UNIVERSITA’ DI PISA
Dipartimento di Civiltà e Forme del sapere
Corso di laurea in Filosofia e forme del sapere
MERLEAU PONTY E DELEUZE
IL PENSIERO IN PITTURA
Il Candidato Il Relatore
Elena Fillini Prof. Alfonso M. Iacono
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L’arte è la menzogna che ci permette di conoscere la verità
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INDICE
Introduzione ... 3
1. La fenomenologia di Merleau Ponty e la lettura di Husserl ... 11
1.1 L’epochè fenomenologica e l’intenzionalità ... 11
1.2 Dalla coscienza trascendentale al corpo proprio ... 20
1.3 Intersoggettività o solipsismo? ... 27
1.4 Il mondo della vita: Husserl e Merleau Ponty ... 30
2. Deleuze a partire da Bergson ... 35
2.1 Filosofia e arte ... 35
2.2 La filosofia della differenza in Bergson ... 39
2.3 Dai dualismi al monismo: il piano di immanenza ... 51
2. 4 Il mondo rizomatico di Deleuze ... 55
3. Il pensiero in pittura: dipingere la sensazione ... 62
3.1 Il milieu filosofico francese ... 62
3.2 Dalla fenomenologia all’ontologia: a proposito della pittura ... 66
3.3 Il paradosso di Cézanne secondo Merleau Ponty ... 77
3.4 Bacon e Cézanne si incontrano ... 85
Conclusione ... 102
Bibliografia ... 113
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Introduzione
In questo lavoro ho voluto presentare i percorsi di due dei filosofi più importanti del secolo scorso: Merleau Ponty e Deleuze. Il primo viene ricordato soprattutto per la sua opera fenomenologica, in cui l’influenza di Husserl è ancora forte, Fenomenologia della percezione, che segue La struttura del comportamento, ma si distingue poi per le tesi forse più originali di opere come L’occhio e lo spirito e Il visibile e l’invisibile, che sebbene molto più brevi sono dense di spunti e utili soprattutto ai nostri fini. Il secondo viene invece spesso citato anche per le sue opere sul cinema, ma il tema a cui siamo interessati sarà rintracciabile soprattutto nell’opera sulla pittura di Bacon, nonché nel testo scritto insieme allo psicanalista Felix Guattari Mille piani. Capitalismo e schizofrenia 2; importanti saranno anche opere precedenti come Differenza e ripetizione e Il bergsonismo o testi successivi come La piega. Leibniz e il barocco e Che cos’è la filosofia?, che per noi sarà illuminante per quanto riguarda il particolare rapporto che sussiste secondo Deleuze tra la filosofia e il suo “fuori”, nel nostro caso un fuori rintracciabile nella pittura. Il compito che ci prefiggiamo sarà infatti questo: occuparci della pittura pensata dalla filosofia, in particolare in questi due filosofi, e dimostrare come siano ben tracciabili linee di intersecazione tra la filosofia di Merleau Ponty e Deleuze, e soprattutto mostrare come, anche se da punti di partenza diversi, lo scopo che si prefiggono sia molto simile. Mi sembra fin troppo speculare la via scelta dai due: vogliono presentarci la loro versione del mondo e scelgono entrambi l’arte come via di accesso privilegiata per raggiungere quella porzione di mondo che noi ci
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dimentichiamo troppo spesso e che certi artisti (non solo i pittori, infatti sono spesso trattate nelle loro opere altre arti, prima fra tutte la letteratura) ci rendono attraverso i loro quadri. Spesso, come forse trasparirà dai capitoli del nostro lavoro, vedremo che sia Merleau Ponty che Deleuze rischieranno di sovrapporre la loro filosofia alla pittura di Cézanne o di Bacon, il primo ritrovando in Cézanne ciò che aveva iniziato Husserl, ma che secondo il nostro filosofo non era riuscito a portare a compimento, e il secondo sovrapponendo ai quadri di Bacon quell’antifenomenologia tipica della sua trattazione che sembra emergere dai corpi deformati e quasi non umani del pittore. Possiamo dire fin da subito, visto che potrà sembrare strano l’accostamento tra Cézanne e Bacon per la grande diversità dei loro quadri così come dei loro temi e della loro collocazione artistica, che non vogliamo qui dimostrare nessuna vicinanza in sé oggettiva e documentabile tra i due pittori. Non faremo critica d’arte, ma vogliamo invece mostrare che le affinità che legano il punto di vista di Merleau Ponty e quello di Deleuze si ripercuotono in una profonda vicinanza tra le concezioni dell’uno sui quadri di Cézanne e il modo di vedere dell’altro i quadri di Bacon. Merleau Ponty e Deleuze ci offrono quindi questa grande possibilità e da ciò è scaturito l’interesse per questo tema: credo che ci offrano la possibilità di universalizzare il messaggio dell’arte, di rendere vicino ciò che è lontano, di mostrarci che una stessa cosa può essere detta con mezzi diversi. Lo stile pittorico di Cézanne e lo stile pittorico di Bacon non sono accidentali, e proprio su questo si sofferma la trattazione filosofica sulla pittura, ma allo stesso tempo quello che può dirci un paesaggio di Cézanne può dircelo un ritratto di Bacon: entrambi ci donano quel mondo pre-umano e non ancora oggettivato che interessa sia a Merleau Ponty
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che a Deleuze. La pittura ci restituisce un modo di vedere le cose che la filosofia cerca di restituire con le parole.
I due mondi filosofici proposti dai due autori francesi non sono poi così diversi, come cercherò di illustrare con la mia trattazione: in Merleau Ponty tutto il mondo è carne, è strato, è campo percettivo, è relazione d’alterità, uno spazio in cui non c’è posto per la sola intellettualizzazione, ma che ospita interrogativi originari, personali, non assolutizzati.
Tra fenomenologia e ontologia, Merleau-Ponty vuole riportare in superficie la profondità dimenticata dell’essere originario, e mostra che l’uomo, a partire dal suo possesso del corpo, ha come caratteristica essenziale quella di essere spaziale; ci conduce quindi in un lungo percorso che si dipana tra le pieghe dell’essere, dove è possibile ritrovare un’originarietà primordiale, primitiva, selvaggia, che trascende ogni concetto di identità e differenza.
Lo spazio merleaupontiano, è pienezza di senso abitabile; è forte l’eco heideggeriano dell’In-der-Welt-sein, chiamato da MerleauPonty être-au-monde, un essere che “si sente a casa” nel mondo, che attraversa tutti i campi dell’esperienza, tutti i livelli dell’essere. Potremmo parlare di spazi autoctoni per soggetti nomadi ed è fin da queste prime tracce che possiamo scorgere una grande affinità con ciò che Deleuze definirà spazio striato e spazio liscio. Di tutto questo parleremo approfonditamente nel secondo capitolo, ma voglio anticipare già adesso che cercheremo di mostrare come siano equiparabili la concezione chiasmatica merleaupontiana e la concezione rizomatica deleuziana. Cercheremo appunto di mostrare questa analogia e lo faremo servendoci delle eloquenti trattazioni filosofiche sulla pittura. Queste trattazioni, più delle classiche opere filosofiche che
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siamo abituati a leggere, sono illuminanti per riuscire a capire il pensiero che sottende alla concezione filosofica e in più ci offrono anche la possibilità di guardare con occhi diversi le opere d’arte.
I due filosofi si incontrano nel mondo in cui intendono il lavoro filosofico: entrambi sono alla ricerca di una filosofia dinamica e attiva che non si riduca a una descrizione fenomenologica delle essenze né tanto meno a un’interpretazione ermeneutica di una verità trascendente.
Come mostreremo anche in seguito, Deleuze rifiuterà fortemente l’impostazione merleaupontiana e vedrà nella nozione di carne una nozione che non sarà in grado di far proprio il flusso costante del divenire, della contingenza, del molteplice. Possiamo notare fin da ora che la critica di Deleuze e Guattari si attesta spesso su un piano fenomenologico e non rende giustizia all’impianto ontologico costruito da Merleau Ponty, basato sull’iper-dialettica di visibile e invisibile e mostreremo appunto come la critica di Deleuze a Merleau Ponty sia in parte ingiustificata. Indipendentemente dai risvolti che i diversi pensieri hanno poi avuto, bisogna notare come per entrambi il punto di partenza sia proprio un piano originario dell’esperienza, al di là di ogni dualismo, di ogni assolutismo, di ogni concettualizzazione discriminante. Da entrambe le parti è presente un’archeologia della dimensione umana e del suo rapporto col mondo che svela i diversi livelli architettonici dell’esperienza e la stratificazioni di senso.
