Nel settembre del 2002 la scultura intitolata Tumbling Woman (fig.4), di Eric Fischl, veniva installata nel Rockfeller Center e dopo solo una settimana veniva coperta con un telone e rimossa a causa delle proteste sollevate dal pubblico contro di essa. La figura nuda femminile veniva ritratta in una posizione che imitava una caduta libera arrestata a poca distanza dal suolo, dunque molto simile alle figure delle fotografie di Charlesworth e Drew, e come quelle in effetti anch’essa sembrava perpetuamente sospesa. L’obiettivo di Fischl per la sua scultura era quello di un tributo personale a un amico stretto che lavorava al sedicesimo piano di una delle Torri. Artista conosciuto sin dagli anni settanta per i suoi lavori figurativi di pittura e scultura, Fischl aveva infatti voluto con quest’opera tentare di formulare una dichiarazione universalizzante, un monumento che permettesse ai portatori di quel lutto di lamentare la loro tristezza non per poter sanare la perdita o coprire la narrativa brutale di quel giorno, ma piuttosto per formare un’espressione appropriata della tragedia, della quale con la sua opera voleva trasmettere il senso di realtà delle esperienze vissute dalle vittime.
Piuttosto che l’adozione dell’astrazione, la strategia di Fischl fu invece quella di rappresentare un corpo nella sua massa, nella presenza, nel movimento pesato, come per respingere la scomparsa e la disintegrazione dei corpi di coloro che perirono, molti dei quali non furono mai ritrovati.
La posizione sgraziata della Tumbling Woman allude all’impatto col solo e pertanto rimanda all’immagine delle membra che scorrono. Fu probabilmente per questa ragione che la scultura sembrò eccessiva agli occhi di alcuni spettatori, che interpretarono l’esposizione di questo corpo che si contorce in caduta libera come un pezzo di fotogiornalismo plastico e feroce. A dispetto delle sue tre dimensioni la rappresentazione di Fischl è perciò vicina a quelle di Drew e Charlesworth per via almeno di un aspetto molto importante: il corpo è mostrato in un momento
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elusivo relativamente prima che prenda contatto con il suolo -un momento dunque di animazione sospesa che è coinvolgente nella sua indeterminatezza.
L’opera dell’artista multimediale Carolee Scneemann, intitolata Terminal Velocity (2001-5) consiste in una serie di scansioni in bianco e nero realizzate al computer di fotografie di giornali, che includono quella di Richard Drew, che ritraggono corpi che cadono dalle Torri l’11 settembre, qui fortemente ingrandite e unite a formare un’imponente griglia. La ripetizione e la simmetria della griglia, richiama le serie di Warhol, e in particolare One Woman Suicide, 1963, che ritrae una donna in camicia da notte, con le braccia e le gambe divaricate come una bambola di pezza, che cade a mezz’aria davanti ad un edificio. Warhol aveva ripetuto la sua immagine per trenta volte (un gesto insieme comico e osceno) e riportando di volta in volta significative variazioni della qualità della stampa tra un frame e l’altro, con alcune lacune e alcuni doppi dell’immagine nell’applicazione dell’inchiostro sulle serigrafie. A differenza di Warhol e di Charlesworth, l’intento di Schneemann, come nel caso di Fischl, era quello di un pubblico elogio. Per lei, il processo di creazione del lavoro era stato un tentativo di individuazione del sentimento di quelle vittime raffigurate, ottenuta mediante un processo intimistico di scansione e allargamento delle immagini, un avvicinamento progressivo, scatto dopo scatto. Il desiderio di questa artista di rappresentare il dramma umano di nove persone, non fu però percepito dai newyorchesi, la cui violenta disapprovazione del lavoro quando fu mostrato nel 2001 venne espressa attraverso il danneggiamento dell’insegna della galleria e la scrittura di oscenità nel libro degli ospiti. In effetti, come commentò la stessa Schneeman all’epoca dei fatti, fu proprio il fatto di mostrare un tale grado di vulnerabilità ad essere considerato vergognoso e oggetto di una certa speculazione. Il carico emozionale dei fatti rappresentati era in realtà per quegli spettatori traumatizzati tanto intenso che i tentativi espliciti dell’artista di riconoscere la sofferenza di coloro che rappresentava, non trovarono nella sua scelta mezzi espressivi che potessero essere considerati adeguati.
Nelle immagini di Schneeman le dimensioni dei corpi crescenti progressivamente nel passaggio da un fotogramma all’altro costituirono una scelta formale con forti implicazioni etiche. L’accresciuta grandezza da un frame al successivo si poneva
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infatti in una relazione inversa con la perdita tragica di agency inscritta nella caduta libera delle persone raffigurate. In questo senso allora, ingrandirne la misura sembrò sminuirne la vulnerabilità piuttosto che far loro un tributo. Inoltre, il formato a griglia usato dall’autrice, ripetendo le stesse immagini in colonne verticali, apparve come una successione di tipo seriale piuttosto che sequenziale, il che implicava l’assenza dell’impressione di un cambiamento tra un’immagine e l’altra e con essa del fiorire del movimento (simile alla modalità della cronofotografia di Marey o di Muybridge degli anni settanta dell’Ottocento). Schneemann aveva infatti adottato figure differenti inserendole in una composizione, ripetendole poi in formati sempre più grandi posti in successione verticale nella griglia finale. In questo modo le strisce create dalle fotografie formavano un parallelo con quelle delle torri, e se qui il formato a griglia e la serialità usati dall’autrice implicavano un senso di movimento nel ritmo della composizione complessiva, ciò non avveniva anche per i corpi in caduta libera, i cui movimenti non si modificavano.
Come indica il titolo Terminal Velocity, l’intento dell’autrice era appunto quello di fermare e rendere immobili quei corpi che nella realtà degli eventi erano stati ripresi in un momento in cui compivano una sorta di movimento agonizzante. Questa sospensione però, piuttosto che incoraggiare nello spettatore l’identificazione con coloro che stavano cadendo, attraverso una narrazione della loro traiettoria, punta invece a spettacolarizzare la soggettività –corpo rizzata- al limite della sua esistenza.