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2. LA SERIE TELEVISIVA GUNPOWDER

3.2. Il linguaggio cinematografico

L’oggetto di studio del traduttore audiovisivo è il parlato filmico, ossia la componente orale di un testo cinematografico, che rientra nella tipologia definita da Sabatini come lingua trasmessa: si tratta di una varietà linguistica sospesa tra l’oralità e la scrittura e veicolata mediante l’ausilio di meccanismi di produzione, registrazione e ricezione del suono30.

Il parlato filmico è l’unico elemento che può essere adattato e modificato durante il processo traduttivo.

Fino a qualche anno fa, la lingua cinematografica non era considerata una disciplina di studio o di ricerca da parte di critici e teorici, poiché si trattava di un “elemento secondario”. Si credeva che le immagini fossero superiori alle parole in quanto il loro impatto sul pubblico era maggiore (KOZLOFF 2000: 10).

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Siccome il film nasce muto e il sonoro viene introdotto solamente un trentennio dopo, molti studiosi sono inizialmente convinti che l’analisi dei dialoghi filmici non abbia alcuna importanza ai fini linguistici.

La svolta si ha negli anni Sessanta, quando il parlato filmico comincia a essere considerato un elemento centrale dei prodotti audiovisivi, poiché il dialogo è rilevante “nel momento in cui si integra e interagisce con gli altri canali semiotici che costituiscono il testo audiovisivo” (PEREGO, TAYLOR 2012: 70). È solo attraverso il parlato che lo spettatore può interpretare ciò che sta accadendo sullo schermo.

Va inoltre ricordato che in Italia il cinema sonoro è la prima fonte di apprendimento della lingua nazionale, dal momento che all’epoca non si è ancora stabilita un’unica varietà linguistica.

Il riconoscimento del linguaggio dei film come oggetto di studio e di riflessione ha suscitato l’interesse dei linguisti, i quali creano un vero e proprio campo di studi nella disciplina dei Translation Studies.

I dialoghi filmici sono caratterizzati da un linguaggio intermedio tra lo scritto e il parlato, tendente a una precisa identità normativa e una propensione per un’espressione “rispettosa della norma grammaticale, appiattita su un livello medio e foneticamente neutro” (RANZATO 2010: 15-16). Questo perché si tratta di una lingua “pre-scritta e recitata, quindi non spontanea in partenza; è sottoposta a una serie di procedure tecniche come il montaggio e la post-sincronizzazione, che allontanano anche il momento relativamente spontaneo della recitazione” (PAOLINELLI, DI FORTUNATO 2005: 9). Il parlato filmico è stato anche definito da Gregory come “scritto per essere detto come se non fosse scritto” (1967: 177) o come ha in seguito suggerito Lavinio:

Lo scritto per essere detto come se non fosse scritto è quello che mira a cancellare del tutto il proprio marchio di genesi scritta, per mimare con la maggiore verosimiglianza possibile le cadenze, i ritmi, le forme del parlato. […] Tale parlato-recitato, che imita il parlato (conversazionale o monologico) ma che non ne possiede comunque la spontaneità, diventa poi parlato-recitato e può acquisire una sorta di “spontaneità trasposta” quando l’attore, in una sorta di transfert, si cala completamente nella parte e assume la personalità del personaggio, aggiungendo al testo verbale proferito (e nato scritto dalla penna dell’autore) tutti quei tratti paralinguistici e cinesici inscindibili dal parlato e invece sempre inesorabilmente assenti nella scrittura, anche in quella più mimetica nei suoi confronti. (LAVINIO 1986: 14)

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È importante quindi conoscere le differenze tra le due principali varietà diamesiche, il “parlato-parlato” e lo “scritto-scritto” per poter analizzare il “parlato-recitato”31.

Come sappiamo, i prodotti scritti sono molto più accurati di quelli orali, in quanto possono essere rivisti e corretti più volte prima di essere letti da un pubblico. Vi è quindi una pianificazione testuale dovuta alla mancata contemporaneità tra il momento dell’elaborazione e quello dell’esecuzione. Questa tipologia è inoltre caratterizzata da una alta densità lessicale, ossia nello scritto vi sono “molte più parole lessicali (cioè parole con un significato specifico: sostantivi, verbi, aggettivi, avverbi) che parole funzionali (cioè parole con una funzione grammaticale: preposizioni, pronomi, articoli, congiunzioni)” (PEREGO, TAYLOR 2012: 58).

