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Il gruppo Finsider fra “boom” e congiuntura (1960-65)

Capitolo 3. Finsider fra due piani di sviluppo (1960-69)

3.2 Il gruppo Finsider fra “boom” e congiuntura (1960-65)

a) La nascita di Italsider

Il modello che Oscar Sinigaglia aveva dato al gruppo sin dall'immediato dopoguerra esprimeva una precisa idea di specializzazione: la Cornigliano S.p.A. avrebbe dovuto occuparsi della produzione di laminati piani – in particolare coils – gestendo la ricostruzione e l'esercizio del terzo centro siderurgico; l'Ilva invece si sarebbe occupata di produrre laminati lunghi a Bagnoli e Piombino, a loro volta specializzati rispettivamente in qualità sottili e larghe. Ben presto però le produzioni Ilva avevano mostrato tutta la loro debolezza: esauritasi la fase della Ricostruzione, la produzione del centro toscano – prevalentemente concentrata nel campo delle rotaie e delle ali larghe – aveva visto contrarsi i propri sbocchi; nel frattempo Bagnoli soffriva in particolare la situazione venutasi a determinare con l'adesione dell'Italia alla Ceca, che aveva reso possibile ai laminati mercantili e al tondo per cemento armato realizzati in condizioni più favorevoli in Belgio e in Francia di riversarsi sul mercato italiano. Contestualmente, in questo stesso comparto, andava emergendo la concorrenza dei produttori privati, che nel corso degli anni Sessanta sarebbe diventata irresistibile.

In definitiva, già alla fine degli anni '50 il modello di specializzazione delineato da Sinigaglia era saltato e i piani di investimento discussi nel gruppo miravano a trasformare quei centri in fornitori

delle altre unità Finsider. Ma in questo modo la flessione dei rendimenti già sperimentata negli anni precedenti si sarebbe approfondita, col rischio di trascinare Ilva in una situazione di crisi finanziaria. La conclusione che i dirigenti Finsider ne trassero fu di far confluire le due principali società del gruppo per compensare con gli utili derivanti dalla produzione di piani – che sarebbero stati ancor più significativi con l'entrata in marcia di Taranto e del nuovo laminatoio a freddo di Novi – le perdite delle produzioni relativamente marginali12. Nell’assemblea Finsider del 14 luglio 1961 veniva così decisa la costituzione di Italsider, che avrebbe dovuto incorporare Ilva e Cornigliano S.p.A. – cui, come si è già accennato, di lì a due anni si sarebbe unita anche la Siac. Gli auspici che la dirigenza del gruppo espresse in quell’occasione segnalavano le ragioni che avevano spinto alla decisione di dar vita alla nuova società:

“Con la fusione Ilva-Cornigliano e la creazione di Italsider, oltre a raggiungere le dimensioni tra le maggiori in Europa, il Gruppo si arricchisce di un’azienda nella quale, al migliore equilibrio della produzione, corrisponde un più razionale ed efficiente apparato organizzativo, tale da assicurare oltre che i migliori vantaggi di ordine tecnologico, una più chiara e decisa unitarietà di gestione e una migliore redditività.”13

Contribuì a far prevalere questa linea anche la questione relativa alla sistemazione societaria del nuovo stabilimento di Taranto: Ilva lo reclamava per sé, in modo da poter contare a sua volta su un canale diretto col segmento di mercato all’epoca più dinamico, tuttavia la funzione che Marchesi aveva attribuito al nuovo centro era di supporto all’attività di Cornigliano e di Novi, per cui si rendeva necessario inglobarlo nella stessa società che avrebbe gestito questi ultimi due, in modo da evitare le imposizioni fiscali sui trasferimenti fra le unità produttive. Oltre tutto, se anche Bagnoli e Piombino negli anni seguenti avrebbero svolto sempre più una funzione integrativa, l’opportunità di far confluire tutti i grandi stabilimenti del gruppo in un’unica azienda risultava quanto mai evidente. La nascita dell’Italsider d’altra parte avrebbe dovuto permettere una ristrutturazione non solo dell’organizzazione industriale del gruppo, ma anche degli equilibri societari. Fino a quel momento infatti ciascuna azienda aveva operato sostanzialmente in proprio, con la supervisione di ultima istanza della Finsider, il cui potere di indirizzo tuttavia era gradualmente declinato man mano che ci si era approssimati al compimento del Piano Sinigaglia. Italsider invece avrebbe dovuto concentrare in sé tutte le prerogative legate alla parte industriale, in modo da esprimere una strategia unitaria; così Finsider avrebbe finalmente assolto il compito di pura e semplice finanziaria. Per la nuova

