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2.3.11 Il Libro XIII : la questione ipotetica

Nel libro XIII del Super Matthaeum Ruperto affronta direttamente la questione ipotetica, usando un linguaggio che lascia adito a diverse interpretazioni e non senza imprecisioni di carattere terminologico, soprattutto per quanto riguarda la cristologia e il rapporto tra il Verbo e il Figlio dell’uomo.

L’incarnazione incondizionata è affrontata in relazione all’argomentazione agostiniana sulla generazione dei giusti. La conclusione di Ruperto non è, quindi, un’asserzione del tutto nuova, poiché i Padri, e in special modo Agostino, si erano evidentemente posti l’interrogativo se ci potesse essere un ordine indipendente dal peccato. È dunque evidente come la questione ipotetica dipenda dalla discussione sull’onnipotenza e sulla bontà di Dio. La questione ipotetica non è un argomento isolato nella riflessione rupertiana; attraverso tale questione, infatti, il monaco vuole più semplicemente affermare che il peccato non dipende da Dio ma dall’uomo e intende così salvaguardare la bontà di Dio, il cui progetto originario è frutto soltanto dell’amore. Il peccato non ha deteriorato il piano di Dio ma anzi ha svelato ancora di più l’amore delle persone della Trinità e l’amore di Dio per l’uomo. L’essere umano può avere piena fiducia nel Figlio dell’uomo che verrà a giudicare il mondo, perché il peccato non ha sottratto nulla al suo stato, ma ha reso la sua gloria ancora più spendente.

L’obiettivo dell’argomentazione rupertiana è di esprimere, in forma ancora più evidente, la misericordia di Dio per l’uomo; la volontà di Dio nei confronti dell’uomo è buona da sempre: dal principio, quando Dio ha progettato di creare ogni cosa, sino alla fine, quando verrà a giudicare il mondo. La questione ipotetica è quindi una sorta di ragionamento per assurdo, funzionale all’affermazione dell’onnipotenza, della sapienza e soprattutto della bontà di Dio, il cui amore e la cui misericordia si trovano all’inizio e alla fine della storia della salvezza. Il valore della teoria dell’incarnazione incondizionata e la consapevolezza che Ruperto ne ha avuto nel Super Matthaeum sembrano però limitate. L’abate di Deutz sostiene senza dubbio la possibilità dell’incarnazione a prescindere dal peccato. Egli, tuttavia, se

ne occupa solo nelle ultime pagine dell’opera, mentre nel resto del Super

Matthaeum ricorre alla teoria più in linea con la tradizione, che considera la

redenzione come il motivo primario dell’incarnazione.

Nell’opera, infatti, si possono individuare diversi passi in cui Ruperto sembra subordinare l’incarnazione alla morte redentrice:

Ex istis cognoscitur Iesus Christus qualis sit, scilicet vere bonus, et vere fortis, quia tamquam bonus propter nos homo fieri et passionem subire voluit, et tamquam vere fortis victa morte resurrexit et in caelum ascendit262.

La meditazione dei quattro misteri di Cristo rivela la sua bontà e la sua forza perché, per gli uomini, Cristo volle diventare uomo e patire.

Dicit aliquis: non poterat alio modo fieri, ut manifestaretur in Israhel, nisi predicando paenitentiam? Ad haec, inquam, poterat quidem, sed omnium modorum, quibus hoc fieri poterat, iste modus erat optimum, et pro re magis congruus magisque necessarius. Quid enim? Nonne ad hoc venerat Filius hominis, nonne ad hoc natus erat agnus Dei, ut paenitentiam susciperet pro peccatis totius generis humani, et ut paenitentiam incipiens a ieiunio quadraginta dierum, perseveraret agendo illam in laboribus plurimis, usque ad mortem et ad

mortem crucis (Phl 2,8)263.

262

Cfr. ibid, Super Matthaeum cit. (alla nota 5), pp. 7-8, ll. 111-114.

263

La predicazione del Battista, che prepara la venuta di Gesù, proclama la necessità del pentimento, perché il Figlio dell’uomo venne e nacque proprio per questo, ad hoc, per ricevere su di sé la penitenza in favore dei peccati del genere umano.

Iste gloriosus Filius Dei, honorabilis Filius hominis, propterea de monte caeli descenderat in campum huius mundi, ut infirmitates, id est peccata, sanaret omnis hominis, Iudei primum et deinde gentilis264.

Nella discesa dal monte delle beatitudini, Ruperto vede il figlio di Dio discendere dal cielo in questo mondo, per sanare i peccati dell’uomo.

Per omnia igitur congrue, sicut dictum est, et per leprosum legis alumnum iudaicus, et per gentilis hominis puerum gentilis populus a suis curandus peccatis significabatur: per gratiam huius Filii hominis, qui in operibus suius exterioribus sine dubio salutem animarum, propter quam venerat, die ac nocte meditabatur salutem, et eorum qui sub lege erant, ut ille leprosus, et eorum qui sine lege erant ut iste puer a proprio sensu captivus265. 264 Cfr. ibid, p. 211, ll. 592-595. 265 Cfr. ibid, p. 212, ll. 644-650.

Nella guarigione del lebbroso e del figlio del centurione, si manifesta, invece, la salvezza del popolo ebraico e dei pagani, sulla quale il Figlio dell’uomo meditava notte e giorno e a causa della quale era venuto.

Econtra felices peccatores, qui suam iniustitiam recognoscunt, Dei iustitiam esuriunt et sitiunt. Nam illos salus vocare non venit, propter istos de caelis discendi, et humiliavit semetipsum

usque ad mortem, mortem autem crucis (Phl 2,8)266.

I peccatori, che con umiltà riconoscono il loro peccato, devono essere felici, perché è per loro che Dio è disceso dal cielo. Nello stesso libro XIII, Ruperto riconosce che il mistero nascosto da secoli prevedeva da sempre i quattro misteri della vita di Cristo, cioè l’incarnazione, la passione, la ressurezione e l’ascensione267

. Dio, dunque, aveva previsto ancora prima della creazione del mondo l’incarnazione redentrice del Figlio: Dio aveva previsto, non voluto, il peccato dell’uomo, l’incarnazione del Figlio e la sua passione.

Tali affermazioni sono sufficienti per cogliere la stretta relazione tra la venuta di Cristo e la sua morte in croce per gli uomini. Tutto ciò suggerisce forse che il monaco benedettino dedica al tema dell’incarnazione incondizionata un breve spazio ed abitualmente interpreta invece questo mistero di Cristo in relazione alla passione, in linea con la tradizione.

266 Cfr. ibid, p. 231, ll. 104-107. 267 Cfr. ibid, p. 410, ll. 515-520.