamiche proprie del trauma (da un punto di vista sia contenutistico che formale), se come ha scritto Warren Buckland –nella sua analisi di prospettiva narratologica- questi film costituiscono “un ciclo popolare di film [emerso] a partire dagli anni Novanta che rifiuta le tecniche di narrazione classica e le sostituisce con una narrazione [di tipo] complesso”190. La complessità cui fa riferimento Buckland non è tuttavia semplicemente intesa come una forma “intensificata” delle linee narrative del plot del film, si tratta invece di una costruzione narrativa specificamente atta a confondere, in cui cioè gli eventi non appaiono solo intrecciati, ma in contrasto tra di loro. È in questo senso allora che il puzzle film si configura innanzitutto come testo “non-classico”: esso è composto di “personaggi non-classici, che mettono in scena azioni ed eventi non-classici”: il puzzle film, scrive Buckland, costituisce una modalità post-classica della rappresentazione filmica e dell’esperienza intesa come non confinata entro i limiti della mimesis.
Se gli esempi primari di questa teoria sono incarnati dai personaggi e dalle narrazioni di film come quelli diretti da David Linch -da Lost Highway (1997) a
Mulholland Drive (2001)- un’ampia serie di altri testi oggi si ascrive alla stessa
categoria fondata potremmo dire “sull’improbabilità più che sulla mimesis”191 -si pensi, per esempio a Lola Corre (Run Lola Run’s, 1998) in cui tre linee alternative del plot precipitano ogni possibilità mimetica o di concatenazione necessaria degli eventi: film del genere, scrive Buckland, possono essere legati più che altro al concetto di probabilità nel momento in cui accettiamo che essi realizzano o materializzano probabilità alternative in luogo di “una” probabilità. Allo stesso modo perciò è possibile interpretare anche la struttura formale di un film come
Memento (Nolan, 2000) –di cui ci occuperemo più approfonditamente nel corso di
questo capitolo- in cui la perdita di memoria a breve termine del protagonista, sembra essere imitata dal movimento rovesciato della struttura narrativa del film. 189 Ibidem. 190 Ibidem. 191 Ibidem.
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Così come il protagonista non riesce a ricordare ciò che ha vissuto pochi minuti prima, allo stesso modo lo spettatore non riesce a cogliere (inizialmente) la concatenazione causa-effetto degli eventi del film, trovandosi così immerso in un percorso interpretativo in cui ogni possibilità di una lettura mimetica crolla a vantaggio di un percorso alternativo, in cui egli costruisce gradualmente una sorta di “ricordo di ciò che accade negli eventi futuri del plot”192.
Così caratterizzati, i puzzle film descritti da Backland abbracciano una struttura formale caratterizzata dalla non-linearità, da loop cronologici e dalla messa in scena di realtà spazio-temporali frammentarie: travalicando i confini tra diversi livelli di realtà, essi si presentano pieni di gap, di vuoti, di meccanismi narrativi illusori, di strutture labirintiche, di ambiguità e di coincidenze poco chiare. A popolarli, poi, sono personaggi “schizofrenici, persi nella loro memoria, sono narratori impossibili, o morti (ma senza che noi –o loro- possiamo saperlo)”193. In definitiva allora, conclude Buckland, possiamo dire che la complessità dei puzzle
film opera su due livelli, uno narrativo e uno “della narrazione”, in quanto essi da
un lato enfatizzano la complessità dell’enunciazione del plot, e dall’altro si riferiscono alla narrazione di una storia “semplice o complessa”.