12 Asiri, Finsider, Relazione Finsider sulla Organizzazione del gruppo, pp. 1-10.

società sarebbe dovuto valere il modello delle corporation americane. E il paragone non è meramente evocativo:

“prima di mettere a punto lo schema organizzativo Italsider, Marchesi si reca negli USA per studiare la US Steel che descrisse ai colleghi italiani come “potentissima ed efficientissima”; riprese contatti con l’Armco, rinnovando il contratto di consulenza già stipulato nel 1950 per Cornigliano ed estendendolo a Novi; gettò le basi della Terninoss e preparò altri accordi tecnici e per la formazione del personale direttivo.”14

Sulla carta il progetto mirava dunque a una razionalizzazione nella divisione dei compiti fra aziende operative e finanziaria, conferendo a un’unica grande società il controllo dei principali stabilimenti del gruppo.

Non fu tuttavia facile realizzarlo. Vi si frapposero infatti non soltanto difficoltà tecniche che vedremo meglio in seguito, ma anche atteggiamenti imprenditoriali decisamente eterogenei. Da quel che racconta Gian Lupo Osti, all’epoca direttore generale di Italsider, le differenze fra il gruppo proveniente dalla Cornigliano (con Marchesi in testa) e quello proveniente dall’Ilva erano sensibili15. Da una parte, gli artefici del successo del nuovo centro ligure portavano con sé una cultura imprenditoriale improntata al dinamismo e in grado di concepire piani di ampio respiro – come dimostra la stessa brillante mediazione condotta da Marchesi nella polemica sul quarto centro siderurgico, attraverso la quale riuscì a inserire il nuovo stabilimento all’interno di una più vasta strategia di espansione della produzione di laminati piani. Dall’altra, il gruppo di Ilva era attento in particolare alle compatibilità politiche. Quest’ultimo aspetto col passare del tempo sarebbe diventato sempre più rilevante; nel frattempo “l’Ilva venne premiata con una compartecipazione alla nuova avventura di Taranto, non prima, però, di venire riformata da una iniezione di dirigenti provenienti da Cornigliano, per prepararla alla fusione.” Il gruppo dirigente della ex Cornigliano estese dunque il suo potere tanto alla nuova società che alla finanziaria.

“Nel maggio 1962 si ridisegnava il vertice Italsider. Rossi, che aveva accettato di fare il presidente per un anno, si dimise, e fu sostituito da Marchesi, affiancato come A.D. da Redaelli Spreafico, il quale deteneva anche la D.G. Esercizi. Marchesi, dal suo canto, continuava ad essere D.G. della Finsider. Nel comitato esecutivo della nuova società sedevano anche Manuelli e Capanna  Presidente e Condirettore generale Finsider , e Taccone (Fiat). Fra i maggiori dirigenti Italsider si affermava Osti, che, prima del 1961, era stato inviato da Cornigliano all’Ilva come Vice D.G ed era, ora, promosso a D.G. Amministrazione e Affari

14 Ranieri, 2014

generali, con alle sue dipendenze personale e organizzazione. Il peso Italsider in Finsider era preponderante, del resto ne costituiva circa i due terzi sia del valore di bilancio delle partecipazioni, sia del fatturato.”16

Questo equilibrio tuttavia sarebbe venuto meno con l’emergere di crescenti problemi finanziari. Questi si fecero strada soprattutto a partire dalla fine del 1963, quando la stretta creditizia pose in essere una situazione di scarsità dei capitali tale da rendere più onerosi i crediti stipulati fino a quel momento per realizzare gli investimenti – in particolare la costruzione di Taranto – e da complicare così l’ulteriore ampliamento delle capacità produttive deciso negli anni precedenti. Come vedremo, questa circostanza ebbe conseguenze pesanti sulla strategia industriale del gruppo – e dell’Italsider, in particolare –; per il momento ci limitiamo a rilevare che sul piano dei rapporti interni al gruppo dirigente l’esigenza espressa dal vertice Iri di contrarre il fabbisogno finanziario portò in primo luogo a un rafforzamento dei poteri della Finsider e quindi, in essa, della componente che faceva capo ad Alberto Capanna, referente di fitti legami con ambienti governativi. Di lì a poco l’equilibrio societario pensato originariamente subì una radicale trasformazione.