La produzione orale, invece, è creata sul momento, quindi è meno prevedibile e lineare. Nel parlato la comunicazione si avvantaggia spesso di fenomeni paralinguistici ed extra-linguistici. Una conversazione di tutti i giorni è, infatti, ricca di elementi non direttamente connessi con lo scopo del discorso: si tratta di fenomeni “che veicolano informazioni aggiuntive, sostenendo, rafforzando o anche contraddicendo le informazioni da esse tramesse”32 come il volume della voce, le false partenze, le

ripetizioni, le esitazioni, le interiezioni (come eh e umm), le sovrapposizioni di turni, etc.

Il parlato normalmente non segue un andamento lineare: è tipico iniziare una conversazione con un argomento per passare poi a sotto-argomentazioni o cambiare completamente l’oggetto del discorso. Nel parlato vi è quindi una dispersione dell’informazione e una deviazione dalla norma grammaticale propria della lingua che non si registra nella forma scritta e il livello di tolleranza di forme devianti rispetto allo standard di riferimento è molto maggiore.

Nelle conversazioni di tutti i giorni utilizziamo solo una minima parte delle risorse lessicali di una lingua. Gli studiosi Biber, Conrad e Leech (2002) definiscono queste risorse lexical boundles (sequenze lessicali), in altre parole quelle espressioni che vengono subito alla mente di un parlante perché usate con una frequenza maggiore. Per esempio, le espressioni vaghe come “non lo so” o “tipo”, i mormorii, l’uso di forme

31 Il linguista italiano Giovanni Nencioni definiva così la varietà linguistica usata nel doppiaggio

italiano.

32 http://www.treccani.it/enciclopedia/fenomeni-paralinguistici_%28Enciclopedia-

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deittiche, i saluti, etc. Si tratta di sequenze che si pronunciano spontaneamente quando non si ha il tempo di elaborare alternative (PEREGO, TAYLOR 2012: 64).

Queste sono le ragioni per cui il parlato spontaneo risulta essere frammentato, vago e spesso anche banale.

Come hanno affermato Gregory e Carroll, i film sono soggetti a vincoli temporali (“una pellicola standard ha una durata media di centoventi minuti” (1978: 43)), quindi i suoi dialoghi non dovranno essere usuali e ripetitivi. Gli attori non parleranno mai nello stesso modo in cui le persone si esprimono durante una conversazione abituale perché così facendo il pubblico non riuscirebbe a recepire tutte le informazioni necessarie alla comprensione dell’opera.

Ciò è dovuto dal fatto che lo scopo del film è quello di catturare l’attenzione degli spettatori, quindi il suo linguaggio dovrà essere interessante e coinvolgente.

Nonostante questo, studi recenti condotti da Biber (1988) e Quaglio (2009) hanno rivelato che il dialogo filmico sta diventando tanto interattivo e complesso quanto una conversazione faccia a faccia (PAVESI, FORMENTELLI, GHIA 2014: 11). Nei prodotti cinematografici vi è quindi oggi una maggiore ricerca di un linguaggio realistico, che risponda alle aspettative del pubblico di un parlato spontaneo e fluente (ivi: 10).

Il tipo di linguaggio che troviamo in un film, in un telefilm o in una serie tv33,

tuttavia, dipende dal genere scelto. Per esempio, in un prodotto fantascientifico gli sceneggiatori non dovranno sforzarsi di produrre una lingua naturale, ma una lingua adatta allo scenario rappresentato; nei film con ambientazione moderna, invece, “è richiesta una certa quantità di realismo linguistico” (PAVESI, FORMENTELLI, GHIA 2014: 10), che “contribuendo all’illusione di realtà, crea e rafforza il coinvolgimento degli spettatori che si lasciano catturare dall’immediatezza e dall’autenticità della rappresentazione nel film” (PAVESI 2005: 30).

Le caratteristiche del linguaggio filmico usate nei prodotti cinematografici vengono genericamente racchiuse in un unico termine, il filmese.

33 “Telefilm” e “serie televisive” sono termini usati molto frequentemente come sinonimi anche se

presentano caratteristiche distinte. Nella prima tipologia ogni puntata è la continuazione narrativa della precedente: viene raccontata un’unica storia che si evolve costantemente. Nelle serie tv ogni episodio rappresenta una storia a sé. Non si ha quindi bisogno di vedere le puntate precedenti per capire cosa sta accadendo sullo schermo (https://it.wikiversity.org/wiki/Serie_televisiva). È il caso dei polizieschi, come CSI, in cui avvengono sempre gli stessi passaggi: i protagonisti devono ricercare le prove utili per collegare i crimini ai loro esecutori.

