3. Il pensiero in pittura: dipingere la sensazione
3.3 Il paradosso di Cézanne secondo Merleau Ponty
Possiamo a questo punto analizzare nello specifico le opere dedicate a Cézanne. Come abbiamo già detto la filosofia di Merleau Ponty, sia in generale, sia per quanto riguarda la riflessione sull’arte e quindi il suo pensiero incarnato in pittura, in modo sicuramente generico e riduttivo, ma utile ai fini esplicativi, potrebbe essere suddivisa in due momenti. Sicuramente, anche se appoggiamo coloro che intravedono una certa continuità nel percorso merleaupontiano, non possiamo non ammettere che la prima fase del suo pensiero è maggiormente debitrice della fenomenologia, in particolar modo l’impronta husserliana è ben evidente, mentre la seconda fase è tesa a mostrare il dispiegarsi della carne all’interno di una forte
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impostazione ontologica. Sebbene rielaborato fin da subito in modo originale, il pensiero husserliano e vari concetti cardine delle sue opere, come dovremmo aver ampiamente mostrato a partire dal primo capitolo, sono il punto di partenza per l’opera Fenomenologia della percezione, che si presenta come il polo più alto della fenomenologia dell’autore. Se l’impronta in questa prima fase è ancora fenomenologica, la fase successiva della sua filosofia è appunto caratterizzata, come abbiamo detto, da una forte ontologia, che l’autore definisce come sempre indiretta. In questo secondo momento del suo pensiero Merleau Ponty si rifà in modo più esplicito all’essere heideggeriano, ma opera anche in questo caso una sua originale trasformazione. Se infatti in Heidegger l’essere è sempre al di là delle cose, l’essere in Merleau Ponty è sempre interno alle cose e alla percezione, è un essere carnale, che emerge in tutte le cose. Riflette questo cambiamento concettuale anche la prospettiva sull’arte, e in particolare su Cézanne, che vediamo espressa nelle opere Il dubbio di Cézanne e L’occhio e lo spirito. Nella prima infatti, del 1945, è evidente un approccio ancora fenomenologico alla pittura dell’artista, che viene vista come l’accesso al mondo preoggettivo e selvaggio che fa da sfondo a tutte le nostre attività. L’analisi della pittura di Cézanne parte da un confronto con la fenomenologia di Husserl, proprio per la comune paradossalità di ciò che ci propongono. Il tentativo di accesso al mondo precategoriale e la sua componente corporea accomuna i loro percorsi: Husserl ha risvegliato il mondo selvaggio al di là del puro spirito teoretico, mentre Cézanne ha provato a dipingere quella stessa realtà allo stato nascente. Il pittore francese viene presentato nel saggio Il dubbio di Cézanne come il prototipo dell’artista, e il primo passo verso la nuova concezione pittorica viene visto nel rifiuto dell’impressionismo e dalla pittura dell’atmosfera:
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«Cézanne vuol rappresentare l’oggetto, ritrovarlo dietro l’atmosfera». Per far questo non usa più i sette colori del prisma, ma ne usa diciotto. Rinuncia alla divisione del tono e la sostituisce con una modulazione colorata. L’oggetto non ci è più restituito con una molteplicità di riflessi, ma è invece come se fosse illuminato dall’interno, diventa un oggetto solido e materiale. Non si assiste più alla pittura impressionistica che prende a modello la natura, perché con Cézanne lo scopo diventa quello di dipingere «un pezzo di natura». Merleau Ponty ci parla del paradosso di Cézanne:
ricerca della realtà senza abbandono della sensazione, senza altra guida che la natura dell’impressione immediata, senza precisare i contorni, senza circoscrivere il colore nel disegno, senza comporre la prospettiva, né il quadro. Ecco appunto quel che Bernard chiama il suicidio di Cézanne: egli ha di mira la realtà e si vieta gli strumenti per raggiungerla.47