“Nell’agosto 1965 Capanna presentava uno schema per cui si creava un Comitato di Coordinamento, con funzioni esecutive, composto da tutta la dirigenza Finsider con la presenza dei capi delle varie aziende: la Italsider veniva così equiparata alle altre società. Ma non era tutto: accanto a questo vertice, dovevano sorgere Comitati interaziendali di coordinamento per approfondire singoli settori della vita delle società (ne erano previsti sette), che dovevano riunirsi una volta al mese a Roma, presieduti da un D.C. Finsider. In sostanza tutti gli aspetti della vita aziendale venivano sottoposti a verifica e controllo dal centro, senza contare che “la finanza, le partecipazioni e le relazioni pubbliche sono di esclusiva competenza e responsabilità Finsider.

(…) la Finsider, che aveva sofferto l’emergere della preponderanza Italsider e aveva raccolto anche la insoddisfazione delle società minori, operava una vera e propria contro-riforma, dotandosi degli strumenti per intervenire all’interno delle aziende, interpellando e selezionandone i singoli dirigenti. Le conseguenze non mancarono di farsi sentire: Marchesi, pochi mesi dopo, si dimetteva da D.G. Finsider per dedicarsi, diceva, totalmente all’Italsider, e veniva sostituito da Capanna che suggellava così la sua ascesa.”17

b) La realizzazione di Taranto

E’ importante sottolineare i movimenti interni al gruppo dirigente Finsider, poiché essi contribuiscono alla comprensione delle strategie industriali di volta in volte adottate. Ma prima di

16 Ranieri, 2014. 17 Ivi.

addentrarci nell’analisi di queste ultime, occorre porre l’accento sul secondo elemento che tenne impegnati i dirigenti della siderurgia pubblica nel corso dei primi anni ’60: la realizzazione del nuovo centro siderurgico.

Si trattò di un’opera grande e complessa, che dovette misurarsi da subito con la rapida evoluzione del mercato. Come già si è accennato nel primo capitolo, la programmazione del centro di Taranto subì almeno due revisioni nell’arco di pochi mesi. Agli inizi del 1960, quando Enrico Mattei pose nello storico accordo di fornitura di idrocarburi dall’Urss la clausola per cui i sovietici a loro volta avrebbero dovuto importare tubi dal nuovo stabilimento, la dirigenza Finsider decise di stralciare dal progetto complessivo la parte relativa al tubificio e di realizzarlo prima di tutti gli altri impianti. Il progetto originario, elaborato nell’autunno del 1959, prevedeva in ogni caso una capacità produttiva di un milione di t, con una specializzazione che culminava a valle in un treno di laminazione a freddo. Ma già nel corso del 1960 questo venne rivisto, a seguito della repentina esplosione della domanda di beni siderurgici: fu allora deciso di installare sin da subito una capacità produttiva superiore a due milioni di tonnellate, eliminando tuttavia il treno a freddo perché contestualmente era stata potenziata la capacità produttiva prevista per Novi18. In definitiva, si decideva di portare alle estreme conseguenze la strategia emersa da tempo all’interno della dirigenza della Cornigliano: se ancora nella prima fase di elaborazione del progetto si pensava di fare di Taranto la testa di ponte delle esportazioni di laminati piani del gruppo, lasciando al complesso Cornigliano-Novi la fornitura dei mercati dell’Italia Nord-Occidentale, con il boom diventò sempre più chiaro che l’area economica che in quel momento stava esprimendo la più intensa domanda di beni siderurgici in Europa era proprio quella che faceva capo al cosiddetto “triangolo industriale”. Per cui – prima ancora di proiettarsi sui mercati esteri – era indispensabile intercettare il fabbisogno interno, di cui nel frattempo stavano beneficiando i principali concorrenti stranieri. Taranto diventò a questo punto parte integrante del “sistema Cornigliano”: si prevedeva infatti di destinare buona parte della sua produzione di coils alla laminazione a freddo di Novi Ligure19.

L’impegno finanziario complessivo per la realizzazione dell’opera venne previsto in un primo momento pari a 175 miliardi, passati a 260 già nel 1960 con la decisione di raddoppiare la capacità produttiva originaria. Si stimava che l’Iri vi avrebbe concorso con un incremento del fondo di dotazione di 80 miliardi; il resto sarebbe stato tratto da fonti interne e dal mercato. Tuttavia, il

18 Asiri, Numerazione Rossa, busta R27, Piano quadriennale 1960-63, pp. 38-39. V. anche Manuelli, 1961.

19 Ivi, p. 34, tab. 3. Il trasferimento di coils da Taranto a Genova via mare e di qui a Novi via terra poneva dei problemi non secondari di gestione della logistica; a questo proposito fu studiato un complesso sistema di trasporti fra stabilimenti diversi che avrebbe dovuto consentire di ridurre al minimo il sovracosto dovuto alla relativa lontananza, v. Marchesi, 1964. Sempre sul piano dei trasporti un'attenzione particolare venne rivolta al trasbordo di materie prime, attraverso il tentativo di rendere più efficiente l'attività della flotta del gruppo, v. Capanna, 1966.