Come vedremo dettagliatamente nel secondo capitolo per Deleuze nel mondo si intrecciano significati, strutture di senso, disposizioni assiologiche, “macchine da guerra” e “apparati di stato”. Sono queste modalità di donazione del senso che organizzano lo spazio secondo una coppia non oppositiva di diverse spazialità,
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spazio liscio e spazio striato. Questi due spazi non sono elevati a modello, a struttura, a coppia concettuale ideale, ma sono presentati nella loro operatività contingente, reale, vissuta. La loro attività è attività creatrice nel mondo: spazio liscio e spazio striato orientano il mondo a seconda delle significazioni di cui si fanno portatori: lo spazio liscio offre all’uomo la possibilità del disorientamento, della libertà nomade, del girovagare tra le significazioni, mentre il secondo è espressione dell’intervento dell’istituzione, è uno spazio pre-orientato, costruito su tragitti predeterminati. Voglio far luce su un semplice esempio che può essere esplicativo per ciò che vorrò dimostrare in questo lavoro: Merleau-Ponty, per descrivere l’intreccio tra carne del mondo e carne del soggetto, fa riferimento alla “stoffa”, dicendo che corpo e mondo, pur restando elementi distinti, fanno parte della stessa stoffa: abbiamo l’omogeneità nell’eterogeneità. Anche Deleuze utilizza la stoffa non come semplice metafora, ma come modello operativo e specchio dell’esperienza. In Mille piani viene proposta una differenza tra tessuto e feltro: queste due tipologie di stoffa rappresentano due spazialità differenti, due concezioni dello spazio vissuto differenti. Il tessuto è uno spazio striato, organizzato dalla trama e dall’ordito, spazio su cui opera la necessaria logica dell’andata-ritorno; nel tessuto si possono osservare un dritto e un rovescio, mentre il feltro, spazio liscio, viene prodotto tramite una pratica di tessitura differente, non subordinata ad alcuna logica di andata-ritorno, ma aperta alla possibilità del groviglio, che quindi ricorda da vicino quella stoffa comune di cui ci aveva parlato Merleau Ponty.
Questa analogia ritorna anche nel modello estetico: in Merleau-Ponty, l’esperienza estetica si gioca sulla capacità di vedere e sulla sua duplicità; nello spazio liscio la visione è ravvicinata, instaura una distanza che è dis-allontanamento, e crea le
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condizioni d’esistenza di uno spazio «prensivo» e questo spazio, di contatto, sarà fondamentale in entrambi gli autori. È dunque possibile esperire uno spazio che si espande e cresce rizomaticamente e indistintamente in tutte le direzioni, del tutto privo di striature predeterminate. Nello spazio striato il rapporto tra vedente e visibile non si colloca in una dimensione prensiva, ma ottica, mentre nello spazio liscio, così come nella pittura di cui ci parla Merleau Ponty in L’occhio e lo spirito, non sono poste distanze, ma ci perdiamo in questo duplice groviglio di visione e tatto. Sono la stabilità dell’orientamento, la correttezza della prospettiva, la visione sedentaria che striano lo spazio e lo rendono misurabile, oggettivo, inerte, dimensionale, privo di invisibilità, di stratificazioni e questo tipo di visibilità è quella della pittura tradizionale, basata sulla prospettiva geometrica, che sarà ampiamente criticata e superata dalle concezioni moderne, a partire appunto da Cézanne e su questo si soffermerà molto Merleau Ponty.
Abbiamo quindi impostato il nostro lavoro in questo modo: nel primo capitolo abbiamo presentato il pensiero di Merleau-Ponty a partire dall’eredità fenomenologica husserliana, fondamentale per capire la concezione della realtà che sottende a Fenomenologia della percezione e imprescindibile per comprendere anche ciò che dice Merleau Ponty su Cézanne, soprattutto nell’opera Il dubbio di Cézanne. Abbiamo poi tratteggiato il percorso di Deleuze nel secondo capitolo, a partire invece dalla filosofia di Bergson, che è la solida base su cui fonda la sua filosofia della molteplicità e del virtuale, per poi seguire Deleuze nel suo personale sviluppo di questa concezione filosofica. Nel terzo capitolo abbiamo invece pensato che fosse giusto far luce sullo snodo da noi ritenuto centrale della filosofia di Merleau Ponty, l’approdo ontologico e quindi mostrare i riscontri di questo
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orizzonte ontologico anche sulla riflessione artistica e infine arrivare al centro della nostra tesi: incastrare le tessere del puzzle e dimostrare le intersezioni dei due filosofi, rendere esplicite analogie e differenze, ma soprattutto rendere più vicini due filosofi che sembravano così distanti.
Lo spazio deleuziano ricalca l’impostazione merleaupontiana di comunione tra visibile e invisibile. Sia in Merleau-Ponty che in Deleuze, viene riscritta la funzionalità della visione: essa non si limita a guardare il mondo, poiché c’è molto di più da vedere di quello che guardiamo, ma permette invece al soggetto di fare presa sul mondo, di costruire uno spazio intensivo in cui fare proprie le stratificazioni del mondo. La prospettiva sul mondo non è più quella di un sorvolo dall’alto, quella cartesiana; questa nuova visione individua gli spazi topologici e ricchi di intersezioni. Le intersezioni e i chiasmi sono al centro delle loro filosofie. Siamo in presenza di una concezione non oggettivante ma che al tempo stesso non scade nemmeno nel soggettivismo: oggetto e soggetto dialogano tra loro, fino a scomparire, sono co-partecipi della dimensione eventuale. La relazione tra il soggetto e il mondo che abita è una relazione di azione reciproca, biunivoca, bilaterale: spazio e soggetto, inscindibilmente connessi, agiscono l’uno sull’altro e creano uno stile, una prospettiva sul mondo e su se stessi. Guardando il mondo infatti si coglie non semplicemente un’immagine ma il proprio senso e allo stesso modo Cezanne davanti alla montagna non vede soltanto la montagna, ma vede la montagna e se stesso guardante la montagna. Chiasma e rizoma sono i termini attorno a cui ruotano le filosofie di Merleau Ponty e Deleuze ed è questo che attraverso i loro pensieri, ritroviamo nella pittura di Cézanne e Bacon. Questi due concetti, apparentemente distanti tra loro, ci offrono il movimento del mondo.
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Vedremo nel dettaglio queste nozioni e ci limitiamo adesso solo ad accennare alla tesi che vogliamo proporre. La nozione merleaupontiana di chiasma, che indica come il nostro rapporto all’essere è quello della simultaneità del prendere e dell’ essere presi, permette di elaborare una nuova idea della filosofia, che non si configura più come presa totale, possesso intellettuale e di sorvolo, come raffigurazione delle identità, perché invece ciò che è da cogliere è uno spossessamento, un’ambiguità, un chiasma appunto; questa nuova filosofia non è al di sopra della vita, non la sovrasta, non la sorvola, ma ne è al di sotto, sotto la superficie, nelle sue profondità pre-umane. Dall’altra parte il rizoma, l’idea deleuziana della dinamica opposizione tra modello arborescente e modello rizomatico, tra sedentario e nomade, tra sistemi gerarchici e sistemi acentrici, apre alla possibilità concreta del divenire.
Questa dinamicità, che la filosofia deve sempre tenere presente, è allora ciò che rende inconoscibile il mondo in ogni suo punto: Deleuze ci ricorda che uno spazio liscio non è sufficiente per salvarci; attraversati dal divenire, bisogna continuare a ripensare la domanda filosofica, rimanere immersi nelle pieghe del mondo e del pensiero e allo stesso modo Merleau Ponty afferma che la domanda filosofica non ha compimento e non lo avrà mai. Ma non sempre questo è un difetto, il non compiuto apre sempre nuove possibilità.