Secondo l’amico Bernard, tralasciando l’interesse per il disegno, il pittore si sarebbe abbandonato al caos delle sensazioni e avrebbe sprofondato la pittura nell’ignoranza. Per Merleau Ponty il risultato non è negativo, anzi Cézanne sceglie di non applicare alla sua opera le tradizionali dicotomie, ma di metterle in questione attraverso la sua arte, riflettendo la stessa avversione del filosofo per quei termini dicotomici che ormai ci sembrano tanto scontati. Dipingere il mondo primordiale e le cose allo stato nascente, eliminare la frattura tra i sensi e l’intelligenza, riunire la natura e le scienze: questo è ciò che troviamo nei suoi quadri. Invece di dipingere le dicotomie che tradizionalmente formerebbero la nostra concezione del mondo, Cézanne le elimina e cerca anzi di mostrare la loro inconsistenza. Un altro metodo utilizzato per questo fine è l’abbandono della prospettiva geometrica, a vantaggio della prospettiva vissuta, che è quella della nostra percezione. Le deformazioni
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prospettiche contribuiscono, prese globalmente, a darci l’impressione dell’oggetto che compare sotto ai nostri occhi, della cosa allo stato nascente. E la stessa cosa fa il contorno: se lo intendiamo come una linea che delimita l’oggetto esso appartiene solo alla geometria e non alla reale percezione del mondo, come avviene per la prospettiva geometrica; per questo Cézanne non sceglie né di porre un solo contorno, né di non segnarne nessuno, così da togliere la profondità degli oggetti o la loro identità. Decide di segnare parecchi contorni e far percepire un contorno allo stato nascente, il limite ideale verso cui fuggono i lati della cosa. Non ci si accontenta di suggerire le sensazioni, ma le cose saranno offerte nella loro pienezza insuperabile. Tutte le opposizioni si annullano: non si distingue tra vista e tatto e sembra che i quadri del pittore francese ci restituiscano anche l’odore. Non c’è più contrapposizione tra anima e corpo né tra pensiero e visione; come vedremo meglio in seguito la visione sarà il tema centrale dell’analisi merleaupontiana di stampo ontologico che ritroviamo in L’occhio e lo spirito e si tratterà sempre di una visione situata e mai intesa come modalità di pensiero. A cosa serve la pittura, potremmo chiederci allora? Forse sarebbe una domanda mal posta secondo il filosofo, ma in ogni caso sarebbe fondamentale capire perché si presenta questo interesse verso l’arte e in particolare verso la pittura. Una prima risposta l’abbiamo già data e possiamo esplicitarla ancor meglio: «il pittore riprende e converte appunto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita separata da ogni coscienza: la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose48». Il pittore
rende quindi visibile l’invisibile, termini che ricorrono nel titolo dell’ultima opera incompiuta merleaupontiana. Ci rende visibile lo spettacolo a cui partecipiamo, ma
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di cui non ci accorgiamo. Ciò che ci resta celato, almeno in questa prima fase fenomenologica, è questo mondo estraneo e non familiare che il pittore ci riporta in superficie, un mondo antepredicativo in cui le nozioni che spesso si danno separatamente sono per la prima volta date insieme in modo inscindibile. La cultura è presa nel suo principio, e il pittore dipinge come se fosse il primo uomo e il suo dipinto la prima parola. Un passo viene visto da Carbone come indizio che il secondo momento ontologico è però già presente in nuce in quest’opera: «il senso di quanto l’artista sta per dire non c’è in nessun luogo49», scrive Merleau Ponty