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Il linguaggio cinematografico, a seconda del genere filmico, presenta alcune caratteristiche ben precise. Tra queste, in particolare:

- una semplificazione e una normalizzazione nelle scelte sintattiche. Gli sceneggiatori prediligono enunciati composti da una sola proposizione o da proposizioni coordinate; di norma, la gamma dei tempi e dei modi verbali è molto più ristretta rispetto alla forma scritta;

- una maggiore uniformità nella struttura dei turni conversazionali e degli enunciati, che sono brevi e di lunghezza simile. Gli attori, al contrario di ciò che accade nel parlato spontaneo, rispettano i loro turni per permettere al pubblico di seguire la trama agevolmente;

- il doppio destinatario, in quanto le parole pronunciate dagli attori non si rivolgono solamente a uno o più interlocutori fittizi, ma anche agli spettatori dell’opera;

- una maggiore coerenza e coesione nelle frasi e un minore uso di ripetizioni, interruzioni o riformulazioni rispetto al linguaggio parlato;

- una prevalenza di un lessico comune al fine di poter essere compreso dallo spettatore medio e quindi caratterizzato da un vocabolario di base, privo di tecnicismi e termini letterari o gergali. Il dialogo cinematografico è “a metà strada tra la bassa densità lessicale del parlato spontaneo e colloquiale e l’alta densità della lingua scritta” (ROSSI 2006: 31).

- la creazione di nuove parole o termini culturali che dalla lingua del film penetrano nel vocabolario di tutti i giorni, spesso per il mezzo della traduzione (si veda la nozione di “doppiaggese”, 3.3 sotto);

- una condensazione narrativa del film. Spesso “lo spettatore è introdotto in una scena già in pieno svolgimento in cui come prima battuta compare la seconda parte di uno scambio” (PAVESI 2005: 34).

In conclusione, l’obiettivo del filmese è quello di creare una conversazione abbastanza naturale, che sia in grado di “sviluppare la trama, fornire informazioni

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riguardanti il background, definire i personaggi e di coinvolgere gli spettatori emotivamente ed esteticamente”34 (PAVESI, FORMENTELLI, GHIA 2014: 13).

3.3. Il doppiaggese

La lingua del doppiaggio in Italia, meglio conosciuta con il nome di doppiaggese (o

dubbese in inglese), è quella “varietà pseudo-colloquiale dell’italiano prodotta da un

doppiaggio inaccurato, caratterizzato da appiattimento delle varietà linguistiche, ridondanza e preferenza per elementi esogeni al posto di equivalenti italiani” (SILEO 2017: 130).

Si tratta di un linguaggio ibrido e artificiale che si distacca dall’italiano spontaneo per modellarsi sulla base della lingua originale.

Questo è dovuto dal fatto che i film si sono sviluppati in anni in cui in Italia non vi era ancora un’unità linguistica nazionale, quindi “la lingua usata nelle traduzioni dei film americani cominciò a diventare il modello di riferimento per l’italiano parlato” (RANZATO 2010: 77).

Come già menzionato, le principali problematiche del doppiaggio sono dovute al rispetto del sincrono labiale quantitativo e qualitativo. Con il primo termine si intende la simultaneità del parlato con l’inizio e la fine dei movimenti articolatori (PAVESI 2005: 13). Questo sincronismo agisce sulla velocità dell’eloquio, in quanto il numero e la lunghezza delle sillabe può variare dal testo originale a quello doppiato. Rappresenta una delle maggiori difficoltà poiché il pubblico si accorge subito “delle discrepanze tra

incipit e fine del parlato e movimenti delle labbra e della mandibola” (ivi: 13-14).

Il sincronismo qualitativo riguarda invece la corrispondenza tra i suoni emessi nel parlato doppiato e i movimenti articolatori visibili. Questa tipologia rappresenta una problematica solamente nei casi dei primi e primissimi piani e può essere trascurata nelle inquadrature in cui il volto del parlante non è sulla scena o non è chiaramente visibile. (ivi: 14)

Per ricreare dialoghi verosimili e naturali in una nuova lingua, gli adattatori dialoghisti possono effettuare una scelta tra le numerose strategie traduttive esistenti:

34 NdT “moving the plot forward, providing background information, defining characters, and

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calco, prestito, routine traduttiva, spostamento, trasposizione culturale, sostituzione, omissione, compensazione e aggiunta.