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1. La fenomenologia di Merleau Ponty e la lettura di
Husserl
1.1 L’epoché fenomenologica e l’intenzionalità
Merleau Ponty scrive Fenomenologia della percezione a partire da ciò che aveva detto Husserl e dalla lezione fenomenologica. Non possiamo quindi prescindere dalla filosofia di quest’ultimo se vogliamo capire cosa intenda con fenomenologia anche Merleau Ponty. Quest’ultimo ci propone ovviamente una ripresa originale di Husserl e non una semplice trascrizione dei suoi concetti, e soprattutto nelle opere successive, potremo vedere la distanza che intercorrerà tra i due. Nell’opera merleaupontiana Segni un saggio dal titolo Il filosofo e la sua ombra è emblematico in questo senso: l’autore cerca di dimostrare che esiste un non detto di Husserl, e anzi più specificatamente un non pensato, di cui lui stesso sembrava non essere consapevole, e che invece Merleau Ponty vuole utilizzare proprio per arrivare a ciò che gli interessa. Il passaggio fondamentale è intravisto a partire da Idee II, a cui Merleau Ponty aveva avuto accesso, come si legge in Fenomenologia della percezione, insieme ad altri inediti, tra cui i volumi II e III de La crisi delle scienze europee, grazie all’autorizzazione dell’Institut Supérieur de Philosophie di Lovanio. Husserl in Idee II secondo Merleau Ponty rifiuta l’idea di un soggetto che si pone di fronte a qualcosa di esterno, ma cerca invece il “fondamentale”. La riflessione husserliana ruota intorno all’Urdoxa e allo statuto pre-teoretico in cui le idealizzazioni vengono superate. La fenomenologia è presentata fin da subito come quella filosofia che si contrappone allo stesso tempo al materialismo e alla filosofia
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dello spirito. In questo senso è sottolineato nel saggio un tema per noi molto importante: il corpo. Questo è ciò che si dà come soggetto-oggetto, cosa senziente ed è quindi ciò che fa sì che questa distinzione si faccia confusa. L’altro lo conosco così, con il suo corpo, e percepisco in lui fin da subito un’altra sensibilità. Questo tema sarà ampiamente ripreso da Merleau Ponty, che sottolinea qual è il punto centrale del discorso husserliano secondo lui: «non c’è costituzione di uno spirito per uno spirito, ma di un uomo per un uomo». Non dobbiamo quindi più pensare al soggetto come puro ideale, ma immergerlo fin da subito nelle sue co-percezioni ed è attraverso il corpo posso avere la premonizione dell’altro. Dobbiamo quindi essere aperti ad accettare una lettura di Husserl diversa da quella tradizionale, che si allontana dal soggetto trascendentale e che attraverso la lettura degli inediti di Husserl, a cui Merleau Ponty aveva accesso, vuole concentrarsi sul corpo proprio, sul mondo della vita e sull’intersoggettività. Vedremo come tutti questi termini sono maglie di una stessa catena.
Husserl nel 1891 pubblica la sua prima opera, Filosofia dell'aritmetica, poi nel 1900 e 1901 i due volumi di Ricerche logiche. Nominato nel 1901 professore straordinario all'università di Gottinga, diviene poi professore a Friburgo. Scrive quindi alcune delle sue opere più significative, tra le quali sarà fondamentale Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913), che viene definita abitualmente la svolta trascendentale del filosofo, perché si concentra sull’io puro e sulla coscienza trascendentale, che sembra avere una forte priorità rispetto al mondo. All’incirca dal 1920 fa però un passo indietro e vede che le trattazioni filosofiche compiute fino a quel momento peccano di eccessiva staticità e che necessitano di una fenomenologia che sia invece genetica, che ci mostri come
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si formano le essenze e la costituzione storica dell’io. Da questo momento quindi si parlerà di fenomenologia genetica. Nel 1922 tiene una conferenza a Londra sulla fenomenologia e nel 1929 altre conferenze alla Sorbona di Parigi, poi ripetute a Strasburgo, il cui testo è trascritto in francese, sotto la guida di A. Koyré, da G. Pfeiffer ed E. Lévinas, comparendo nel 1931 con il titolo Meditazioni cartesiane. Con l'avvento del nazismo viene radiato dall'università di Friburgo in quanto ebreo, proprio nel periodo in cui Heidegger, il suo allievo, ne era rettore. In alcune conferenze, tenute a Vienna e a Praga nel 1935, Husserl rilancia il programma fenomenologico come via di salvezza dai pericoli di disumanizzazione e irrazionalismo che devastavano la cultura europea: si tratta dell’abbozzo della sua ultima opera, incompiuta, che sarà pubblicata postuma col titolo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1954). Nel 1938 muore a Friburgo e i suoi molteplici manoscritti, grazie a H. L. van Breda, vengono salvati dalla distruzione e trasferiti all'università di Lovanio, dove costituiscono il fondo degli Archivi Husserl. A partire dal 1950 ha preso avvio, sotto il titolo di Husserliana, la pubblicazione di questi inediti: tra cui il secondo e terzo libro delle Idee (1952), Filosofia prima (1956) e Sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo (1966).
Per Husserl l'ideale della vera filosofia consiste nel realizzare l'idea della conoscenza assoluta, basandosi su un fondamento certo, e la fenomenologia è il metodo che permette di raggiungere questo obiettivo. Questo programma viene delineato nei testi successivi alle Ricerche logiche: nella Filosofia come scienza rigorosa e soprattutto nelle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica. Per costituirsi come scienza rigorosa, la filosofia non deve
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assumere nulla come ovvio e indiscutibile, ma deve raggiungere criticamente un fondamento dotato di evidenza assoluta. Non possiamo rifarci all' atteggiamento naturale, che assume il mondo come un insieme di fatti ovvi. La scienza, secondo Husserl, analizza il mondo in maniera ingenua, accettandolo acriticamente come esistente. Bisogna invece liberarsi da ogni presupposto, sia dalle credenze comuni, sia da quelle proprie delle scienze, così come dai contenuti dottrinali di tutte le filosofie precedenti. In questo senso Husserl utilizza il termine, così tanto conosciuto, epoché, che significa sospensione del giudizio.
Partiamo dal sintetizzare cosa significhi questa sospensione, per mostrare poi che è proprio questo il punto di partenza di Fenomenologia della percezione di Merleau Ponty. Indaghiamo allora la messa tra parentesi dell’atteggiamento naturale e la sospensione del giudizio che caratterizza il metodo fenomenologico. Se infatti l’atteggiamento naturale consiste nel trovare il mondo come qualcosa di esistente e assumerlo come tale, il solipsismo, derivato dal dubbio che alle immagini mentali corrisponda davvero qualcosa all’esterno, mette in questione questo atteggiamento e riduce però il mondo a finzione soggettiva. Ma anche questo passaggio va superato per riuscire a trovare qualcosa di davvero evidente: il percepire e ogni atto di coscienza saranno indubitabili, il fenomeno sarà quindi ciò che resta di indubitabile, anche nel momento in cui mettiamo tra parentesi la trascendenza, l’esistenza in sé delle cose. Credo sia importante sottolineare che non arriviamo al concreto, ma invece all’intuitivo, come l’unica possibilità di trovare qualcosa di evidente. Nell’Idea della fenomenologia. Cinque lezioni possiamo seguire il suo metodo che ci porta a definire il trascendente come ciò di cui non è lecito fare uso, a definire la riduzione fenomenologica come l’esclusione di ogni
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posizione trascendente di realtà e dunque come riduzione all’immanenza, distinta successivamente in immanenza materiale, come la cosa che appare nella coscienza, il contenuto positivo dell’oggetto nell’ immanenza, e in immanenza come datità diretta, cioè come l’apparire, l’essere fenomeno dell’apparizione. La fenomenologia sarà lo studio delle datità dirette, dei fenomeni puri, mentre le immanenze materiali possono solo dare luogo a indagini psicologiche. E’ presentata un’intrinseca correlazione tra le cose e il loro presentarsi nell’apparenza che sarà sviluppata attraverso la nozione centrale dell’intenzionalità, che significa dirigersi verso. La coscienza è sempre “coscienza di” e il dato e il pensato differiscono: la cosa si dà per me infatti, come un mio vissuto, non è semplicemente un oggetto in sé, con un’esistenza astratta, ma si dà attraverso una correlazione con un soggetto. Husserl scrive che la fenomenologia ha il compito di chiarificare l’essenza della conoscenza; non si tratta di un fenomeno intellettualistico ma di un afferrare diretto e intuitivo in cui attraverso il “puro guardare” il fenomeno si mettono in luce le essenze dei fenomeni, cioè le “determinazioni di senso e distinzioni di senso”. Allora la fenomenologia sarà caratterizzata da un metodo descrittivo che porterà all’evidenza della cosa stessa. L’epoché ridefinisce quindi il rapporto tra immanenza e trascendenza, fino alla scoperta della possibilità di recuperare la trascendenza attraverso l’immanenza e quindi attraverso le operazioni coscienziali. Già in questo testo si può notare come la riduzione, essendo una neutralizzazione di ogni trascendente, possa essere considerata un’apertura all’evidenza apodittica della coscienza; e anche in opere successive come le Meditazioni cartesiane e Logica formale e trascendentale secondo molti viene messo in luce questo passaggio. Nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia
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fenomenologica il cogito è accompagnato da un’evidenza della percezione immanente; l’io è così inteso come un decorso di vissuti intenzionali immanenti e indubitabili che corrisponde a quella che Husserl definisce la “regione della coscienza pura”. Cercherò però di mostrare che l’interpretazione dello stesso Husserl delle Meditazioni e del secondo volume di Idee potrà essere data seguendo un’interpretazione diversa, che non riduca la sua filosofia a mero solipsismo e privilegio del soggetto trascendentale. Prima però cerchiamo di capire meglio in cosa consista l’epoché: è definita da Husserl, come leggiamo per esempio in Filosofia prima, lo studio della soggettività trascendentale e l’atteggiamento fenomenologico in cui mi interesso non alla validità degli oggetti, ma solo al vissuto egologico, assorbendo così anche la componente psicologica.