graduale deteriorarsi dei risultati economici che fece seguito al crollo dei consumi iniziato alla fine del 1963, rese sempre più necessario il ricorso al mercato dei capitali. Quest’ultimo aspetto presentava non irrilevanti elementi problematici, dal momento che quel particolare mercato in Italia era all’epoca caratterizzato da elementi di rigidità, per cui il principale canale per trarre risorse finanziarie restava il credito. La situazione venutasi a determinare con la stretta creditizia da parte sua implicò un incremento degli oneri finanziari – che fra 1961 e 1965 passarono dal 2 al 10% del fatturato di Finsider – : ne risultò pertanto una dilatazione dell’indebitamento, il cui valore nel periodo 1961-65 crebbe dal 43 al 76% delle immobilizzazioni tecniche del gruppo. Con particolare rapidità aumentò l’indebitamento verso privati, la cui quota sulla copertura del fabbisogno finanziario complessivo nello stesso periodo passò dal 12 al 26%20.

In attesa del completamento dell’intero assetto impiantistico, nel 1961 divenne operativa la produzione di tubi saldati; le spedizioni furono relativamente soddisfacenti grazie alle commesse provenienti dall'Urss e dall'Argentina, in particolare. Un importante accordo di fornitura con quest'ultimo paese permise al tubificio jonico di centrare un'ottima performance nel 1963, quando l'utile del centro quasi eguagliò quello del complesso Oscar Sinigaglia. Tuttavia i problemi di avviamento connessi all'entrata in marcia di tutti gli altri impianti avrebbero presto deteriorato i risultati economici dello stabilimento (v. Grafico 7). Vedremo più in là in che modo la dirigenza Italsider riuscì a far fronte alle difficoltà emerse in questa fase; per il momento occorre sottolineare che il principale ostacolo che essa individuò rispetto alla corretta marcia degli impianti fu l'impreparazione della manodopera.

c) Le difficoltà di Cornigliano-Novi e l’opzione Piombino

Mentre procedevano i lavori di realizzazione del IV centro siderurgico, l’unità ligure non subì trasformazioni di rilievo: si completò soltanto l’installazione dell’insuflaggio di ossigeno nei forni Martin, che permise di raggiungere una capacità produttiva superiore al milione e mezzo di t/anno di acciaio grezzo. La produzione del complesso Cornigliano-Novi – quest’ultimo venne inglobato come reparto dello stesso stabilimento ligure – andò specializzandosi sempre più in linea verticale: il nuovo laminatoio a freddo passò in breve a realizzare 600 mila t di lamierini all’anno, mentre il potenziamento delle linee di zincatura e di stagnatura di Cornigliano permise di produrre 200 mila t/anno di entrambe le qualità di prodotti. Contestualmente si esaurì invece la produzione di lamiere, che venne integralmente concentrata nel centro Siac di Campi. In questo modo il volume dei

prodotti finiti raggiunse circa la metà dei coils realizzati dallo stabilimento ligure (contro il 30% circa del 1960); ciononostante i risultati economici del complesso non furono brillanti: se all’apice del boom (nel 1962) l’utile era complessivamente comparabile a quello di inizio decennio, nel triennio successivo si verificò un progressivo deterioramento che condusse nel 1965 a una inedita situazione di perdita (v. Grafico 3.7).

Sul ridimensionamento della redditività del complesso che fu ribattezzato “Oscar Sinigaglia” giocavano anche fattori interni: le difficoltà incontrate a Cornigliano nella realizzazione dei lavori di ammodernamento e, in ogni caso, la limitatezza della soluzione adottata per l’acciaieria. Mentre negli altri centri infatti iniziavano a entrare in marcia i nuovi convertitori L.D. – che consentivano performance decisamente migliori dei forni Martin o degli ancora più vetusti convertitori Thomas –, la soluzione ibrida sperimentata presso lo stabilimento ligure era destinata a segnare il passo entro breve.