suggerendoci che ciò che fa l’artista in un certo senso non viene da lui, dalla sua vita, ma lo trascende e lo ingloba. Per quanto un vincolo e un legame tra la vita dell’artista e la sua opera ci sia, e infatti si legge che «quell’opera da fare esigeva quella vita» e che se nella sua vita non si possono rintracciare delle cause della sua opera, si possono però trovare dei motivi che portano a quel risultato, è anche vero che il nesso non è mai stabilito una volta per tutte, non è mai rigido e c’è un continuo interscambio: «è dunque vero sia che la vita di un autore non ci insegna nulla sia che, se sapessimo leggerla, vi troveremmo tutto, in quanto essa è aperta sull’opera50». In Il dubbio di Cézanne, del 1945, è quindi già impercettibilmente
presente lo sviluppo futuro del pensiero merleaupontiano, ma la soggettività del pittore non è ancora abbandonata del tutto a favore di un ampio terreno ontologico che avvolge il tutto, come avviene invece nelle opere successive. La soggettività viene comunque intesa in senso nuovo, è concepita come fissure e come spaccatura e lacuna all’interno del mondo; possiamo quindi riconfermare che per quanto la soggettività, da intendere in senso nuovo e come sempre situata e data attraverso il
49 Ibidem, p. 38 50 Ibidem, p. 44
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corpo, in questa fase sia centrale, emergono anche elementi che preludono all’approdo ontologico dell’ultimo Merleau Ponty. La pittura rappresenterà in quel caso la manifestazione aconcettuale del Logos selvaggio e l’accesso privilegiato per raggiungere l’Essere grezzo. Il tema centrale dell’ontologia merleaupontiana, l’essere grezzo e carnale, si renderà in questo modo, grazie alla pittura, visibile e potremo quindi comprendere il nostro mutato rapporto con le cose. L’opera più significativa di questa fase ontologica, per quanto riguarda il nostro tema, è il già citato L’occhio e lo spirito, del 1960, in cui ancora una volta la pittura è posta al centro della riflessione filosofica. Il nesso tra pittura e corporeità, evidenziato nel precedente saggio su Cézanne, non è abbandonato; in questo caso però il punto di partenza cambia ed è rappresentato da Cartesio e dalla sua Dioptrique, in cui l’enigma della visione che Merleau Ponty cercherà di mettere in luce, scompare a favore di un modello idealizzato. L’ubiquità della visione e la sua azione a distanza mostrano l’errore di Cartesio nel considerare come modello della visione il tatto. Secondo la sua idea la visione decifra semplicemente i segni dati nel corpo e per quanto riguarda in particolare le immagini artistiche, che perdono la loro potenza creatrice, è preso in considerazione solo il disegno, come unico mezzo per portare sulla tela la rappresentazione dell’estensione delle cose, dimenticando invece i colori e le qualità secondarie. Lo spazio di Cartesio è quindi presentato come uno spazio idealizzato, a cui Merleau Ponty si contrappone fortemente, uno spazio omogeneo e senza ambiguità e spessore reale, che il pensiero sorvola senza punti di vista. La visione non può essere solo pensiero, come accennato prima, poiché non esiste visione senza un corpo. Il corpo è il luogo dell’anima e non un oggetto tra altri, è il suo spazio natio e la matrice di tutti gli spazi e anche la stessa visione
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è duplice, ispezione dello spirito e visione situata, legata a un corpo, a cui l’anima è sempre legata. La filosofia si deve immergere in questo composto di anima e corpo che Cartesio non ha saputo riconoscere. La concezione merleaupontiana dello spazio a questo punto dovrebbe essere chiara:
Lo spazio non è più quello di cui parla la Dioptrique, un reticolo di relazioni tra gli oggetti, come lo vedrebbe un testimone della mia visione, o un geometra che la ricostruisse sorvolandola, ma è uno spazio considerato a partire da me come punto o grado zero della spazialità. E non lo vedo secondo il suo involucro esteriore, lo vivo dall’interno, vi sono inglobato. Dopotutto il mondo è intorno a me, non di fronte a me.51