Così caratterizzata, la definizione proposta da Buckland del puzzle film indica a ben vedere una modalità di realizzazione del film che oltrepassa le pratiche classiche della messa in scena, nonché i confini del genere o della nazionalità, rendendo di fatto sempre più difficile una categorizzazione fatta secondo questi parametri, dal momento che tale categoria sembra corrispondere a produzioni piuttosto eterogenee che vanno, per esempio, dal cinema americano “indipendente”, al cinema europeo, a certo cinema di avanguardia. Per questo motivo allora, un’analisi più appropriata ci sembra che debba procedere innanzitutto prendendo in considerazione questa categoria di film in virtù di quel riscontrato comun denominatore che abbiamo ravvisato proprio nella complessità della narrazione. Se secondo la definizione aristotelica ogni arte poetica si attiene ai generali principi della mimesis, ovvero dell’imitazione, indicando con il termine “intreccio” il modo peculiare in cui gli eventi “imitati” vengono organizzati dalla
192
Ivi, p. 6. 193
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narrazione, un primo elemento di interesse per noi diviene quello di un raffronto e di una analisi delle modalità attraverso cui il cinema contemporaneo disattende ai dettami classici della costruzione delle vicende, dettami che prevedevano per un intreccio -o nel nostro caso per un plot- riuscito, che gli eventi selezionati, combinati e assemblati dovessero apparire probabili e necessari rispetto alle contingenze in cui essi erano inseriti: in altre parole, un intreccio in cui probabilità e necessità si configuravano come condizioni fondamentali.
In quest’ottica intrecci cosiddetti semplici erano pertanto intrecci “mimetici” (perciò classici), che cioè prevedono la strutturazione narrativa di un evento in un’azione singola e continuata, ovvero costruita secondo un inizio (inizio dell’azione), uno svolgimento (coinvolgimento e complicazione dell’azione) e una fine (segnata dalla risoluzione dell’azione complicata). Aristotele, scrive Buckland, distingueva intrecci complessi e intrecci semplici per mezzo della sola discriminante di determinate qualità addizionali costituite da meccanismi di “riconoscimento” e “rovesciamento”, in cui quest’ultimo corrispondeva ad un rovesciamento della fortuna e dunque ad una serie di eventi e azioni avverse per il personaggio principale (l’eroe), che contrariano anche le “aspettative” dello spettatore/spettatrice, mentre il riconoscimento corrisponde al momento in cui, l’eroe o l’eroina, agisce consapevolmente per contrastare le forze avverse. In questa prospettiva dunque, un intreccio si rende più solido se il riconoscimento e il rovesciamento hanno luogo nello stesso tempo, come avviene per esempio nel caso di Edipo, in cui la scoperta di aver ucciso il padre e di aver sposato la propria madre corrisponde anche al momento di realizzazione e di rovesciamento della fortuna, cui andrà incontro ogni personaggio nella storia del dramma.
Dunque, rovesciamento e riconoscimento introducono una nuova linea di causalità nell’intreccio: in aggiunta alle azioni e agli eventi motivati e causati dai personaggi, c’è una traiettoria della narrazione tracciata dal plot stesso una linea di causalità che esiste al di sopra dei personaggi stessi e che dunque indipendentemente da questi si sviluppa, essa si impone loro alterandone radicalmente il destino. L’aggiungersi di questa seconda linea di causalità che introduce rovesciamento e riconoscimento è ciò che secondo Aristotele rende complesso l’intreccio. Esso perciò si configura come “classico, mimetico, e
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unificato”, perché rovesciamento e riconoscimento sono fatti per sembrare probabili e necessari.
Il termine usato da Aristotele per definire un intreccio “complesso” è
peplegmenos, che letteralmente significa “intrecciato”. In un intreccio riuscito,
questa seconda linea di causalità che introduce riconoscimento e rovesciamento è infatti interconnessa con la prima, la traiettoria del personaggio. Attraverso l’uso del termine intrecciato Aristotele mostra come il secondo intreccio sia compreso nel primo, dando luogo ad un unico intreccio classico in cui rovesciamento e riconoscimento appaiono probabili e anche necessari: così il riconoscimento e il rovesciamento della vicenda di Edipo sembreranno inevitabile parte necessaria della trama (l’oracolo aveva predetto la sfortuna di Edipo all’inizio del dramma). Tornando al nostro caso, l’adozione del termine “complesso”, riferito ai puzzle
film estende il concetto di complessità della trama così come era stato formulato
da Aristotele ad un terzo tipo di intreccio. Un “puzzle plot” sarà intricato nel senso che al suo interno l’organizzazione degli eventi non è semplicemente complessa, ma “complicata e atta a confondere”194: basti pensare per esempio ancora al caso di Memento, che non prevede alcuna riconciliazione o interazione tra il plot del protagonista e il plot secondario: egli non potrà esperire né rovesciamenti, né rivelazioni nel corso dello svolgimento degli eventi, dal momento che anche quando essi si verificano non potranno essere impressi permanentemente nella sua memoria.
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