II. CAPITOLO SECONDO: IL DISCORSO GLOTTODIDATTICO
3.1 La glottodidattica nel XX secolo
3.1.8 Verso l'approccio integrato
Ripercorrendo il susseguirsi di approcci e metodi in un arco di tempo lungo cento anni, emerge chiaramente quella che Balboni (2002, 13), riprendendo Titone, definisce “sindrome del pendolo”.
La nascita di un nuovo approccio ha messo in discussione quello precedente, facendo emergere delle dicotomie nette che si sono spesso ripresentate nel corso del tempo: lingua orale/lingua scritta, competenza/esecuzione, competenza linguistica/competenza comunicativa ecc.
In realtà, come affermato all'inizio del capitolo, è importante considerare la varietà di approcci e metodi da un punto di vista globale, per vedere quali sono i principali contributi che hanno permesso alla glottodidattica di comprendere sempre meglio il processo di insegnamento/apprendimento di una lingua.
Siamo partiti dai metodi formali, che promuovono la conoscenza della grammatica, sul modello di studio delle lingue classiche; successivamente i metodi funzionali hanno evidenziato l'importanza della lingua orale e quelli strutturali si sono soffermati sul processo di apprendimento della lingua tramite l'interiorizzazione di comportamenti.
emergono i primi tentativi di spiegare come avviene il processo di apprendimento e di utilizzare strumenti che lo facilitino: l'utilizzo di supporti visivi e audio non è affatto un'idea innovativa degli ultimi anni, come ricorda giustamente Ricci Garotti (2004, 24). Inoltre se anche in questa fase vengano introdotti tali ausili, l'allievo detiene una posizione passiva e non gli viene riconosciuta alcuna creatività.
Chomsky negli anni Sessanta si oppone al comportamentismo, rivendicando che gli esseri umani sono naturalmente predisposti a produrre lingua; la sua distinzione tra competenza ed esecuzione contribuisce notevolmente a focalizzare l'attenzione sulla lingua viva, sebbene egli si interessi esclusivamente alla competenza linguistica.
La glottodidattica inizia a configurarsi come disciplina a sé stante, una scienza multidisciplinare che riceve l'influsso di altre scienze, ma non rappresenta la mera applicazione della linguistica (cfr. § 2.1, 49-51).
Lo studio delle lingue dal Secondo Dopoguerra è un'esigenza strumentale e le lingue divengono parte integrante dei programmi scolastici, sebbene in Italia vi sia un leggero ritardo rispetto ad altri paesi per la matrice essenzialmente conservativa nell'ambito della cultura educativa (Ricci Garotti 2004, 27).
L'introduzione del concetto di “competenza comunicativa” sembra essere la risposta ai problemi legati all'apprendimento. Il contesto assume un'importanza fondamentale e si introducono materiali non strettamente didattici, ma autentici come giornali, canzoni, filmati ecc. In realtà sopravvivono ancora molti degli elementi che hanno caratterizzato i “vecchi” metodi, come gli esercizi strutturali e la traduzione.
L'evoluzione continua con i metodi umanistico-affettivi, che pongono il discente al centro del discorso glottodidattico, concepito come l'insieme di caratteristiche intellettive ed emotive che compartecipano all'apprendimento.
Verso la fine degli anni Settanta si passa alla fase dell”educazione linguistica” (cfr. § 2.3.2, 78-79); si riconosce che la lingua sia l'insieme di variabili derivate da codici verbali e non verbali che interagiscono nella comunicazione e si individuano le mete fondamentali per la formazione della personalità dell'individuo: culturizzazione, socializzazione e autopromozione (Balboni 2002, 92 rivisitando le mete individuate da Freddi 1994, 33-35).
Dopo aver ripercorso lo sviluppo dei metodi e degli approcci susseguitesi nel secolo scorso, possiamo affermare che, nonostante ognuno di essi abbia messo in luce aspetti importanti, in generale tutti hanno fornito visioni piuttosto unilaterali, prendendo relativamente in
considerazione la pluralità dei fattori che compartecipano al processo di apprendimento. I metodi formali si concentrano esclusivamente sugli aspetti grammaticali, i metodi funzionali e strutturali mirano a sviluppare nell'allievo i meccanismi cognitivi necessari per il controllo linguistico; a partire dall'approccio comunicativo si cerca di mettere al centro dell'apprendimento quelle che sono le competenze necessarie per la comunicazione fino ad arrivare ai metodi umanistico-affettivi che lasciano in secondo piano le abilità linguistiche per concentrarsi sui fattori che creano disagio e ansia nel discente.
