Capitolo 3. Finsider fra due piani di sviluppo (1960-69)
3.4 Il nuovo piano di espansione della siderurgia pubblica
Il 26 giugno 1969 il Comitato di Presidenza dell’IRI decideva di costituire un Comitato Tecnico Consultivo per il settore siderurgico. Era il secondo, dopo quello istituito alla fine del 1958. La decisione si collocava tuttavia in un momento sotto molti aspetti diverso da quello che aveva portato all’istituzione del primo Comitato. Come si è visto nel capitolo 2, infatti, la siderurgia europea non stava attraversando una situazione di scarsità dell’offerta; apparivano piuttosto sempre più evidenti segnali di una crescente sovracapacità produttiva a livello globale, legata anche al rallentamento dei ritmi di sviluppo dei sistemi economici più avanzati e al contestuale emergere di nuovi concorrenti. Il mercato italiano continuava tuttavia ad essere caratterizzato da un andamento dei consumi di beni siderurgici più rapido rispetto a quello degli altri paesi della Comunità Economica Europea (Cee). Tale specificità proiettava il rischio di una progressiva dipendenza dall’estero sul piano delle forniture di beni siderurgici – situazione che si era già verificata nei primi anni ’60 e dalla quale si era emersi grazie alla realizzazione del robusto piano d’investimento deliberato allo scorcio del precedente decennio. Questa prospettiva non poteva non impensierire non solo il vertice Finsider, ma soprattutto la dirigenza politico-economica del paese. Fu su questa base che venne costituito il nuovo Comitato tecnico consultivo.
I compiti che il vertice dell’Istituto affidava a tale organo erano tre: a) esaminare l’evoluzione a medio e lungo termine della siderurgia italiana nel quadro del mercato comunitario e mondiale; b) valutare gli eventuali deficit di capacità produttiva che sarebbero venuti a determinarsi in seguito all’espansione del consumo interno e indicare le possibili soluzioni in termini di nuove realizzazioni impiantistiche; c) individuare un assetto razionale per la produzione italiana di acciai speciali80. Ancora una volta la presidenza del Comitato fu affidata a Vincenzo Caglioti, presidente del CNR, mentre nella selezione dei componenti si rilevarono significative differenze rispetto alle scelte operate nel 1958. Se allora era stato ammesso ai lavori anche il rappresentante dei siderurgici privati – il cui contributo, come si è visto nel primo capitolo, incise non poco sull’esito delle discussioni –, mentre la presenza di esponenti di area governativa era stata limitata dalla scelta del Ministro delle Partecipazioni Statali, Lami Starnuti, di costituire presso i suoi uffici un organismo analogo, in questa occasione l’esecutivo ebbe un peso specifico notevole, mentre i soli dirigenti di imprese siderurgiche invitati furono i massimi esponenti di Finsider e Italsider81. Si trattava ovviamente di scelte tutt’altro che casuali: come vedremo meglio trattando dei contenuti della discussione, i lavori del Comitato si legavano strettamente all’esperienza della Programmazione Economica che – come emerso nel precedente capitolo – individuava nella siderurgia un settore strategico per lo sviluppo del paese e, al contempo, si proponeva di porre rimedio ad alcuni squilibri cronici della nostra economia, che l’espansione dell’ultimo decennio aveva contribuito ad aggravare: in particolare il divario territoriale fra Nord e Sud.
Le prospettive di sviluppo delineate dal programma economico per il decennio 1970-80 (il cosiddetto “Progetto ‘80”) richiedevano in effetti un chiarimento in merito alle strategie che la siderurgia italiana – e quella pubblica in particolare – intendevano adottare. Da queste sarebbe dipesa infatti la determinazione di diverse importanti variabili macroeconomiche: in primo luogo, il saldo della bilancia commerciale, sulla quale incidevano significativamente gli scambi di beni siderurgici con l’estero. Ciò che preoccupava maggiormente in quel frangente era che l’incremento continuo del consumo interno di acciaio – sospinto dalla prevedibile espansione di certi settori-
80 Asiri, Numerazione Rossa, busta R50, Finsider, Comitato Tecnico Consultivo per lo Sviluppo della Siderurgia, Roma, 1 luglio 1969.