La fenomenologia è un “puro guardare” che va contro la tendenza naturale e possiamo quindi pensarla come un atteggiamento “innaturale”: posso e devo dubitare che una cosa esista, ma non posso dubitare del fatto che la sto vedendo. Il programma di Husserl di fondazione della conoscenza non può però fermarsi alla riduzione eidetica: le essenze infatti sono i correlati intenzionali degli atti della coscienza, i quali possono, a loro volta, essere fatti oggetti di riflessione.
La riflessione è una proprietà fondamentale del vissuto: grazie ad essa ogni erlebnis (vissuto) può essere colto e in questo modo diventa oggetto di quella che Husserl definisce percezione immanente, evidente in modo assoluto. Si può infatti sospendere il giudizio sull'esistenza del mondo, ma è evidente che esso appare alla coscienza: non posso sospendere il giudizio sul fatto che io sto pensando. Ogni vissuto intenzionale è costituito da un aspetto soggettivo, chiamato noesi, l’atto intenzionale, e da un aspetto oggettivo, chiamato noema, l’oggetto intenzionato. I
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modi in cui possiamo riferirci al noema sono atti diversi, intendendo con atti non necessariamente qualcosa di attivo, ma qualcosa che può essere anche inconscio, passivo1. Il noema è il significato ideale, sottratto al tempo, è un modo di darsi
dell’oggetto, che infatti mi si manifesta sempre tramite dei profili. Il rapporto tra la presenza e l’assenza è fondamentale e mi offre l’identità dell’oggetto, poiché c’è sempre qualcosa che non mi viene dato insieme a ciò che è offerto alla percezione. Anche le esperienze interne, a differenza di quanto diceva Brentano, da cui Husserl riprende la nozione di intenzionalità, non sono sempre certe, e se restiamo invischiati nello psicologico non usciremo dalla coscienza atteggiata naturalmente. C’è un’intenzione vuota e un riempimento: gli oggetti non ci parlano se non abbiamo un modo di dirigersi a questi. Le intenzionalità non vanno quindi distinte a seconda dell’oggetto, ma degli atti. L’intenzione mira quindi al riempimento e alla sintesi delle co-intenzionalità fungenti, a sbrogliare la matassa dei rimandi, delle potenzialità e di ciò che rimane inattuale.
I principi fenomenologici husserliani, come abbiamo già accennato, sono il punto di partenza della fenomenologia di Merleau Ponty, che senza le analisi husserliane e le basi filosofiche poste da Husserl sicuramente non avrebbe scritto l’opera che si è imposta come il suo capolavoro: Fenomenologia della percezione, che esce nel 1945. Dobbiamo precisare però che, al di là delle ovvie tematiche in comune e degli uguali punti di riferimento, possiamo trovare già qui innegabili indizi di allontanamento tra i due filosofi; questo distacco dal suo maestro è Merleau Ponty stesso a sottolinearlo fin dalle prime pagine del testo. Attua una vera e propria
1 Di questo Husserl se ne occupa in particolare nelle Lezioni sulla sintesi passiva, in cui mostra le
intenzionalità fungenti, come più originarie degli atti espliciti e posizionali. Il concetto di coscienza dovrà quindi essere allargato fino a includere ciò che non è cosciente, l’inconscio.
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revisione del progetto husserliano: la riduzione è infatti presentata in una forma diversa, poiché non può essere quel ritorno a un soggetto assoluto e puro di fronte al quale il mondo si dispiega in tutta la sua trasparenza; si mette da parte questo secondo momento della riduzione che conduce appunto a una coscienza trascendentale come fondamento del mondo e ci si concentra esclusivamente su una riduzione che sospenda il nostro rapporto naturale con il mondo, che lo metta tra parentesi e che ritorni, come aveva detto Eugen Fink, a uno stupore di fronte al mondo. Non si nega che un punto essenziale è la descrizione delle strutture essenziali della coscienza, così da non ricadere in una descrizione fattuale e psicologica che Husserl aveva già ampiamente criticato. Già nella prima pagina della premessa al testo però Merleau Ponty scrive:
La fenomenologia è lo studio delle essenze, e per essa tutti i problemi consistono nel definire le essenze, per esempio l’essenza della percezione e quella della coscienza. Ma la fenomenologia è anche una filosofia che ricolloca le essenze nell’esistenza e pensa che non si possa comprendere l’uomo e il mondo se non sulla base della loro fatticità. E’ una filosofia trascendentale che pone tra parentesi, per comprenderle, le affermazioni dell’atteggiamento naturale, ma è anche una filosofia per la quale il mondo è sempre «già là» prima della riflessione, come una presenza inalienabile, una filosofia tutta tesa a ritrovare quel contatto ingenuo col mondo, per dargli infine uno statuto filosofico2.
L’autore sottolinea nelle pagine seguenti che le essenze saranno solo un mezzo e non lo scopo, che bisogna comprendere il nostro impegno effettivo nel mondo e ricondurlo a concetto, e che «la nostra esistenza è troppo strettamente presa nel mondo per conoscersi come tale nel momento in cui vi si getta, essa ha bisogno del campo dell’idealità per conoscere e conquistare la sua fatticità3». Il punto di
partenza è quindi il metodo fenomenologico, ma non per cogliere l’apoditticità
2 M. Merleau Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano, 1980, p. 15 3 Ibidem. p. 24
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dell’io, ma prima di tutto per descrivere e ritornare alle cose stesse. Capiremo meglio in seguito, ma è bene accennarlo fin da ora, che questo tema del contatto ingenuo con il mondo, del ritorno a un terreno primordiale a cui dobbiamo ricongiungerci è fortemente debitrice del lebenswelt husserliano. Continuando il nostro percorso vediamo come Merleau Ponty si concentri fin dall’inizio sull’intrecciarsi di due dimensioni: né soggettivo né oggettivo devono essere privilegiati, ma anzi dobbiamo trovare quello che sarà denominato come il loro chiasma. Dovremo accettare una realtà che trascende la coscienza e l’impossibilità per la coscienza di essere il fondamento e l’accesso a una verità universale. Proprio rompendo la nostra familiarità con il mondo si può cogliere il paradosso del mondo e il suo scaturire immotivato. Non sarà mai possibile quindi una completa riduzione e questo è il più grande insegnamento che si può ricavare dalla riduzione stessa. Una ripresa fondamentale del pensiero husserliano sta anche nella nozione di intenzionalità, che speriamo di aver adeguatamente spiegato, e nella distinzione tra intenzionalità d’atto, quella dei nostri giudizi e intenzionalità fungente, quella dell’unità naturale e ante-predicativa, da cui la fenomenologia non può prescindere, poiché la fenomenologia che viene posta a fondamento di questo tipo di analisi è appunto una fenomenologia della genesi, che cerca di afferrare l’intenzionalità totale. L’intenzionalità, per cui la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, non corrisponde però al rapporto kantiano tra percezione interna e percezione esterna, poiché l’intenzionalità mi dà quell’unità del mondo come già fatta e già là, prima ancora di una conoscenza espressa e determinata.
