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e promozione amministrativa

2. Il discorso sulla sicurezza della Regione Toscana

In Toscana la “questione sicurezza” si afferma con la campagna per le elezioni regionali del 2000 e compare tra gli impegni assunti nel programma di governo del Presidente Claudio Martini, sostenuto dalla coalizione di centro-sinistra.

Insediatosi nell’aprile del 2000, il Governo regionale approva in termini relativamente rapidi il Progetto speciale “Una Toscana più sicura” (delibera n. 1417 del 29 dicembre 2000), con il quale s’intende

“segnare l’avvio della manifestazione della volontà della Regio- ne di dare un inquadramento più sistematico e riconoscibile alle politiche promosse e sviluppate sul proprio territorio” e “co-

struire un modello di sicurezza per la comunità toscana” (Giunta

della Regione Toscana 2010, 2, corsivi aggiunti).

      

Un’analisi sintetica della normativa regionale in materia è stata curata dall’Osservatorio della Regione Toscana (Osservatorio regionale sulle politiche integrate della sicurezza della Regione Toscana 2004).

Il Progetto speciale è annunciato come una “novità” ed è accompagnato dai tre grandi “principi di giustificazione” individuati da Lascoumes e Le Galès (a cura di, 2004 [2009]) a partire dall’osservazione delle innovazioni nei mezzi di azione. Si presenta, in primo luogo, come un “gesto politico” che rompe con il modo di interpretare i problemi di insicurezza proprio di altre culture di governo e, in questo senso, appare come una dimostrazione della competenza degli amministratori toscani:

“Il governo regionale si caratterizza per uno specifico approccio

al problema della sicurezza che lo differenzia profondamente da

impostazioni di diverso orientamento politico-culturale caratte- rizzate dalla centralità se non dall’esclusività delle problemati- che specifiche di ordine pubblico” (Giunta della Regione Tosca- na 2000, 1).

La enunciata rottura è giustificata nel senso di rispondere a una “ricerca di una maggior efficacia”. L’approccio “basato sull’ordine pubblico” chiede di essere superato perché introduce una semplificazione nella molteplicità di elementi che concorrono a comporre le istanze di sicurezza. In tal modo, non soltanto non è in grado di produrre gli effetti promessi – la diminuzione del senso di insicurezza dei cittadini – ma, al contrario, con- tribuisce ad alimentare nuovi allarmi:

“Impostazioni di questo tipo, frequenti nel dibattito politico e culturale, tendono spesso a attrarre nell’area della criminalità comportamenti non criminali, che sono invece manifestazioni di disagio sociale, a sottovalutare il ruolo delle istituzioni preposte all’intervento sociale ed alla programmazione degli insediamenti abitativi, ad accentuare i conflitti fra cittadini, a privilegiare azioni dimostrative di pura immagine ma di scarsa efficacia nel tempo: in sostanza ad alimentare il senso di insicurezza dei cit- tadini e a giustificare interventi meramente repressivi” (Giunta della Regione Toscana 2000, 1).

Il Progetto speciale si presenta quindi come strumento capace di rinnovare e arricchire l’azione pubblica attraverso l’ingresso di nuovi attori. L’obiettivo non è infatti soltanto quello di farsi carico della “preoccupazione generale nei confronti della criminalità” e del ”timore di diventare effettivamente vittima”, ma più in generale di un “disagio che coinvolge molteplici aspetti della vita moderna”. Ed è proprio il “disagio” a giustificare un ampliamento dello spettro delle azioni, recuperando in particolare il ruolo delle isti- tuzioni “preposte all’intervento sociale”.

Il documento, in realtà, è piuttosto scarno e non dedica molto spazio ad argomentare le caratteristiche del nuovo approccio, la cui efficacia viene meramente enunciata, ma re- sta prevalentemente sottintesa. In questa fase, quello che si persegue appare soprattutto – riprendendo ancora Lascoumes e Le Galès – “l’effetto simbolico dell’annuncio” foca- lizzato su un’accezione ampia di sicurezza che è presentata come lo spazio di intervento specifico della Regione.

In un articolo di qualche anno fa Baratta (2002) introduceva una distinzione più volte ripresa nel dibattito italiano, tra “sicurezza con la S maiuscola”, intesa in generale come “sicurezza dei diritti di cittadinanza di tutte le persone” e obiettivo della pluralità delle politiche pubbliche, e “sicurezza con la s minuscola”, che si cerca di realizzare all’interno di ambiti specifici e circoscritti, tra i quali quello della protezione nei con- fronti di delitti e di “comportamenti incivili”.