81 In rappresentanza del governo furono convocati: Gaetano Stammati (Ragioniere centrale dello Stato), Giorgio Ruffolo (Segretario della Programmazione Economica), Giovanni Landriscina (D. g. per l’attuazione del programma), Eugenio Carbone (D.G. del Ministero per l’industria) e Mario Guidi (D.g. del Ministero delle Partecipazioni statali). La siderurgia pubblica era rappresentata da Ernesto Manuelli, Alberto Capanna (rispettivamente Presidente e Amministratore delegato di Finsider) e Mario Marchesi (Presidente di Italsider). Completavano il quadro: in rappresentanza dell’IRI, Vaniero Ajmone Marsan e Alberto Cesaroni (entrambi Direttori centrali dell’istituto); come esponenti dell’indirizzo “meridionalista”, Pasquale Saraceno e Ferdinando Ventriglia e il Presidente della Cassa del Mezzogiorno, Pescatore; mentre la Banca d’Italia era rappresentata da Mario Ercolani (Capo dell’Ufficio studi di Palazzo Koch). V. Ibid.
chiave della nostra economia: dagli autoveicoli alla carpenteria, dall’edilizia agli elettrodomestici – avrebbe provocato nel tempo un crescente disavanzo della bilancia siderurgica.
L’ipotesi era tanto più credibile in quanto gli ultimi anni avevano fatto segnare un intenso sviluppo del consumo di beni siderurgici da parte dell’economia italiana. La cosa che tuttavia più preoccupava era l’esaurimento cui stavano andando incontro i margini di espansione delle capacità produttive esistenti. Sul finire del 1969 il programma Finsider metteva in evidenza che “i piani quadriennali che si possono elaborare sulla base degli impianti disponibili e di quelli già previsti, evidenziano una netta insufficienza della nostra siderurgia a far fronte alla ricordata espansione del consumo”82. In realtà proprio dalle sedute del Comitato tecnico consultivo sarebbe emerso che già nel 1968 si era giunti al pieno utilizzo delle capacità correnti.
D’altronde, le stesse vicende del 1967-68 avevano fatto emergere, da una parte, l’urgenza di Finsider di ampliare la capacità produttiva del principale stabilimento del gruppo e, dall’altra, la convergente strategia del governo, impegnato in quel momento a favorire una nuova stagione di investimenti nel Mezzogiorno. I programmi varati a seguito delle decisioni prese dal Cipe nel 1968 vennero ulteriormente ampliati l’anno seguente. Il piano elaborato nel corso del 1969 prevedeva infatti il completamento dello stabilimento di Taranto, che avrebbe così raggiunto una capacità pari a 5,8 milioni di t/anno di acciaio grezzo, attraverso l’installazione di un quarto altoforno e di due colate continue, l’adeguamento del treno a caldo alla maggiore capacità produttiva d’acciaio decisa l’anno precedente, l’incremento a un milione di t della producibilità del treno a freddo, l’installazione di un treno lamiere (che avrebbe maturato una potenza produttiva di un milione di t) e di due nuovi tubifici; contestualmente il treno a caldo di Cornigliano sarebbe stato portato al massimo della sua potenza: due milioni di t all’anno83.
Completati questi ampliamenti – secondo le previsioni dei tecnici del gruppo ciò sarebbe avvenuto non prima del 1972 – la Finsider avrebbe tuttavia esaurito i margini di espansione degli stabilimenti esistenti. Da quel momento in avanti ogni ulteriore aumento del consumo interno si sarebbe perciò tradotto in un’espansione del deficit con l’estero. Ciò che più impensieriva di questa prospettiva era che il disavanzo avrebbe riguardato prodotti particolarmente pregiati, necessari allo svolgimento delle attività produttive di punta del nostro sistema industriale (in primo luogo i coils, la cui produzione era concentrata quasi esclusivamente negli stabilimenti Finsider). Le conseguenze sull’equilibrio valutario del paese sarebbero state gravi, mentre le aziende del gruppo (l’Italsider in