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1.2 Dalla coscienza trascendentale al corpo proprio
Nelle Ricerche logiche Husserl non ammette un io, ma si interessa solo alla coscienza come intenzionalità e descrive la coscienza come un flusso dei vissuti. E’ a partire dal primo volume di Idee che invece ci parla di un polo egologico e proprio per questo, come abbiamo già detto, questo testo rappresenterebbe una svolta in senso trascendentale. Il polo egologico non è da intendere però solo come qualcosa che non cambia, che rimane identico a se stesso. L’io infatti si costituisce e nelle Meditazioni cartesiane questo viene messo in luce: le abitualità e le sedimentazioni formeranno l’io, che sarà definito anche monade. L’io puro, che troviamo nelle Idee, non è equivalente all’io penso kantiano, che è identico a se stesso e che fonda l’unità dei vissuti. Dobbiamo invece arrivare a un io che deve darsi intuitivamente e che non sia solo attività di pensiero ma anche un io inteso come soggetto di esperienza. Arriviamo in questo modo alla trascendenza nell’immanenza, ma credo che questo si possa capire meglio non a partire dall’io puro, ma dall’io inteso in senso generale. E’ riprendendo questo intreccio di trascendenza e immanenza che Merleau Ponty potrà offrirci quella lettura originale del padre della fenomenologia, interessandosi maggiormente al radicarsi del soggetto nel mondo e non all’io astratto che possiamo ricavare dall’analisi trascendentale. Perché allora Husserl aveva introdotto un io? Sembrerebbe proprio a partire dall’analisi della coscienza, che se deve essere coscienza di qualcosa deve anche essere coscienza di qualcuno e non può essere un flusso che non appartiene a nessuno. L’io puro è il polo della coscienza, è il suo centro, è un’astrazione, e spesso sembra coincidere con l’io trascendentale. Non è ben chiaro se si possa o meno distinguere dall’io inteso come monade, di
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cui ci parla nella quarta meditazione, ma credo che una differenza sia da tenere presente. Possiamo infatti forse distinguere vari livelli di astrazione in Husserl: l’io puro, l’io come sostrato di abitualità e l’io come monade, che corrisponde al livello meno astratto. C’è un intreccio dell’io con i vissuti, da cui non può essere separato, ma da cui dovremmo anche distinguerlo. Troviamo quindi una pluralità di strati dell’io, un io manifesto e esplicito e un io latente, dato da quello che è sommerso e sopito. Cosa succede con le Meditazioni riguardo all’io? Il punto di partenza di questo testo, come suggerisce il titolo, è l’ego cogito cartesiano, che però rischia di rimanere una mente priva di contenuto, a cui manca la relazione con il mondo. In Husserl non viene trovato un principio con l’io, ma un terreno di esperienza. Giungeremo quindi a un io personale, radicato nel corpo vivo. L’io non può essere preso in considerazione senza tenere presente anche il tempo (fenomenologia genetica). La concretezza che mancava all’io puro si ottiene invece nella monade, che credo sia importante definire come punto centrale per lo sviluppo della fenomenologia in Merleau Ponty. La monade è la rappresentazione dell’«espansione dell’immanenza» ed è proprio a una filosofia dell’immanenza che giunge l’autore di Fenomenologia della percezione. L’io puro passa da essere vuoto a pieno, se strutturato secondo la sua genesi e appunto seguendo questo nuovo senso dell’io può essere concepita la filosofia di Merleau Ponty. In realtà quest’ultimo non riconoscerà a Husserl questa specifica concezione: nel saggio a cui abbiamo accennato Il filosofo e la sua ombra Husserl ci è presentato come colui che riesce a superare quel soggettivismo e idealismo di fondo della sua filosofia solo inconsciamente. La monade in realtà rappresenta invece una possibilità di superamento del cogito cartesiano e
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soprattutto del dualismo che sottende al cogito: sarà contemporaneamente interno ed esterno. La monade è quel fondo oscuro su cui l’io puro getta la propria luce, racchiude in sé il mondo ed è quindi un primo passo per leggere in modo alternativo la filosofia di Husserl, se non ci fermiamo al soggetto assoluto di Idee I, spostandoci invece al ripensamento che già Husserl ci propone nel secondo volume di Idee e nelle Meditazioni. Leggiamo:
Perché il concreto io monadico comprende l’intero vivere potenziale e attuale della coscienza diviene chiaro che il problema della esplicazione fenomenologica di questo ego monadico (il problema della costituzione per se stesso) deve comprendere in sé tutti i problemi costitutivi in generale4.
E’ a questo punto che possiamo capire come si arriva al corpo proprio. Questo tema è fondamentale per il superamento di qualsiasi dualismo che caratterizzava la tradizione filosofica precedente e che la fenomenologia vuole superare per arrivare a una comprensione delle condizioni di possibilità dell’esperienza e alla descrizione delle essenze della nostra vita che non sia più inficiata da presupposti errati.
Husserl ci parla degli uomini come “unità duali”, e sembra così ricadere nel fraintendimento della filosofia che ci proponeva semplici dicotomie, ma vedremo invece che questa dualità all’interno dell’uomo sarà di un tipo particolare, avremo un’unione inscindibile tra i due strati e mai un’opposizione e un contrasto. Gli esseri animali comportano infatti una soggettività, sono quindi, scrive Husserl, “oggettità peculiari”. La tematica del corpo e il suo rapporto con la psiche, la duplicità insita in ogni uomo, sono tra i momenti più importanti della fenomenologia e della novità che introduce: essa non si decide mai per uno dei due termini dell’opposizione, ma mostra la possibilità di superare l’opposizione, oltrepassare soprattutto il contrasto
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fondante di tutta la filosofia e cioè quello di soggetto e oggetto, come due termini posti l’uno di fronte all’altro, separati, arrivando invece a mostrare una loro intima correlazione. Merleau Ponty, quando tratta del corpo proprio, fa pienamente riferimento a ciò che prima di lui aveva detto Husserl. Ci presenta la fenomenologia come ciò che si contrappone sia al realismo, poiché del mondo in sé indipendentemente da un soggetto non ha senso parlare, ma anche all’idealismo, perché non si può ridurre la realtà ad atti soggettivi; si oppone appunto ad ogni posizione dicotomica. L’empirismo deforma l’esperienza culturale riducendola a un’illusione, pensa alla percezione come a una pura operazione di conoscenza e mera registrazione di stimoli e qualità, sfigurando così anche il mondo naturale. In questa visione il soggetto percipiente corrisponde a uno scienziato di fronte al mondo. Gli oggetti che non fanno parte del nostro campo visivo non sono ritenuti presenti e vengono posti solo attraverso immagini; abbandonando invece questa priorità dei meri contenuti secondo Merleau Ponty, che riprende Husserl, possiamo riconoscere un nuovo modo di esistenza dell’oggetto dietro le nostre spalle e dare nuovo significato anche agli orizzonti latenti, che fanno parte della percezione.
L’empirismo rimane quindi nella credenza assoluta del mondo come totalità degli eventi spazio-temporali e tratta la coscienza come parte del mondo; l’analisi riflessiva al contrario rompe con il mondo in sé e costituisce il mondo a partire dalla coscienza, ma in modo che resti un rapporto di familiarità con l’essere assolutamente determinato. Rimane quindi in entrambi l’idea di un mondo completamente esplicito, che sarà completamente da rifiutare per l’autore di Fenomenologia della percezione, quel pregiudizio dogmatico per cui ho la sicurezza di cogliere un reale al di là delle apparenze, il vero al di là dell’illusione.
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Per quanto si condanni l’empirismo è bene ricordare però che non si può prescindere dalla fatticità e che non è possibile una coscienza costituente universale proprio perché altrimenti scomparirebbe l’opacità dell’esperienza. La riflessione deve quindi partecipare della fatticità dell’irriflesso e in questo senso la fenomenologia ci parla di un “campo trascendentale”, il che significa che la riflessione non ha mai sotto il suo sguardo il mondo intero e la pluralità delle monadi dispiegate, ma ha a che fare sempre con una veduta parziale.
L’analisi riflessiva, esemplificata per Merleau Ponty da Cartesio e Kant, non prende le mosse dal tessuto dei fenomeni e crede che niente sia inaccessibile per l’uomo, risale dall’esperienza del mondo al soggetto come condizione di possibilità, ci mostra una semplice ricostruzione al posto di una fondata descrizione, non comprende il soggetto come incarnazione in un mondo e in una situazione storica, un soggetto votato al mondo.