Le due definizioni di sicurezza tendono a più riprese a sovrapporsi e a confondersi nel Progetto speciale, il cui obiettivo prioritario risulta tuttavia quello di “riportare nell’alveo di un progetto di sicurezza in capo alla Regione” aree di azione che sono “già

praticate istituzionalmente” e le cui direttrici fondamentali sono individuate in un in-

sieme di interventi settoriali specificati in elenco e che di fatto corrispondono alla quasi totalità delle competenze regionali: politiche per l’educazione e cultura della legalità; politiche di sostegno alle vittime dell’usura; politiche sociali (accoglienza e inclusione degli immigrati, contrasto al fenomeno della prostituzione, inserimento lavorativo delle fasce di popolazione più esposte al rischio di esclusione sociale); politiche abitative; po- litiche per l’avviamento al lavoro; politiche di sviluppo della formazione professionale. In altri termini, il repertorio argomentativo pubblico appare attento ad evitare una sem- plificazione delle istanze di sicurezza e ad avvallare lo spostamento, evidenziato da Ca- stel (2003 [2004]), dal piano delle “protezioni sociali” a quello delle “protezione civili”. Il “modello toscano di sicurezza” individua ed esibisce le politiche di inclusione qua- le tratto distintivo della propria cultura di governo. Si tratta dell’azione sulle cause dei “problemi sociali”, promuovendo anche interventi mirati in favore di particolari popolazioni1.

A fronte di una definizione di sicurezza intenzionalmente ampia ed estesa, tale docu- mento risulta sostanzialmente privo di un preliminare approfondimento conoscitivo e fa riferimento soltanto a due tipologie di dati tipicamente “criminologici”: la prima sono i

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Sulla scia del modello francese, si suggerisce che le cause del crimine sono radicate in complessi fattori sociali, che comprendono condizioni di vita, condizioni lavorative, povertà ed esclusione dalla vita sociale, di determinate categorie di persone. In conseguenza di questa concezione, si sostiene che lo stato deve promuovere strategie di integrazione attraverso cui gruppi e individui percepiti come ai margini del legame sociale di solidarietà possono essere reintegrati.

dati sull’andamento generale della delittuosità, tratti dalla Relazione annuale del Mini- stero dell’interno; la seconda sono i dati generali relativi a quelle che vengono definite “aree di popolazione a rischio di esposizione a fenomeni criminali”, sotto la cui etichet- ta vengono raggruppate tre diverse tipologie di persone, ovvero gli “stranieri irregolari e clandestini”, gli “appartenenti ai popoli Rom e Sinti che soggiornano in Toscana” e i “soggetti con problemi di tossicodipendenza”. Tali soggetti – viene evidenziato – si tro- vano in “situazioni caratterizzate da particolare fragilità sociale” e richiedono “politiche di prevenzione e di inclusione in grado di evitare la contaminazione con le attività ille- gali”. Gli interventi di settore a favore dei tre “gruppi target” rappresentano tentativi di compensare gli svantaggi di cui essi soffrono, cercando di fornire di più a chi ha di me- no, con l’obiettivo di riavvicinare tali soggetti al regime comune, secondo la logica tipi- ca della “discriminazione positiva”. I “devianti” sono rappresentanti nel Progetto spe- ciale come vittime delle diseguaglianze dell’ordine sociale ed economico, soggetti che occorre sostenere agendo sulle condizioni che possono favorire l’emergere di compor- tamenti antisociali. È nondimeno vero che nel modo in cui il documento fa riferimento alla devianza vi è un’ambiguità di fondo che rende evidente quanto sottile sia il confine tra misure specifiche che mirano a superare condizioni di svantaggio di determinati gruppi e l’inserimento di questi ultimi entro un sistema di classificazione che attribuisce loro lo status di cittadini di seconda classe. Se le politiche di inclusione sociale vengono “giustificate” come funzionali alla riduzione del rischio criminalità e alcuni gruppi sono designati in una prospettiva di “deficit” e di “mancanza” (di socializzazione e di inte- grazione), si rischia di alimentare quegli effetti paradossali che Castel è stato tra i primi ad evidenziare.

A partire dagli anni 80, secondo Castel si sarebbe infatti manifestata una trasformazione profonda nelle retoriche e nelle politiche sanitarie e sociali, con il passaggio dalla no- zione di pericolosità a quella di rischio (Castel 1981; 1983; 1991). Un passaggio che “diviene possibile a partire dall’istante in cui la nozione di rischio è resa autonoma ri- spetto a quella di pericolo” (Castel 1983, 122). A questo punto, il rischio non deriva più da una caratteristica individuale (come era per la pericolosità definita dalla psichiatria classica), ma appare come effetto di una combinazione di fattori su cui si basa il calcolo della probabilità che si manifesti un comportamento indesiderato (Castel 1983, 122) e, con questa accezione, la sua produzione può essere attribuita a gruppi, contesti, tipi di persone. In questo modo, una rinnovata pericolosità, formulata in termini di suscettibili- tà ad agire comportamenti devianti o violenti e di fattori che predispongono a condotte incivili o antisociali, può essere attribuita nuovamente a un particolare individuo, sulla base della posizione che occupa all’interno di una popolazione caratterizzata da uno o più indicatori di rischio. La rilevazione della presenza di questi fattori rappresenta la ba- se astratta e probabilistica che fa inferire l’esistenza di un rischio e fa scattare, in manie-

ra automatica, un allarme che ha l’obiettivo di anticipare e prevenire, attraverso un’azione sistematica di dépistage, un evento che si vuole evitare, sia che si tratti di una malattia piuttosto che di un comportamento deviante (Castel 1983, 123).