Attualmente si tende a considerare il concetto di “metodo” in quanto insieme di regole da seguire rigidamente come “superato” a favore dell'accezione più ampia di “approccio”, pensiero pedagogico questo di cui il QCER rappresenta un esempio lampante.
Inoltre al fine di impostare la didassi secondo una proposta metodologica completa negli ultimi anni si è fatto strada l’approccio integrato, in cui gli elementi efficaci di ogni metodo “convenzionale” vengono integrati al fine di rispondere alle svariate necessità che presentano i molteplici contesti di apprendimento di una lingua straniera.
Senza dubbio alcuni aspetti sono fermamente entrati a far parte dell'approccio integrato: la competenza comunicativa (con tutto l'insieme delle sue sottocompetenze), l'insegnamento delle abilità di base e di quelle integrate secondo le esigenze dell'allievo e non secondo criteri stabiliti dal materiale didattico, l'utilizzo del maggior numero di tecniche didattiche possibili per rispettare i diversi stili di apprendimento degli allievi e il continuo collegamento tra lingua e cultura per costruire la competenza interculturale (Porcelli 2013, 214-216).
In generale per il docente l'atteggiamento da tenere è quello di essere aperto a varie ipotesi e sperimentare, senza affidarsi ciecamente ad un metodo e soprattutto restare in costante aggiornamento (cfr. § 2.3.1, 72-78).
Di fronte a questi mutamenti in Italia alcuni studiosi hanno avvertito l'esigenza di “dare forma” all'approccio integrato: Renzo Titone propone il modello olodinamico, Marcel Danesi il modello bimodale e Giovanni Freddi presenta l'unità didattica, il modello più diffuso. Il modello dell'unità didattica verrà descritto nel dettaglio vista la sua grande diffusione; ora si illustreranno brevemente il modello di Titone e di Danesi.
Secondo Titone (1973) l'apprendimento va visto secondo tre livelli di analisi: il livello tattico degli atti linguistici esteriori legato alle abilità linguistiche di base; il livello strategico legato alle operazioni cognitive come comprendere, analizzare, sintetizzare, dedurre, confrontare verificare, ecc.; il livello ego-dinamico che coinvolge la persona nella sua interezza, con le
proprie motivazioni, i propri bisogni, i propri sentimenti, i codici verbali e non verbali scelti ecc.
I tre livelli vanno immaginati come una piramide rovesciata, corrispondente al processo di apprendimento che procede secondo tre tappe: la punta, che è alla base, rappresenta la volontà di comunicare legata al livello ego-dinamico; segue l'abilità di comunicare che corrisponde al livello strategico il quale garantisce coesione e coerenza al discorso; infine si trova l'atto di comunicazione vero e proprio che si manifesta tramite i suoni della lingua, il suo lessico e le strutture morfosintattiche, il livello tattico quindi (Porcelli 2013, 31-33).
Ad ogni livello Titone affianca determinate tecniche didattiche: per lo sviluppo delle abilità tattiche sono particolarmente adatta le tecniche di matrice strutturalista, mentre quelle comunicative sono più adatte per il consolidamento delle abilità strategiche e infine quelle legate all’approccio umanistico-affettivo sono invece più indicate al livello ego-dinamico (Danesi 1988, 35-36).
Il modello di Titone si può definire interdisciplinare poiché integra parti dei precedenti approcci, arrivando a coinvolgere la sfera affettiva, cognitiva e psicomotoria della persona. Il modello bimodale di Danesi enfatizza il ruolo dei fattori neuropsicologici che sottostanno all'apprendimento (Pichiassi 1999, 288-291).
Abbiamo già visto l'importanza di concetti come la lateralizzazione, la bimodalità e la direzionalità (cfr. § 2.4.1, 85); Danesi ritiene che questi debbano essere integrati nella metodologia didattica.
L'emisfero sinistro, analitico, è deputato all'elaborazione del linguaggio nelle sue componenti fonetica, morfosintattica e semantica, controlla le relazioni tra le parti di una frase, percepisce il significato letterale e ha una visione analitica.
L'emisfero destro, olistico, elabora il significato metaforico, percepisce l'umorismo e le espressioni emotive e ha una visione globale e sintetica.
Dal momento che entrambi gli emisferi compartecipano al processo d'apprendimento, tuttavia secondo il principio della direzionalità, è opportuno che il discente venga esposto dapprima ad input che attivano l'emisfero destro (dati autentici e contestualizzati) e poi quello sinistro (dati da analizzare e su cui riflettere); la grammatica ha un ruolo fondamentale secondo Danesi, tuttavia deve essere un punto di arrivo e non di partenza dal momento che implica attività di riflessione metalinguistica.
percezione globale all'analisi e alla riflessione. Questi temi saranno recuperati nel modello dell'unità didattica di Freddi.