La strategia più conosciuta è quella del calco, ossia la “trasposizione di elementi lessicali, sintattici o semantici da una lingua all’altra”35. Si adotta quando gli adattatori

sono costretti a creare nuove parole sulla base della lingua di partenza (ossia quella angloamericana) che suonano però innaturali in italiano.

Esistono due tipi di calco, quello strutturale e quello semantico. Il primo riguarda espressioni idiomatiche o polirematiche, la cui struttura viene riportata nella lingua di arrivo, per esempio “dannazione” dall’inglese dammit, i saluti “salve” e “ehi” da hello o

hi, i vocativi “amico” e “bello” da man, etc.

Il calco strutturale si ha invece quando parole già presenti nella lingua d’arrivo si arricchiscono di nuovi significati, come il verbo “realizzare”, non più noto solamente nel senso di “portare a termine qualcosa”, ma anche quello di “capire, rendersi conto”, mutuato dall’inglese realize.

Per rispettare il sincrono, gli adattatori ricorrono spesso ai prestiti, che dal doppiaggese passano poi nel linguaggio filmico. È il caso di anglicismi come detective,

weekend, C.E.O. che vengono preferiti ai loro corrispettivi italiani “investigatore”, “fine

settimana” e “amministratore delegato”.

Le routine traduttive sono automatismi che aiutano l’adattatore nella creazione e stesura dei dialoghi nella lingua doppiata, riducendo le numerose scelte traduttive e facilitando così il lavoro di traduzione. Gli spettatori venendo ripetutamente a contatto con queste frasi o espressioni, iniziano a impiegarle anche nel loro parlato quotidiano. Per esempio la frase “La sai una cosa?” dall’inglese You know something?, ormai molto più comune di “sai che ti dico?”.

Nei casi in cui, per questioni di intraducibilità, non è possibile rendere certe espressioni nella lingua d’arrivo nel momento in cui vengono pronunciate, “si fa in modo di introdurre espressioni analoghe […] in un altro momento del film (come voci fuori campo o modificando un’altra battuta” (ROSSI 2007: 100). Questa strategia viene chiamata spostamento.

La trasposizione culturale si ha quando si sostituisce un concetto culturale tipico della lingua di partenza con uno conosciuto dai parlanti della lingua di arrivo. Nel film francese Racconto di primavera (Conte de printemps, 1990, E. Rohmer) la domanda “Il

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y a un code?” viene sostituita con “Porto del vino?”. La frase del testo di partenza

deriva dal fatto che nella maggior parte dei condomini parigini si entra componendo un codice. Essendo una realtà sconosciuta al pubblico italiano, nell’adattamento si è deciso di eliminare il riferimento per inserire un’espressione che si rifà alla consuetudine italiana di portare del vino quando si fa visita a casa di amici (PAVESI 2005: 26).

Infine, l’esplicitazione viene adottata quando l’adattatore dialoghista decide di aggiungere alcune parole per rendere il termine o l’espressione originale comprensibile allo spettatore italiano. Per esempio nei film americani ci si riferisce alla capitale usando il toponimo District of Columbia, o semplicemente D.C.. In italiano si procede sostituendo il termine con uno più familiare, ossia il nome per intero della città, Washington D.C..

Secondo uno studio condotto nel 2000 da Giuseppe Brincat, i prodotti audiovisivi doppiati in italiano, al contrario delle produzioni originali italiane, mostrano una semplificazione della lingua con una riduzione delle caratteristiche del linguaggio spontaneo. Inoltre, le scelte più marcate del testo di partenza vengono sostituite con soluzioni che fanno parte del repertorio della lingua di arrivo.

Nonostante ciò, nel doppiaggio possiamo anche trovare segni visibili della lingua di partenza, non soltanto dovuti al lessico, ma anche alla costruzione delle frasi. È il caso delle dislocazioni a destra, ossia quando all’inizio di una frase è presente un elemento che normalmente si troverebbe dopo il verbo. Nell’italiano parlato le dislocazioni presenti con una frequenza maggiore sono quelle a sinistra, ma come abbiamo già detto, visto che la lingua del doppiaggio tende a ricalcare le strutture della lingua di partenza, nell’adattamento per il cinema il numero delle dislocazioni a destra è nettamente superiore (PAVESI 2005: 72).

In Italia è però necessario distinguere due tipologie di doppiaggio: quello per il cinema (dove si predilige una strategia straniante attraverso l’uso di trasposizioni culturali, dislocazioni a destra, calchi, etc.) e quello per la televisione (tendenzialmente addomesticante) (RANZATO 2010: 50).