82 Asiri, Numerazione Rossa, R33, Finsider, Piano quadriennale 1970-73, p. 46.
83 Asiri, Numerazione Rossa, busta R50, Comitato tecnico consultivo per la siderurgia 1969/70, Valutazione del
fabbisogno addizionale di capacità produttiva del gruppo nel comparto dei laminati piatti in acciaio comune,
particolare) avrebbero visto progressivamente ridimensionarsi le rispettive posizioni di mercato a vantaggio dei concorrenti stranieri.
Fu dunque questo il primo e fondamentale nodo che il Comitato tecnico consultivo fu chiamato a sciogliere. In realtà però ve ne era anche un altro, non dichiarato ufficialmente, ma non per questo meno importante: il riequilibrio territoriale del sistema economico nazionale. Come si è visto, nel 1968 il Ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, Giovanni Pieraccini, aveva inaugurato la stagione della “contrattazione programmata” proprio su impulso di Finsider e altri grandi gruppi pubblici. Il governo, in sintesi, si proponeva di risolvere il divario territoriale promuovendo “blocchi d’investimento” attraverso il coinvolgimento di imprese pubbliche e private. L’ampiezza delle risorse messe in campo dai singoli operatori e l’integrazione fra i diversi progetti diventavano condizioni indispensabili per l’ottenimento dei benefici finanziari, creditizi e fiscali messi in campo con la legge 717/6584.
Era dunque questo il contesto che faceva da sfondo ai lavori del Comitato tecnico consultivo, insediatosi per la prima volta a sole due settimane dalla sua istituzione, l’11 luglio 1969.
La prima seduta servì essenzialmente a definire il calendario dei lavori: si decise che nell’incontro successivo il confronto si sarebbe concentrato sulla previsione di evoluzione del consumo interno nel medio-lungo periodo. Lo studio preparato dai tecnici Finsider – e discusso dal Comitato il 4 agosto – prendeva le mosse dal tasso di crescita del reddito previsto dal Programma economico nazionale per il decennio successivo (5,85% su base annua) e lo metteva in relazione a indici di elasticità del consumo di acciaio rispetto all’andamento del reddito che riflettevano il livello di sviluppo conseguito dall’economia italiana e scontavano la progressiva maturazione della stessa negli anni a venire (per cui nei primi cinque anni il rapporto sarebbe oscillato fra 0,9/1, mentre nel periodo successivo si sarebbe attestato intorno a 0,6/0,65). Ne risultava che, nel 1975, il consumo nazionale d’acciaio avrebbe raggiunto 25,5 milioni di t, mentre all’inizio del successivo decennio sarebbe arrivato a 30,5 milioni t, con un incremento in media annua del 4,8%85. Ancora più rapidamente si sarebbe sviluppato il consumo di laminati piatti, che da 8,9 milioni di t del 1968 avrebbe conseguito nel corso del decennio un incremento di quasi 10 milioni di t, crescendo del 6% in media annua86. Si trattava di dinamiche relativamente contenute se comparate con quelle del decennio appena trascorso (che aveva visto crescere il consumo nazionale ad una media del 9,2% all’anno), ma comunque sufficientemente intense se raffrontate alla prevista evoluzione della produzione. Sulla base dei programmi già approvati dalle aziende siderurgiche italiane questa
84 V. Carabba, 1977.
85 Asiri, Numerazione Rossa, busta R50, Comitato tecnico-consultivo per la siderurgia 1969/70, Prevedibile evoluzione
del mercato siderurgico italiano al 1975 e 1980, Luglio 1969, p. 25 (Tab. 14 bis).
sarebbe aumentata di appena tre milioni entro il 1975 – di cui 1,7 nel comparto dei piani e 1,4 in quello dei lunghi –, determinando così un deficit di 5,4 milioni di t, che sarebbe andato a raddoppiare di lì al 1980. Gran parte del disavanzo si sarebbe concentrato nel campo dei laminati piani (4,9 milioni t nel 1975 e 8,3 nell’80)87. Ecco allora che l’evoluzione delle produzioni Finsider diventava decisiva per soddisfare il previsto aumento della domanda.
