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II. CAPITOLO SECONDO: IL DISCORSO GLOTTODIDATTICO

3.2 Dalla didattica alla didassi

3.2.3.4 Il lessico

Eccezion fatta per quello che abbiamo definito approccio lessicale (cfr. § 3.1.7.5, 130), si può affermare che la riflessione sul lessico costituisca un aspetto spesso ignorato dai manuali e dagli insegnanti.

Il termine approccio lessicale fa riferimento ad una serie di tendenze glottodidattiche che pongono lo studio del lessico al centro della didassi (Serra Borneto 1998, 227).

I presupposti dell'approccio muovono da una serie di considerazioni legate sia all'approccio comunicativo che agli studi sull'acquisizione delle lingue non materne: si nota come la grammatica costituisca ancora l'aspetto che riceve la maggiore attenzione, e si inizia a sostenere che sarebbe utile legare lo studio della suddetta al lessico. Nella nostra mente, infatti, l'informazione grammaticale e quella lessicale sono codificate insieme e non separatamente, come vorrebbe giustificare lo studio del lessico tramite semplici liste di vocaboli.

In sostanza l'approccio lessicale cerca di contestare l'idea convenzionale sottostante l'apprendimento del lessico: parole che possono essere prese singolarmente, apprese tutte allo stesso modo e senza alcun legame con la struttura portante, la grammatica.

In realtà il significato delle parole è variabile e soprattutto dipende fortemente dagli altri termini con cui la parola è legata. Si parla di “collocazione” per indicare le possibili (e più probabili) combinazioni di parole: questa ha un'importanza strategica, poiché consente di prevedere determinate tendenze (richiamando il carattere di anticipazione della expectancy grammar).

Senza rinnegare l'insegnamento della grammatica si potrebbe parlare di “lessicogrammatica” per esprimere il tentativo proposto dall'approccio lessicale di partire dalla semantica per giungere alla grammatica (ivi, 233-235).

Sul piano della didassi si esige certamente l'utilizzo di materiale autentico, che consenta al discente di cogliere le tante sfumature della lingua (collocazioni, modi di dire, ironia, aspetti sociali ecc.). Questo atteggiamento si ricollega all'insegnamento delle abilità ricettive prima delle produttive, poiché forzare gli allievi a produrre qualcosa di astratto e forzato, o che difficilmente può essere colto, contraddice il principio di autenticità.

Infine vengono incoraggiate le attività di analisi e confronto linguistico, processo definito chunking. I chunks sono delle unità di un testo o di un discorso, superiori alla parola, che

hanno compiutezza come espressione significativa a livello globale; memorizzando tali “segmenti”, l'apprendente viene facilitato nell'esprimere un'intenzione comunicativa rispettando l'adeguatezza semantica.

Mentre solitamente ci si affida a liste da memorizzare per apprendere i vocaboli, in realtà ci sono varie tecniche per l'apprendimento del lessico.

La prima è senza dubbio la ripetizione, che spesso risulta una strategia non vincente per la velocità con cui si dimentica quanto appreso; un piccolo miglioramento può essere fatto ripetendo la parola ad alta voce dopo averla ascoltata registrata o in maniera più creativa leggendo o ascoltando canzoni. In generale questa tecnica è adatta per le fasi iniziali in cui non si necessita dell'apprendimento di un vocabolario esteso (Chayo 2008).

Al-Batal (2006, 336), in riferimento alla lingua araba, suggerisce una ripetizione che vada dalle sei alle dodici volte per essere efficace; riprendendo quanto detto circa la sterilità delle liste di vocaboli da riscrivere all'infinito, una valida alternativa potrebbe essere quella di creare un vocabolario personale (Chayo 2008). In generale il concetto di “ripetizione” non deve richiamare necessariamente attività poco stimolanti, anzi essa può essere inserita all'interno di altre tecniche, come quelle che seguono.

Una è l'elaborazione, basata su operazioni di associazione, contestualizzazione, confronto e contrasto, e visualizzazione.