La profondità, di cui abbiamo già parlato precedentemente, non deve essere intesa come una terza dimensione, ma è la manifestazione della globalità in cui le cose co- esistono. Cézanne ricerca questo tipo di profondità e non è interessato alla perfetta rassomiglianza alle cose, né a presentare il mondo come se fosse posto di fronte a noi: la sua visione non era su un di fuori, ma perforava le cose dall’interno e mostrava come le cose si fanno cose e ci dava il mondo al suo stato nascente: «La visione del pittore è una nascita prolungata52». La pittura manifesta l’enigma della visione e l’enigma del corpo, ci dona la visibilità segreta che accompagna sempre la visibilità manifesta. Il vedente non si appropria di ciò che lo circonda, ma semplicemente apre sul mondo e con il suo movimento dona proseguimento alla sua visione. Il corpo, ci dice in quest’opera Merleau Ponty, come già aveva fatto in Fenomenologia della percezione, è insieme vedente e visibile. E’ questo il suo enigma: è allo stesso tempo cosa tra le cose, ma contemporaneamente non è mai come tutte le altre cose, poiché è anche vedente e tiene le cose intorno a sé. La visione, come già chiarito, è quindi sempre situata, si fa nel mezzo delle cose, e si accompagna a questo enigma del corpo, che fa tutt’uno con l’enigma della visione.
51 M. Merleau Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano, 1989, p. 42 52 Ibidem, p. 26
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La pittura rappresenta proprio questo: i quadri sono «l’interno dell’esterno e l’esterno dell’interno, che la duplicità del sentire rende possibili e senza i quali non si comprenderanno mai la quasi-presenza e la visibilità imminente che costituiscono tutto il problema dell’immaginario53». Tutti gli aspetti dell’Essere devono quindi
farsi visibili nella pittura, che «dona esistenza visibile a ciò che la visione profana rende invisibile54». Questa visibilità nascosta e seconda la dimentichiamo quotidianamente, a favore di tutto ciò che ci viene dato in modo esplicito e chiaro. Secondo Merleau Ponty l’ambiguità e le zone oscure e confuse non possono invece mai essere abbandonate se vogliamo avere una giusta idea di come ci è dato il mondo. Il punto di partenza del nostro autore è sempre questa zona indeterminata e primordiale, non oggettivata, che difficilmente può esserci restituita, ma che dobbiamo provare a raggiungere. Il filosofo è «un eterno principiante»55, così come lo è il pittore. E l’ambiguità è una caratteristica peculiare ad entrambi i tipi di espressione, filosofica o artistica, poiché per far parlare l’esperienza del mondo, precisa Merleau Ponty nel saggio Il romanzo e la metafisica, non possiamo pensare di arrivare a una trasparenza assoluta e questo nella letteratura, nelle arti, così come nella filosofia, che sembrano essere sempre meno disgiunte. Dobbiamo quindi risalire verso quella dimensione estetica iniziale, che può essere definita estetica anche in senso etimologico, poiché esprime quell’esperienza sensibile e originaria, ma che è estetica anche nel senso che nell’arte si ha la sua più grande celebrazione. Per Carbone questa dimensione estetica iniziale nelle opere di Merleau Ponty è da intendere sia come archè, sia come télos dell’etre-au-monde. Lo stupore sarà
53 Ibidem, p. 21 54 Ibidem, p. 23
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l’inizio e la fine del tentativo di esprimere l’essere primordiale, ma sarà uno stupore mai colmato, poiché il risultato della filosofia, e forse anche dell’arte, non sarà mai compiuto. L’incompiutezza della filosofia è intrinseca alla filosofia stessa e l’alleanza tra filosofia e arte sta anche in questo: hanno un compito infinito nell’esprimere quel senso latente che ci sfugge costantemente. La domanda del filosofo è una domanda che non cerca una vera e propria risposta e questo il filosofo lo impara innanzitutto proprio dall’artista: la visione degli artisti sembra precedere la filosofia, forse perché nell’arte i processi percettivi trovano la loro dimensione più appropriata.