Nell’opera husserliana Filosofia prima, che viene pubblicata solo nel 1956, la duplicità del corpo vivo è spiegata in modo molto chiaro: l’esteriorità, così come l’interiorità, non meno del loro unificarsi, sono esperiti in se stessi e del tutto originariamente, vale a dire sono percepiti unitariamente. Vediamo quindi come Husserl ci presenti sempre un intreccio e un avvolgimento (termine che verrà usato spesso da Merleau Ponty) tra interno ed esterno, tra corpo e psiche, tra oggetto e soggetto, che in questo modo sembrano non esistere più in senso proprio, appaiono indistinguibili. Se infatti si può parlare di un certo cartesianismo di Husserl, cioè una ripresa di Cartesio, che inizialmente è elogiato da Husserl e che viene usato come punto di partenza per il suo metodo, è sicuramente anche vero che Cartesio diventa il maggiore bersaglio critico della fenomenologia husserliana: il soggetto
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non basta, dobbiamo interrogare le cose stesse, descrivere senza preconcetti e capire infine che la vera soggettività è l’intersoggettività, di cui parleremo in seguito. In ogni caso possiamo dire che nelle Meditazioni cartesiane leggiamo che il mio corpo è l’unico a non essere mero corpo fisico, Korper, ma è invece corpo organico, Leib. Potremmo quindi dire che mentre io sono anzitutto un Leib che acquisisce una determinazione anche oggettiva, l’altro è innanzi tutto un Korper che attraverso la mia esperienza diventa un Leib. Questo però non mi sembra completamente giusto poiché in realtà tutti i corpi vivi per Husserl sono Korper e Leib insieme e non aggiungiamo successivamente un qualcosa di animato al corpo che esperiamo. Il Leib esprime il mutamento da semplice passività dell’essere percepiti alla capacità attiva del percepire propria di ogni soggetto animato. E’ una caratteristica insita appunto in ogni corpo vivo che incontriamo, anche se di questo ce ne accorgiamo soltanto attraverso una riflessione che arrivi a mostrarci le strutture che sottendono all’esperienza empatica dell’altro. Quando abbiamo a che fare con un soggetto estraneo il suo corpo vivo comporta un’interiorità di atti psichici di cui appunto non posso avere un’esperienza diretta, quel corpo vivo visto comporta una vita psichica quanto il mio. Quando io vedo oltretutto un corpo là che mi guarda, non so se mi guarda come io lo guardo, poiché è solo attraverso il tatto che si ha una vera e propria reciprocità ed è il campo tattile l’ambito in cui si manifesta pienamente il corpo vivo. La vista per Husserl non ha infatti la stessa reversibilità che ha invece il tatto: questa è una grande differenza dalla concezione merleaupontiana che vede nella visione la stessa reversibilità del tatto e che, riprendendo l’esperienza della mano toccata che diviene toccante di Husserl, arriva poi a concepire il chiasma di visibile e invisibile e di visto e vedente come quello che avvolge tutta la nostra vita.
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Il corpo comunque è il latore delle sensazioni localizzate, cioè ho sensazioni in esso, oltre che su di esso e le sensazioni localizzate sono appunto le sensazioni di contatto, motivo per cui il tattile è sicuramente privilegiato da Husserl.
In quest’ultimo il mio corpo è il punto zero, da cui non posso mai allontanarmi e proprio per questo ho sempre una visione limitata del mio corpo, uno scorcio prospettico che mi rende impossibile vedere certe parti del mio corpo, di cui sono dati solo frammenti di inerenze. Questa prospettiva si ripropone allo stesso modo in Merleau Ponty: il corpo è un oggetto che non abbandona mai il soggetto e che si presenta sempre sotto lo stesso punto di vista. Costituisce quindi quella permanenza assoluta che fa da sfondo alla permanenza relativa degli oggetti che sono suscettibili di presenza e assenza. E’ quindi quel campo di presenza primordiale senza la quale non si può comprendere il mondo degli oggetti e che non coglie sensazioni giustapposte. La psicologia classica5 definiva il corpo come un aggregato di organi
e parti, mentre per parlare del corpo si deve far riferimento a uno schema corporeo che mostri un’integrazione tra parti a seconda dei progetti6. Dobbiamo intendere in questo senso il corpo, come corpo fenomenico e non come un corpo oggettivo o un fatto psichico. Lo schema corporeo è l’essere al mondo del corpo, uno schema dinamico, cioè un atteggiamento in vista di un certo compito e la sua spazialità è una spazialità che si può definire di situazione. Il sistema nervoso è un tutto unico e il corpo è un organismo che si rapporta all’ambiente non attraverso una causalità
5 Un riferimento importante da tenere presente per le analisi merleaupontiane è sicuramente la
psicologia della Gestalt, a cui l’autore fa spesso cenno, che concepisce il corpo non più come un aggregato di organi e parti, ma sempre come un tutto globale, e dal tutto dobbiamo secondo la Gestalt partire per le nostre analisi.
6 Merleau Ponty scrive in Senso e non senso, nel saggio Il cinema e la nuova psicologia che «la
nuova psicologia ci fa vedere nell’uomo non un essere che costruisce il mondo ma un essere gettato nel mondo […] essa ci ri-insegna a vedere questo mondo con il quale siamo a contatto con tutta la superficie del nostro essere mentre la psicologia classica trascurava il mondo vissuto per quello che l’intelligenza scientifica riusciva a costruire».
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lineare ma solo circolare. Dobbiamo superare il dualismo anima e corpo e vedere il fisico, il vitale e l’umano come tre gradi che partecipano alla natura della forma, semplicemente tre ordini di significati. E’ attraverso il mio corpo che io inerisco alla cosa e quindi originariamente non si ha un “io penso”, ma un “io posso” e con il corpo proprio si radica lo spazio nell’esistenza e si ha il veicolo dell’essere al mondo. L’orientamento è l’atto globale del soggetto, il mezzo con cui si riconosce l’oggetto, l’essere è l’essere situato. Colgo l’oggetto con una sua unità e un’identità grazie all’esperienza corporea e grazie al fatto che sono un soggetto incarnato, altrimenti non ci sarebbe nessun dentro o fuori, nessun alto o basso, e nessuna direzione.
Sicuramente c’è un forte legame tra la percezione del mio corpo e quella dell’altro, e potremmo dire, come Pugliese in Unicità e relazione, che la somiglianza è biunivoca in Husserl, tale cioè da connettere i due soggetti senza porne uno in una situazione privilegiata, una somiglianza vivente tra soggetti vivi. E’ sempre e solo a partire da una relazione corporea comunque che possiamo instaurare un rapporto con gli altri. Approfondiamo meglio questo tema nel prossimo paragrafo.
1.3 Intersoggettività o solipsismo?
Possiamo pensare a un Husserl nuovo: se seguiamo Vanzago in Coscienza e alterità possiamo cercare di comprendere come non sia più possibile mantenere nei suoi confronti l’atteggiamento avuto in passato, pensando alla sua filosofia come incentrata sul soggetto, ma si debba invece comprendere come in Husserl ci sia
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molto di più e come probabilmente avesse ragione Merleau Ponty a parlare di un’ombra del filosofo ancora inesplorata e forse non conosciuta nemmeno dal fenomenologo stesso. Merleau Ponty ci dice infatti che l’immagine che abbiamo di Husserl è molto parziale. La prospettiva egologica della filosofia husserliana, che nelle quattro meditazioni viene ancora una volta presentata, può non essere posta in contraddizione e opposizione alla quinta, che ci parla dell’intersoggettività. In questo senso quest’opera, nella sua interezza, può anche non essere vista come antitetica alla successiva La crisi delle scienze europee, ma anzi complementare. Il lebenswelt è infatti spesso messo in contrasto con la prospettiva egologica, e invece vogliamo provare a dare un punto di vista alternativo. Sicuramente è proprio il concetto di lebenswelt che ha influenzato profondamente Merleau Ponty per quanto riguarda il tema della percezione e del mondo antepredicativo.
Trattando per prima cosa della esperienza dell’altro, dobbiamo soffermarci sul fatto che l’intersoggettività implica intanto una relativizzazione e una non assolutizzazione dell’io trascendentale. Vincenzo Costa, nel saggio L’esperienza dell’altro7, sottolinea che l’io costituente così si de-centra, poiché trova altre datità che sono centri di orientazione a loro volta. Si oltrepassano i limiti dell’esperienza propria con questa ultra-esperienza, si scopre un’autoestraniazione e con questa anche la possibilità che io non sia sempre me stesso, che io non sia sempre a mia disposizione. Quest’esperienza ci trasporta quindi verso un’apertura al possibile e all’incompiuto, che ci accompagna costantemente. Un tema fondamentale nella fenomenologia in generale è proprio la relazionalità e la relazione particolare che
7 V. Costa, L’esperienza dell’altro, in A. Ferrarin (a cura di), Passive Synthesis and Life-world. Sintesi passiva e mondo della vita, ETS, Pisa 2006. L’intero testo fa luce sui punti della filosofia di
Husserl che per il presente lavoro sono fondamentali: l’intersoggettività, la passività e l’inconscio, e ciò che sta a fondamento della nostra vita.