I prodotti per la televisione, come i telefilm e le serie tv, sono un esempio di traduzione target oriented36 o addomesticante in quanto sono considerati una forma di

36 Esistono due tipologie di traduzioni: source oriented in cui il testo tradotto cerca di rimanere il più

vicino possibile alla volontà dell’autore e quindi alla lingua di partenza, e target oriented dove tutti i riferimenti culturali della lingua di partenza vengono sostituiti con riferimenti comprensibili al fruitore della lingua d’arrivo (ECO 2003: 194)

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intrattenimento popolare, quindi sono sostanzialmente concepiti per distrarre e non far riflettere lo spettatore (ivi: 50). È per questo motivo che molti degli elementi culturo- specifici presenti in un copione come gli acronimi, i toponimi, le unità di misura, gli alimenti, i giochi, i titoli di libri e le espressioni idiomatiche vengono eliminati o in rari casi sostituiti con qualcosa di più familiare per lo spettatore, poiché lo lascerebbero perplesso. Ranzato spiega questa strategia con un esempio tratto dalla sitcom Will &

Grace. Nel primo episodio della prima stagione Grace entra in scena in tuta da

ginnastica e, essendo furiosa, si muove a scatti. Jack (uno dei protagonisti) commenta il suo arrivo con la battuta “Oh, look, it’s Sporty Spice”, riferendosi a un membro del famoso gruppo pop inglese delle Spice Girls. Nell’adattamento questa battuta è stata sostituita con “E che ha, il morbo di Parkinson?”, passando quindi da un riferimento sportivo alla malattia di Parkinson perché il dialoghista era convinto che lo spettatore medio italiano non avrebbe capito il riferimento (ivi: 46).

Come afferma Fabio Rossi, il doppiaggese ha enormemente influenzato la lingua del cinema italiano37, ossia il filmese, ed è per questo motivo che le due varietà presentano simili caratteristiche, tra cui:

- l’uso del tempo indicativo ai danni del congiuntivo, come in “Scusa, sai, ma credevo che era il padrone di casa. Mi aspetto che telefona o anche che viene (Riff Raff)”38. Nei casi in cui gli adattatori decidono di usare il congiuntivo,

prediligono il modo presente rispetto a quello passato. In entrambe le scelte si creano frasi che suonerebbero inaccettabili nel parlato quotidiano;

- l’uso del pronome sincretico gli, che neutralizza l’opposizione

maschile/femminile e quella singolare/plurale. Per esempio, la frase “Gli ho detto di venire” può essere utilizzata al posto di “Ho detto loro di venire” oppure di “Le ho detto di venire”;

- un uso sempre più frequente del che polivalente per ricoprire funzioni temporali, causali, di soggetto o di complemento oggetto. Per esempio, la frase “Vieni a tavola, che è pronta al cena”;

- l’uso delle forme alterate come nel caso di giornatina, robaccia, stanchino, etc.

37 http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/doppiaggio/Rossi.html 38 Esempio tratto da PAVESI M. (2005), op. cit., p.41.

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- la tendenza a evitare l’uso dei dialetti, a causa della censura iniziata in epoca fascista. Per molti anni ai regionalismi e alle parole straniere si sono scelti termini appartenenti alla varietà dell’italiano medio;

- la preferenza per le dislocazioni a destra, anche se nella lingua parlata sono più frequenti quelle a sinistra;

- la tendenza a ridurre al minimo gli elementi culturo-specifici per evitare una sorta di “shock culturale”, ossia una scossa nello spettatore dovuta al contatto più o meno improvviso con un’altra cultura (RANZATO 2010: 49). Ne sono un esempio i modi dire e i proverbi, come l’espressione inglese Knock on wood, che viene adattata con quella italiana “Tocca ferro”, invece di procedere con la traduzione letterale e avvicinare il pubblico a una cultura diversa dalla propria.

Sia il filmese che il doppiaggese hanno avuto e continuano ad avere una grande influenza sulla lingua comune: vi sono numerose parole ed espressioni che dai film sono entrate a far parte del vocabolario di tutti i giorni. Si tratta di calchi come via col vento,

essere nato/a ieri, quarto potere oppure neologismi come zombie e replicante.

Possiamo quindi dire che lingua del doppiaggio è condizionata da più varietà: dall’italiano parlato, dall’italiano filmico e dalla lingua di partenza al fine di favorire l’immedesimazione dello spettatore con la scena che si sta svolgendo sullo schermo.

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CAPITOLO 4:

EPISODIO 1

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