Questo problema sembrava ben presente alla dirigenza Italsider, che si propose di risolverlo con una modifica dell’assetto produttivo del gruppo che mirava alla complessiva ristrutturazione del centro di Piombino. Come si è accennato nel primo capitolo, questo dalla fine degli anni ’50 aveva perso una specializzazione peculiare e, come d’altra parte Bagnoli, fungeva da supporto agli altri stabilimenti del gruppo. L’idea, emersa agli inizi degli anni ’60, era di installare anche nell’unità toscana un treno per bramme, che avrebbe dovuto poter contare, a monte, su una acciaieria L.D. del tutto nuova e su un nuovo grande altoforno21. Entro la metà del decennio la produzione sarebbe così passata dal milione circa del 1960 ai 2,5 milioni t di acciaio grezzo, ma con la possibilità di espanderla ulteriormente prima a quattro poi a sette milioni di t/anno. In definitiva, Piombino sarebbe così diventato il principale stabilimento del gruppo, superando persino Taranto in capacità produttiva. Non è chiaro quale specializzazione avrebbe assunto, ma è improbabile che una produzione di quella portata si sarebbe concentrata nel solo segmento dei semilavorati. D’altra parte la vicinanza di Piombino a Cornigliano e, in generale, ai principali sbocchi di prodotti siderurgici e la mancata trasformazione del reparto acciaieria dell’unità ligure lasciano pensare che l’intenzione della dirigenza Italsider fosse di integrare gradualmente quanto meno la produzione di base dell’Oscar Sinigaglia con quella dello stabilimento toscano. Questa d’altronde è la traccia che ci segnala Gian Lupo Osti alludendo a un “piano Marchesi” concepito a cavallo fra anni ’50 e ‘6022. E comunque nel senso di un ampliamento significativo dell’unità toscana sembrava volersi muovere

21 Asiri, Finsider, busta R27, Piano quadriennale 1961-64, p. 32. 22 Osti, 1993, pp. 64-65.

la dirigenza Italsider, che acquistò vasti appezzamenti di terreno attorno al perimetro corrente dello stabilimento.

Il piano di ristrutturazione di Piombino subì tuttavia un arresto nel 1963. Di fronte alle difficoltà finanziarie che la cosiddetta “congiuntura” fecero emergere all’interno dell’intero gruppo, la dirigenza Iri invitò le finanziarie di settore a rivedere i progetti d’investimento elaborati fino a quel momento con l’intento di contrarre significativamente il fabbisogno di capitali23. La risposta del presidente di Finsider, Manuelli, all’invito inoltrato da Sernesi – divenuto nel frattempo direttore generale Iri – fu che all’interno del gruppo siderurgico potevano essere rivisti esclusivamente i progetti relativi a Piombino, dal momento che tanto la costruzione di Taranto quanto l’ammodernamento di Bagnoli erano a uno stato troppo avanzato per poter essere arrestati24. Si decideva così di bloccare la realizzazione del nuovo altoforno, della nuova acciaieria L.D. e del treno bramme, portando a termine esclusivamente l’installazione di un treno per lunghi di piccoli spessori25.

Nonostante la relativa indeterminatezza del suo assetto produttivo, il centro toscano riuscì a realizzare buoni risultati economici, raddoppiano gli utili fra 1960 e 1964 e ottenendo un sostanziale pareggio l’anno successivo (v. Grafico 3.7). Ciò sembra dimostrare che l’intuizione di Mario Marchesi e del suo gruppo circa l’opportunità di sviluppare ulteriormente Piombino non fosse affatto peregrina: essa si basava evidentemente sulla conoscenza delle potenzialità che l’unità in questione esprimeva.

d) Bagnoli e la concorrenza delle miniacciaierie

Per quel che riguarda il centro di Bagnoli, come si è già accennato, si ebbe in questa fase l’entrata in marcia della nuova acciaieria L.D. – che andava a sostituire i vecchi convertitori Thomas – e di un nuovo altoforno di grandi dimensioni. Queste trasformazioni non modificarono tuttavia la specializzazione produttiva dell’unità campana, che continuò a produrre prevalentemente tondo per cemento armato e vergella. Si trattava di prodotti che, come si ricorderà, avevano posto il nostro paese in condizione di importatore netto rispetto alle siderurgie che potevano contare su un’abbondanza relativa di minerale fosforoso, in particolare quelle belga e francese. Le innovazioni di processo introdotte a Bagnoli avrebbero dovuto consentire di recuperare questo gap, dal momento che i convertitori L.D. erano in grado di esprimere livelli di efficienza superiori rispetto ai

23 Barca, 1997, pp. 32-33.

24 Asiri, Numerazione Rossa, busta R37, fascicolo 3, Piano quadriennale 1964-67, Lettera di S. Sernesi a Ernesto

Manuelli

modelli Thomas. Tuttavia un’altra minaccia andava emergendo per Bagnoli: quella dei produttori di