Nel primo caso il termine può essere associato ad un'immagine o ad un oggetto onde evitare il ricorso alla traduzione. Nel secondo caso si garantisce autenticità, inserendo il termine in una frase, invitando l'allievo a formare frasi con la stessa parola o capirne il significato tramite espressioni idiomatiche.

Il confronto/contrasto è perfetto per utilizzare sinonimi e contrari, perifrasi e raffrontare elementi con diverso valore a seconda delle culture. Ciò consente di costruire campi semantici, come colori, animali ecc, campi situazionali, come nel caso di un'immagine che riproduce una scena dove viene riportato il lessico nella lingua che si sta studiando e infine opposizioni binarie come “piccolo/grande”, “buono/cattivo” ecc. (Balboni 1998, 113). Per facilitare queste operazioni si possono sfruttare tabelle, diagrammi ed esercizi di inclusione ed esclusione.

La visualizzazione infine chiama in causa la memoria visiva ed è una strategia molto apprezzata per la facilità con cui si memorizza ciò che si vede e per cercare di rendere “concreti” concetti astratti, solitamente difficili da insegnare senza ricorrere alla LM.

Queste considerazioni sono pienamente condivise da Al-Batal (2006, 331-340) e Ryding (2013, 197-205), i quali constatano la mancanza di una profonda riflessione sull'insegnamento/apprendimento dei vocaboli arabi. Le stesse ACTFL Proficiency Guidelines (2012) (cfr. ACTFL § 2.3.1.2,74) fanno riferimento al lessico soltanto per il livello più avanzato di conoscenza della lingua, mentre per quanto riguarda gli altri livelli si soffermano sull'influenza della LM.

In realtà il vocabolario va introdotto adottando strategie adeguate al livello; Al-Batal (ibid.) riconosce l'importanza dell'autenticità, proponendo l'uso di tecniche che evidenzino il contesto, le collocazioni e i legami semantici tra i termini.

Anche le prove di verifica dovranno essere pertinenti al livello, passando da brevi frasi per i livelli più semplici a paragrafi o racconti man mano che il livello si fa più avanzato.

L'arabo inoltre ha il vantaggio di essere basato su un sistema di radici e paradigmi, il che rende molto semplice sfruttare il modo in cui “si creano” le parole (cfr. § 1.2.2, 18-19).

Un esempio interessante è fornito da Al-Batal (ivi, 338); l'autore nota che il significato dei termini che descrivono il livello di conoscenza della lingua, come

يئادتب

ا (ibtidā'iyy, “elementare”),

طّسوتم

(mutawassaṭ, “intermedio”) e

مّدقتم

(mutaqaddam, “avanzato”) può essere collegato a termini che si apprendono molto presto nello studio della lingua araba, come

أدتبم

(mubtada', “soggetto”),

طسو*اقرشلا

(al-šarq 'l-'awsaṭ, “Medio Oriente”) e

ميدق

(qadīm, “vecchio”).

Ciò si riflette anche nella necessità di introdurre nomi e aggettivi nella loro forma plurale fin da subito, senza porsi problemi per la presenza di plurali “fratti” o “sani” (cfr. § 1.2.3.2, 20- 22), discorso che potrà essere affrontato in un secondo momento (Ryding 2013, 200).

Uno strumento utile per lo studio del lessico in arabo, è il Frequency Dictionary of Arabic, pubblicato nel 2011 per calcolare la frequenza con cui si utilizzano i termini arabi (ivi, 199). Come notano sia Al-Batal che Ryding, in realtà la questione è resa più complicata dal fenomeno della diglossia (cfr. § 1.2.11, 44-47), tuttavia se si parte da una lista di vocaboli in MSA e si aggiungono termini tratti da una o più varietà colloquiali (ad esempio i verbi maggiormente usati come šāf “vedere, guardare” e rāḥ “andare”), senza dubbio si può fornire un'interessante panoramica del vocabolario della lingua araba, andando a valorizzarne la ricchezza.

come un sistema “aperto” dalle svariate soluzioni a fronte di una grammatica spesso percepita come sistema di regole “chiuso”, è necessario porre la dovuta attenzione a questo aspetto della lingua che rappresenta uno degli elementi chiave dell'evento comunicativo8.