Le diverse alternative in merito ai progetti di espansione delle capacità del gruppo pubblico vennero esaminate nel corso della terza e quarta riunione, tenutesi il 10 e il 28 novembre. Il dibattito prese le mosse da un’ulteriore relazione, che chiariva dettagliatamente le opportunità e i limiti insiti le varie proposte. L’alternativa secca nel medio periodo veniva individuata fra l’ampliamento del centro di Piombino fino a una capacità di 4,5 milioni di t di acciaio grezzo (contro i correnti 1,8) e il “raddoppio” di Taranto, che avrebbe così raggiunto quota 10,3 milioni ton. Rispuntava così l’alternativa già emersa negli anni precedenti, e momentaneamente risolta a vantaggio di Taranto. A ben vedere però si trattava di operazioni di tipo diverso: se nel recente passato la scelta era fra la modificazione strutturale dello stabilimento toscano – che avrebbe determinato non solo un notevole incremento della capacità produttiva, ma anche una conversione dello stesso al comparto dei laminati piani – e l’ampliamento della potenza del centro pugliese – che avrebbe permesso di superare i limiti dell’assetto corrente innalzando le economie di scala –, ora si trattava di decidere fra due opzioni della stessa portata. Come si è detto, infatti, Taranto aveva già raggiunto la dimensione massima possibile sulla base delle potenzialità esistenti; il raddoppio avrebbe significato una completa ridefinizione del suo assetto. In entrambi i casi, dunque, gli stabilimenti in questione avrebbero maturato modificazioni sostanziali – non meramente incrementali, come quelle introdotte dagli investimenti già varati per l’unità pugliese.
Su questa base, gli argomenti dei tecnici Finsider sembravano giocare a favore del centro toscano. La relazione presentata al Comitato giudicava infatti ottimale la sua conversione.
“Va peraltro osservato – si argomentava – che a Piombino l’impianto potrebbe essere progettato secondo una concezione tecnica più avanzata, con riflessi favorevoli sui costi di esercizio (…); inoltre l’impianto stesso sarebbe ampliabile, in un secondo momento, fino a 9 milioni di t, ovviamente con ulteriori benefici economici.”88
Il vantaggio relativo era dato essenzialmente da una migliore organizzazione logistica.
87 Ivi, p. 38 (Tab. 20).
“L’area a disposizione del centro toscano consente infatti di disporre gli impianti secondo un piano regolatore più razionale, che si tradurrebbe in sensibili economie nella movimentazione interna di materiali e prodotti, nonché nei servizi ausiliari (energia, fluidi etc.) e nelle manutenzioni. Una analoga impostazione non è realizzabile a Taranto, dove la disposizione degli attuali impianti e la configurazione degli spazi vincolano la dislocazione degli impianti necessari all’ampliamento [corsivo mio].”89
Ciò avrebbe consentito un risparmio di costi di produzione, rispetto alla soluzione di Taranto, di 11 miliardi lire/anno. Oltre tutto l’unità pugliese scontava una relativa lontananza dai principali centri di consumo – d’altronde i primi anni di attività della stessa avevano visto buona parte della sua produzione prendere il largo verso gli stabilimenti settentrionali del gruppo (in particolare Novi Ligure). Ne sarebbe derivato, secondo le stime dei tecnici Finsider, un aggravio delle spese di trasporto pari a 7,7 miliardi lire/anno – che nel lungo periodo si sarebbero ridotte a 5,7 a seguito del previsto sviluppo industriale del Mezzogiorno, che avrebbe ridislocato in una posizione più vicina allo stabilimento jonico il baricentro della domanda siderurgica. Calcolati su vent’anni i costi addizionali di esercizio conseguenti l’ampliamento di Taranto rispetto al progetto di espansione di Piombino avrebbero raggiunto 167 miliardi90.
