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Prospettive anti-narratologiche Dai forcing-path films ai mind-game

films.

Sebbene molti dei contributi che analizzano il cinema contemporaneo e il genere dei puzzle film si confrontano con le ipotesi cognitiviste di David Bordwell, a partire da come erano state formulate nel suo contributo Narration in the Fiction

Film (1985), e cioè fondata sui concetti di schema, di inferenza, un’ipotesi

flessibile abbastanza da travalicare i confini del cinema classico e da inglobare anche i puzzle films, nelle riflessioni più recenti la categoria e gli approcci di studio su questi film sono andate progressivamente diversificandosi, di fatto oltrepassando l’approccio “anti”-narratologico di Bordwell. L’ipotesi dello studioso americano da cui in molti sono partiti, si fondava sull’idea che l’atto stesso del guardare un film, si configuri come un’operazione incompleta in se stessa, in cui pertanto lo spettatore si serve dell’utilizzo di determinati “schemi” per organizzare una propria rappresentazione mentale coerente della vicenda narrata. Lo schema, secondo Bordwell, si attiva a seguito di alcuni segnali, di dati inviati allo spettatore che con quei segnali colma i vuoti del film. In sostanza l’idea di Bordwell si basava sull’ipotesi che ogni film inducesse lo spettatore a produrre deduzioni logiche capaci di colmare i vuoti narrativi disseminati dalla narrazione, e indicava uno schema particolare come elemento guida per la produzione di tali inferenze, ovvero il canone aristotelico della narrazione:

“gli studiosi della […] narrazione concordano sul fatto che il modello più comune di struttura (della narrazione) può esser articolato come un format canonico, qualcosa di questo genere: introduzione di setting e personaggi – esplicazione dello stato delle cose- complicazione dell’azione– eventi derivati- risoluzione- fine”195.

195

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Quando il film va avanti lo spettatore esperisce gli eventi e le azioni come se essi venissero organizzati dal plot, il quale appartiene al livello della narrazione e dunque al modo in cui gli eventi vengono presentati sullo schermo. Lo spettatore in realtà riorganizza gli eventi, sciogliendo le ambiguità proprie dell’ordine in cui essi sono presentati e del modo in cui sono messi in relazione, e facendo questo, gradualmente costruisce la storia (ovvero la fabula). Questo è il livello della narrazione, o “di ciò che accade”196.

A causa del fatto che la storia del film viene qui concepita come una rappresentazione mentale che lo spettatore costruisce durante la sua esperienza del film, essa risulta in costante stato di cambiamento, laddove essa deriva dalla produzione progressiva di nuove inferenze da parte dello spettatore, che rafforzano o abbandonano deduzioni fatte in precedenza. In questo modo un film può deliberatamente condurre lo spettatore a generare inferenze erronee o mettere in discussione il canonico format della narrazione: se il film non corrisponde alla storia canonica, scrive infatti Bordwell, lo spettatore aggiusterà le sue aspettative e ipotizzerà nuove esplicazioni rispetto a ciò che viene rappresentato. Questo processo di riaggiustamento è precisamente ciò che lo spettatore deve applicare al

puzzle film. Bordwell, non riconosce nella sua teoria il ruolo di un agente narratore

esterno alla storia, “un maestro di cerimonie esterno” che controlla gli eventi della storia, poiché egli ritiene che accettare questo assunto significhi attenersi ad un diagramma classico della comunicazione fondato sulla trasmissione di un messaggio da un mittente ad un destinatario. In luogo di questo modello, egli propone un’idea di narrazione che presuppone un “percettore, ma nessun mittente di un messaggio”197.

Al di là dell’interpretazione cognitivista, ciò che le considerazioni che abbiamo fin qui riportato ci aiutano a delineare è il quadro di una serie di mutamenti che hanno interessato il cinema hollywoodiano e non solo a partire dagli anni Novanta, ovvero lo sviluppo di una tendenza nelle pratiche cinematografiche

mainstream che interessa le forme della narrazione e che corrisponde ad un

progressivo incremento della complessità diegetica del film. Da un punto di vista

196

Ibidem. 197

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teorico, e non più necessariamente cognitivista, una panoramica storico-teorica su quella che possiamo indicare come una categoria di film -che in linea di massima corrisponde alla tipologia che Buckland definisce puzzle film- è stata proposta in diversi interventi e contributi da Thomas Elsaesser, che ha preferito coniare una propria denominazione per questi testi, indicandoli come mind-game film, a sottolinearne determinati aspetti e connotazioni, innanzitutto di carattere ludico, ma anche poi per aprirsi ad una analisi a tutto tondo che non si arresti al punto di vista narratologico.

Discostandosi da quest’ultimo approccio infatti, Elsaesser sottolinea come questo genere di film metta in gioco non soltanto questioni relative alle strategie narrative, sollevando, attraverso i suoi personaggi affetti da disturbi mentali (il più delle volte schizofrenie e paranoie), anche questioni di carattere più generale, proprie della contemporaneità, riflessioni cioè sull’identità, sul riconoscimento dell’alterità, e dunque sulla soggettività in senso lato. I mind-game film, scrive il nostro autore, mettono in scena non solo le questioni usuali del genere cinematografico, come per esempio le crisi identitarie adolescenziali, o questioni di gender, di sessualità, questioni edipiche, o disfunzionalità relazionali, ma anche problematiche di natura epistemologica, e dubbi ontologici centrali nella riflessione filosofica ovvero riguardanti la coscienza umana, o ancora la possibilità di altre realtà e di altri mondi possibili, un genere cui poi corrisponderà anche una forma dell’esperienza spettatoriale che non rimanda più ai criteri classici dell’identificazione.

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