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instauriamo tra soggetti, che diversamente dalle cose, ci interpellano, e questo è un segno importante di quella coincidenza tra passivo e attivo che la fenomenologia vuole dimostrare. Perché Husserl ha bisogno dell’intersoggettività? Leggiamo un passo di Idee II che dovrebbe chiarirci questo punto:
il soggetto solipsistico potrebbe sì avere di fronte a sé una natura obiettiva, ma non potrebbe concepire se stesso come membro della natura, né avere un’appercezione di se stesso come di un soggetto psicofisico, come animale, come avviene invece per il grado intersoggettivo dell’esperienza8.
Non solo l’io puro diventa un soggetto posto in una natura obiettiva, ma questa stessa natura obiettiva è possibile solo a partire dall’intersoggettività. L’obiettivazione richiede l’entropatia, l’esperienza dell’altro, e un pensiero che sia in grado di unificare le esperienze intersoggettive, poiché attraverso un’intesa reciproca le esperienze possono essere intese come esperienze di una stessa cosa.
Vediamo più nel dettaglio come avviene questo tipo di esperienza secondo Husserl: nell’esperienza intersoggettiva abbiamo un’interazione di indizi ed espressione corporea che mi annuncia l’altro soggetto (appercezione appresentativa che non ammette mai il soddisfacimento per presentazione), che non mi si dà mai esaustivamente e che mi svelerà sempre in parte il suo mondo privato, ma costituirà con me un mondo comune. Possiamo distinguere in questa esperienza due momenti: l’espressione da parte del soggetto percepito e l’interpretazione da parte del soggetto che percepisce. L’espressione è la condizione di possibilità dell’appercezione e mostra come la corporeità non possa essere ridotta a mero meccanicismo e che non sia un semplice rapporto materiale a legare il fisico e lo psichico, ma che ci sia un’intrinseca unità. E’ attraverso il concetto di espressione
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che comprendiamo quel rovesciamento del passivo in attivo e il loro continuo intreccio: qualcosa che sembrerebbe materiale si anima. Interno ed esterno, spirito e corpo si appartengono l’uno all’altro e si danno in un rapporto reversibile e unitario. E questa trama di termini inseparabili sarà proprio il centro della filosofia merleaupontiana. Questa unità di espressione ed espresso è infatti la manifestazione forse più originale della fenomenologia, che crediamo che sia già forte in Husserl, e che viene poi radicalizzata da Merleau Ponty. Già l’appercezione dell’altro, con il suo darsi sempre insieme a un aspetto co-presentato, è il luogo in cui l’invisibile inerisce al visibile, si dà come il suo rovescio e in cui si mostra la capacità di vedere anche ciò che non può essere visto, di arrivare al di là del semplice dato, di comprendere unità duali e stratificazioni, come una nostra caratteristica peculiare, di noi soggetti che interagiamo con altri soggetti, che hanno questa caratteristica come noi. La dialettica, che non conosce sintesi ma solo rapporto chiasmatico, tra visibile e invisibile, costituisce la base dello sviluppo della filosofia merleaupontiana.
1.4 Il mondo della vita: Husserl e Merleau Ponty
Ma seguiamo ancora Merleau Ponty e vediamo come ci descrive invece il nostro percepire, per arrivare poi a vedere il termine originario in Husserl da cui deriva la sua filosofia della percezione e il mondo pre-oggettivo: se la coscienza ci restituisse il mondo nella sua completezza tra i due non ci sarebbe nessuna distanza e arriveremmo al cuore stesso dell’oggetto, mentre invece abbiamo un oggetto inesauribile. Il soggetto percipiente non è una coscienza assoluta, ha uno spessore
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storico, si trova in una certa situazione e si confronta con un certo presente. Scrive Merleau Ponty:
Che cosa abbiamo dunque all’inizio? Non una data molteplicità con un’appercezione sintetica che la percorre e la attraversa da capo a fondo, ma un certo campo percettivo sullo sfondo del mondo. Nulla qui è tematizzato. Né l’oggetto, né il soggetto sono posti. Nel campo originario non si ha un mosaico di qualità, ma una configurazione totale che distribuisce i valori funzionali in base all’esigenza dell’insieme [...] ogni atto percettivo si rivela come prelevato da un’adesione globale al mondo. […] Da ogni punto del campo primordiale partono delle intenzioni vuote e determinate; effettuando queste intenzioni, l’analisi perverrà all’oggetto di scienza, alla sensazione come fenomeno privato e al soggetto puro che li pone entrambi. Questi tre termini non sono se non all’orizzonte dell’esperienza primordiale9.
L’ambiguità fonda la definizione della coscienza e dell’esistenza. Non dobbiamo dimenticarci di questa ambiguità se vogliamo cogliere l’esperienza antepredicativa che precede le idealizzazioni scientifiche e quotidiane.
Questa esperienza primordiale di Merleau Ponty deriva tutta la sua forza da Husserl. Il mondo della vita di Husserl (lebenswelt) è quel mondo intuibile e sottostante il mondo oggettivo e obiettivo delle scienze moderne. Il primo viene definito da Husserl come soggettivo e si contrappone all’altro, oggettivo, il mondo ritenuto vero. In realtà la scienza obiettiva è invece un’operazione di persone del mondo della vita e quindi per comprendere il mondo obiettivo dobbiamo prima comprendere l’altro. Questo mondo della vita sarà presentato come intersoggettivo e se proviamo a confrontare le tesi sostenute nella Crisi e quelle della Quinta Meditazione vediamo che il mondo della vita si dà nell’intersoggettività e che quindi, per quanto lontani, questi testi possono condurci lungo un percorso comune; il terreno primordiale, nel suo essere preliminare al compimento della riduzione trascendentale, va tenuto presente in un processo inverso a quello cartesiano. La
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prima cosa è il mondo della vita semplicemente dato e solo partendo da qui possiamo arrivare alla riduzione trascendentale che ci porti non al singolo ego costituente, ma agli ego dati trascendentalmente insieme. In questo senso il mondo della vita è intersoggettivo, ma crediamo di poter dire che se i punti di vista tra i due testi husserliani sono diversi, è forse possibile vederli anche come affini. Nel testo si parla di crisi delle scienze europee, ci dice Husserl, perché le scienze, pur nei continui successi, sono invischiate in una crisi di senso profondo. Con la positivizzazione delle scienze la filosofia perde la sua funzione di comprendere l’umano. Le radici di questa crisi si possono ritrovare nella falsa disputa tra oggettivismo e soggettivismo, ma anche dalla matematizzazione e geometrizzazione della natura che porta a sempre maggiori idealizzazioni. Lo scienziato non prende in considerazione il proprio rapportarsi al mondo, mentre dovrebbe sempre tenere presente che è anch’egli immerso nel tessuto del mondo (come sottolinea sempre poi nei suoi testi Merleau Ponty). Con la scienza obiettiva va di pari passo il dualismo di cui abbiamo spesso parlato, primi tra tutti quello di mente-corpo e di soggetto-oggetto. E’ la filosofia che attraverso la comprensione del mondo della vita, che è il fondamento anonimo presupposto in ogni idealizzazione della scienza, può portarci fuori dalla crisi. Sembra che la filosofia faccia da punto di inizio così come punto di arrivo di tutto il processo. Indagando il mondo della vita vediamo che è caratterizzato da una duplice struttura: «cosa e mondo da un lato, coscienza della cosa dall’altro10». Il mondo della vita è sempre
già dato per noi, non è prodotto da noi né dato occasionalmente. E’ l’orizzonte di qualsiasi prassi reale o possibile. Abbiamo fin da subito questa coscienza della
10 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore,
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datità del mondo per noi e dobbiamo quindi attuare realmente la certezza d’essere del mondo e non attuare invece un atto di sustruzione.
In Merleau Ponty questa tematica del mondo antepredicativo viene messa al centro: accanto al Cogito di Cartesio va posto un Cogito tacito, che esprime la vita che sfugge a ogni determinazione, è l’autoesperirsi e l’autopresenza del soggetto, la soggettività indeclinabile, quella soggettività che non costituisce niente intorno a sé, ma semplicemente sente qualcosa come un campo già presente, è l’esistenza stessa. Il Cogito tacito è quindi l’Io primordiale che non conosce né il pensiero oggettivo, né la coscienza tetica di sé e del mondo. Dobbiamo comprendere la soggettività come inerenza al mondo, sempre data insieme a un punto di vista, ma mai fissata in nessuna prospettiva. L’”io penso” per Merleau Ponty avrà senso solo se inteso come “io inerisco a me”. Il soggetto sarà quindi una possibilità di situazioni e la sua identità sarà ricavata esclusivamente attraverso l’essere al mondo del corpo. Saranno quindi dati come inseparabili il soggetto, la corporeità ed il mondo che abita. Proprio dal mio rapporto con le cose nasce il tempo, un tempo che non è da identificare con una successione reale, ma una temporalità in un continuo farsi e che non è mai completamente costituita. Merleau Ponty riprende qui la distinzione di Husserl tra ritenzioni, con cui il passato si tiene in pugno pur rimanendo al di sotto dei presenti, e protensioni, con cui si fa presa sull’avvenire.