A fronte di tali diseconomie ci si sarebbe potuti giovare delle varie agevolazioni messe in campo dalla legislazione meridionalista, soprattutto il contributo in conto capitale pari al 12% dei costi fissi e il finanziamento a tasso agevolato (4%), della durata di 15 anni, in grado di coprire il 50% dell’investimento complessivo. In una prospettiva ventennale tali misure avrebbero prodotto un risparmio pari a 143 miliardi di Lire. Tale cifra, sottratta ai costi aggiuntivi di cui si è detto sopra, avrebbe comunque lasciato scoperti 26 miliardi, che si sarebbero potuti recuperare usufruendo della riduzione dell’imposta sul reddito – prospettiva vincolata tuttavia alla realizzazione di un utile di competenza di 15 miliardi all’anno a partire dal quarto esercizio di attività91.
Dati dunque i benefici segnalati – che avrebbero dovuto sommarsi alla realizzazione a carico del bilancio dello Stato delle opere infrastrutturali necessarie all’operatività del centro e di quelle edilizie per l’alloggio degli operai – i redattori esprimevano parere favorevole all’alternativa di Taranto.
Il dibattito suscitato all’interno del Comitato tecnico consultivo dall’analisi della relazione offre interessanti indicazioni a proposito delle ragioni che spinsero la Finsider a privilegiare l’investimento nel Mezzogiorno. Anzitutto va segnalato che tutti i rappresentanti della siderurgia
89 Ivi, p. 22.
90 Ivi, p. 25 (Tab. 8). 91 Ivi, pp. 28 (Tab. 9)-29.
pubblica si mostrarono estremamente compatti nel difendere da eventuali obiezioni la scelta del “raddoppio” di Taranto. L’Amministratore delegato di Finsider, Alberto Capanna, in particolare, insistette in primo luogo sulla aderenza della stessa alle direttive di politica economica diramate dal governo92. Alle repliche, mosse soprattutto da Caglioti e Landriscina, che sottolineavano i costi aggiuntivi che sarebbero derivati dalla localizzazione meridionale degli incrementi di capacità, l’A.d. di Finsider rispose avanzando quello che forse dal punto di vista aziendale era l’elemento decisivo: se la scelta fosse ricaduta su Piombino non si sarebbe potuto fruire delle agevolazioni che le leggi mettevano a disposizione per gli investimenti nel Sud. Infatti, se nel lungo periodo avrebbero prevalso i sovracosti, nell’immediato il gruppo avrebbe potuto godere dei benefici legati alla legislazione meridionalista. Viceversa, nel caso si fosse deciso di realizzare l’ampliamento di Piombino e la sua conversione alla produzione di prodotti piani, la Finsider avrebbe dovuto assumersi in toto l’onere dell’investimento, impiegandovi nel breve termine notevoli risorse finanziarie (con eventuale robusto ricorso al mercato del credito). Prospettiva insostenibile, per il vertice Finsider, dal momento che i principali concorrenti internazionali del gruppo (Francesi e Belgi, in primo luogo) potevano godere di significativi contributi erogati dai rispettivi governi. L’alternativa toscana avrebbe dunque potuto prendere consistenza solo nel caso in cui anche in Italia si fosse varata una legge ad hoc per la siderurgia, con misure finanziarie analoghe a quelle vigenti oltralpe. Tale proposta – chiosava Capanna – sarebbe stata però senz’altro bloccata dalla Cee93.
A corroborare la posizione dell’Amministratore delegato di Finsider contribuì lo stesso Mario Marchesi, a suo tempo sostenitore dell’opzione piombinese, rivelando che per il centro toscano erano in corso trattative con Fiat per garantire alle sue produzioni di lunghi uno sbocco più stabile e all’intera unità una specializzazione meglio definita94.