Attraverso l’analisi del tempo, che costituisce un punto centrale della filosofia merleaupontiana, l’oggetto e il soggetto non saranno più due termini separati e dicotomici, si riveleranno come due momenti di un’unica struttura, la presenza. Il per sé, come luogo in cui si forma il tempo, e l’in sé, come l’orizzonte del mio
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presente, si dissolvono quando il presente, il passato e il futuro sono inscindibilmente legati.
Ci viene allora proposto un nuovo genere di analisi: una vera esperienza del mondo e l’uomo come l’uomo nel mondo, ricondotto a una natura antepredicativa e primordiale, una vita irriflessa, che viene prima di ogni scienza e di ogni riflessione tetica. Dobbiamo quindi esplicitare il nostro sapere primordiale del reale e non dobbiamo chiederci se percepiamo un mondo, ma partire dal presupposto che il mondo è ciò che percepiamo e che la percezione sarà ciò che fonda per sempre la nostra idea di verità. La percezione non equivale a una scienza o a un atto determinato, è lo sfondo su cui si staccano tutti gli atti, è il punto di partenza.
Se riprendiamo il saggio a cui abbiamo già fatto cenno, Il filosofo e la sua ombra, possiamo forse capire pienamente ciò che abbiamo cercato di mostrare:
Progetto di possesso intellettuale del mondo, la costituzione diviene sempre più, via via che il pensiero di Husserl matura, il mezzo per svelare un rovescio delle cose che non è stato costituito da noi. Era necessario questo insensato tentativo di sottomettere ogni cosa allo statuto della coscienza, al limpido gioco dei suoi atteggiamenti, delle sue intenzioni, delle sue imposizioni di senso – bisognava spingere all’estremo il ritratto di un mondo saggio che la filosofia classica ci ha lasciato, per rivelare tutto il resto: quegli esseri, al di sotto delle nostre idealizzazioni e oggettivazioni, che le alimentano segretamente, e in cui si stenta a riconoscere dei noemi […] Queste analisi del tardo Husserl non sono né scandalose né sconcertanti, se si tiene presente tutto ciò che le annuncia fin dal principio. Esse esplicitano “la tesi del mondo” prima di ogni tesi e di ogni teoria, al di qua delle oggettivazioni della conoscenza, di cui Husserl ha sempre parlato, e che soltanto è divenuta per lui il nostro unico mezzo per uscire dal vicolo cieco in cui esse hanno condotto il sapere occidentale. Lo volesse o meno, contro i suoi disegni e secondo la sua audacia essenziale, Husserl risveglia un mondo selvaggio e uno spirito selvaggio11.
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2. Deleuze a partire da Bergson
2.1 Filosofia e arte
Ora che abbiamo presentato a partire da Husserl, sebbene ancora nei suoi primi sviluppi, ciò che ci propone Merleau Ponty credo sia il caso di iniziare a vedere, e lo faremo in questo capitolo, l’originale concezione filosofica propostaci da Deleuze. Prima dobbiamo però chiarire fin da subito qual è il nostro scopo, per non perdere di vista ciò che ci prefiggiamo di dimostrare.
Merleau Ponty e Deleuze, come diremo più volte ed è importante tenere presente questo presupposto, affrontano percorsi filosofici molto diversi e sicuramente le differenze non sono poche. Merleau Ponty porta avanti l’idea della fenomenologia, della riduzione e della sospensione del giudizio ed è sicuramente ancora molto legato alla filosofia husserliana, anche se è evidente un forte allontanamento appunto dalla fenomenologia tradizionale soprattutto nelle sue ultime opere; Deleuze è invece lontano dall’impostazione fenomenologica e critica anzi Merleau Ponty proprio a partire da questa distanza. La fenomenologia è ancora troppo ancorata alla soggettività e Merleau Ponty si sofferma sul corpo proprio, il corpo che quindi apparterrebbe a un soggetto determinato, invece di sondare il mondo decostruendo le dicotomie classiche.
Cercheremo invece di dimostrare quanto l’originalità di Merleau Ponty stia esattamente nel rifiuto delle opposizioni classiche e che la concezione che ci dispiega nelle sue opere è attraversata da continui svelamenti e pieghe, da stratificazioni, da continue intersezioni, che rendono impensabile il centro attorno
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a cui era ruotata tutta la filosofia precedente: il soggetto e l’oggetto sono presi nel chiasma. Proveremo quindi a seguire i due filosofi nei loro punti d’incontro più che nelle divergenze, che sicuramente ci sono.
L’idea che sta alla base delle loro filosofie è quindi avvicinabile e due testi, E’ possibile oggi la filosofia? di Merleau Ponty e Che cos’è la filosofia? di Deleuze, sono illuminanti su questo proprio perché trattano specificatamente il nostro tema: cosa è la filosofia per i due autori e in che rapporto è con ciò che entrambi definiscono non filosofia. Sia Merleau Ponty che Deleuze descrivono la filosofia e la non filosofia (tutto ciò che sta fuori dalla filosofia, tutto ciò che non sarebbe appunto filosofia) come co-appartenenti e anche in questo la prossimità è tangibile. Leggendo i due testi la sensazione è di trovarsi davanti a due filosofi che credono a un medesimo scopo della filosofia, che vedono una stessa finalità e che vedono un uguale rapporto tra filosofia e arte, che appunto fa parte di quella non filosofia di cui parlano. L’arte è una piccola parte della non filosofia, ma è anche ciò di cui la filosofia non può fare a meno; il fuori sembra essere anche interno alla filosofia stessa, sembra essere l’altro lato della piega, l’altro termine chiasmatico. Merleau Ponty scrive in E’ possibile oggi la filosofia? che la filosofia non può essere theoria, che per comprendere che cosa sia dobbiamo «pensare lo spirito prima di ogni idealizzazione» e leggiamo proprio all’inizio del testo: «la filosofia troverà aiuto in poesia, arte ecc., in un rapporto molto più stretto con esse, rinascerà e reinterpreterà così il proprio passato di metafisica- che non è passato.»12
La filosofia è allora sempre in rapporto, per entrambi, con la non filosofia, da intendere come lo stato di crisi della filosofia stessa ma anche come tutto ciò che è
12 M. Merleau Ponty, E’ possibile oggi la filosofia?, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003, p.
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al di fuori di essa e che la filosofia non può non considerare. La pittura è definita poche pagine più avanti come una sorta di filosofia, «coglimento della genesi» e puntualizza subito di che tipo di pittura sta parlando: «la pittura è un mondo per sé, non una copia del mondo». Che cosa deve fare l’artista? «Il visibile (con tutto l’invisibile che si trascina dietro) è l’Essere che ci è comune e il linguaggio dell’artista (in quanto indiretto e inconscio) è il mezzo per portare a compimento la nostra partecipazione comune a tale Essere13».
Deleuze segue esattamente questa concezione e anche per quanto riguarda l’arte vedremo che sarà interessato proprio al non rappresentativo, all’arte non come copia di un modello, ma come creazione e manifestazione sulla tela delle sensazioni. Leggiamo nell’introduzione di Che cos’è la filosofia? che «il filosofo è l’amico del concetto, è in potenza di concetto. Ciò vuol dire che la filosofia non è una semplice arte di formare, inventare o fabbricare concetti, poiché i concetti non sono necessariamente delle forme, dei ritrovati o dei prodotti. La filosofia, più rigorosamente, è la disciplina che consiste nel creare i concetti». La dimensione creativa e dinamica sarà la dimensione propria delle riflessioni filosofiche di cui parleremo.
Per Deleuze ogni creazione di concetti è singolare e ogni creazione è intuizione. E’ nel capitolo che tratta del rapporto tra filosofia, scienza, logica, arte e nello specifico nel paragrafo sul percetto, affetto e concetto che troviamo che cosa può fare l’arte secondo Deleuze e leggiamo: «ciò che si conserva, la cosa o l’opera d’arte, è un blocco di sensazioni, ossia un composto di percetti e di affetti»14. Qual
è il rapporto tra filosofia e arte secondo Deleuze?
13 Ibidem, p. 186