La decisione del presidente Caglioti di aggiornare la discussione al successivo incontro non sortì nei siderurgici alcun effetto di ripensamento. Anzi, Capanna aprì la seduta del 28 novembre ribadendo nella sostanza quanto aveva già affermato due settimane prima. Lo stallo fu superato grazie al placet che Gaetano Stammati diede al piano di aiuti richiesti per realizzare il centro di Taranto. Il rappresentante del Ministero del Tesoro – che si era già dimostrato interlocutorio nella riunione precedente, quando si era limitato a chiedere a Capanna un prospetto più dettagliato delle eventuali
92 Asiri, busta R50, Comitato tecnico-consultivo per la siderurgia 1969/70, Terza riunione del Comitato Tecnico
Consultivo per la Siderurgia, tenutasi presso l'IRI il 10 novembre 1969 alle ore 18, p. 2.
93 Ivi, p. 6. “il Dr. Capanna sottolinea, per il caso di Piombino, l'enorme impegno finanziario (circa 1.100 miliardi per un centro da 9 milioni di t) che, in assenza di aiuti alla siderurgia come riconosciuto all'estero, il gruppo dovrebbe assumersi, impegno che, invece, sarebbe in parte ridotto nell'alternativa di una scelta meridionale a seguito dell'intervento dello Stato.”
spese che l’amministrazione centrale avrebbe dovuto sobbarcarsi – affermò che gli esborsi preventivati dalla Finsider in carico allo Stato erano compatibili con “le possibilità di Bilancio”. In conclusione, il Comitato approvò il rapporto che prevedeva il “raddoppio” di Taranto95.
La riunione successiva fu dedicata all’esame delle prospettive degli acciai speciali e dei laminati lunghi, ma prima di procedere in questo senso è opportuno concludere la trattazione relativa ai laminati piani con il dibattito sul V centro siderurgico. Questo venne affrontato specificamente nell’ultima seduta del Comitato, ma l’analisi di quella ipotesi era svolta nella stessa relazione che esaminava l’alternativa Piombino/Taranto.
Ammettendo che i nuovi impianti dell’unità jonica sarebbero entrati in esercizio fra 1973 e 1976, il rapporto tuttavia rilevava che, a partire dal 1978, si sarebbe nuovamente venuto a determinare un disavanzo con l’estero nell’ambito dei prodotti piani. Questo – inizialmente pari a poco meno di un milione di tonnellate, che sarebbero però raddoppiate nel successivo biennio – avrebbe anche potuto manifestarsi prima, nello stesso 1976, qualora la congiuntura si fosse rivelata particolarmente favorevole. Andavano pertanto predisposti nuovi incrementi di capacità, da realizzare di lì a qualche anno, per neutralizzare tale tendenza, per evitare l’inverarsi di uno scenario analogo a quello dei primi anni ’6096.
Ancora una volta i redattori del rapporto presero le mosse da un’alternativa: l’ampliamento di Piombino veniva nuovamente raffrontato con l’ipotesi di un V centro siderurgico a ciclo integrale anch’esso da localizzare nel Sud. I sovra-costi di quest’ultima opzione rispetto al progetto di espansione al centro toscano furono stimati, su base ventennale, in 266 miliardi per un insediamento continentale e in 284 per uno insulare. Essi scontavano, in primo luogo, maggiori spese di investimento e di avviamento per aree, impianti e infrastrutture, conseguenti la mancata predisposizione del territorio in funzione di una presenza industriale, le inevitabili difficoltà di realizzazione di un grande centro ex novo e la scarsa preparazione della manodopera autoctona (nel complesso l’aggravio previsto era di 70 miliardi). Ma gli oneri aggiuntivi di maggior peso riguardavano produzione (90 miliardi) e trasporti (64 miliardi nel caso di localizzazione continentale, 77 nell’ipotesi insulare). Nel calcolo dei primi i tecnici fecero tesoro dell’esperienza di Taranto e delle difficoltà che in quel centro si erano riscontrate nell’esercizio degli impianti da parte di manodopera con scarsa tradizione industriale. In relazione ai secondi, essi considerarono per la nuova unità una distanza dai principali centri di consumo analoga a quella di Taranto – nel caso