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Il prigioniero-migrante

1 INTRODUZIONE

3.3 Il mito della caverna e la tana di Kafka

3.3.1 Il prigioniero-migrante

Oggi il mito della caverna di Platone può essere riconosciuto in molte situazioni. Basti pensare al cinema: “The Truman Show”, la trilogia di “Matrix” e “V

per vendetta” sono solo alcuni esempi di come le dicotomie realtà/imitazione della realtà e verità/finzione si sviluppino anche nel mondo della cinematografia. Se prendiamo in considerazione il fenomeno migrazione ci possiamo rendere conto di come il mito platonico sia rapportabile anche all’attualità più vicina a noi.

Alcune guerre lunghe e sanguinose hanno devastato e stanno tuttora sconvolgendo molte delle zone da cui la maggior parte dei migranti fugge per tentare di raggiungere l’Europa. Guerre di religione tra simili che pregano lo stesso Dio, ma in maniera differente, guerre fatte solo di interessi politici ed economici: tutto questo genera ulteriori guerre, guerre interiori e guerre per l’accettazione, per essere accettati in contesti lontani non soltanto dal punto di vista geografico.

<< La paura ci impedisce di vedere e di cogliere le occasioni di salvezza che ancora ci restano e che sono spesso a portata di mano. Ecco perché, per affrontare pericoli improvvisi, così come per combattere avversari o nemici, le doti più importanti sono il sangue freddo e la presenza di spirito. Il primo consiste nel silenzio della Volontà, affinché l'intelletto possa agire; la seconda nell'attività indisturbata di quest'ultimo, nonostante le pressioni che gli eventi esercitano sulla Volontà >> 43 dice Arthur Schopeneuer nel suo “Il mondo come volontà e rappresentazione”. Ma come possiamo non considerare la paura come uno dei moventi che spingono i soggetti in questione a fuggire dalla propria

43 Schopeneuer A., Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1992

terra natale? In questi casi la paura non impedisce di trovare occasioni di salvezza, ma sono proprio paura e la volontà di allontanarsene che muovono le pedine nel grande scacchiere del fenomeno migratorio.

Così come i prigionieri della caverna platonica, anche i migranti, o meglio i futuri migranti, sono convinti, almeno in partenza, che la realtà che vivono sia la migliore realtà possibile, l’unica. Almeno fino a quando non cominciano a piovere le bombe, almeno fino a quando la loro vita e quella dei loro cari non viene messa a repentaglio. A questo punto la realtà non può essere universalizzata, deve esserci una realtà migliore, una realtà dove non si rischia di saltare in aria dentro la propria casa, dove non ci sia bisogno di pregare che non accada niente di drammatico ogni momento della giornata.

Lontano da qui si sta bene e si vive la nostra vita senza il rischio di venire uccisi dalle armi di chissà quale soldato. Ma perché i soldati sono qui? Cosa ho fatto per meritare tutto ciò? Questi potrebbero essere i pensieri che circumnavigano la mente dei migranti, lungo quelle interminabili tratte nel mar Mediterraneo durante le quali, se va bene, arrivi a destinazione. E come possiamo noi biasimarli... Sfido chiunque di noi a pensare diversamente se, da un giorno all’altro, fosse costretto a vivere le suddette situazioni.

Perché, come ci ricorda Abdelmalek Sayad, c’è un motivo per cui esiste il fenomeno migratorio 44 e troppo spesso non gli diamo peso e importanza.

Proviamo ora ad avvicinare il protagonista del mito della caverna, ovvero il prigioniero liberatosi, alla figura del migrante. Da cosa si libera il migrante e cosa lo spinge ad uscire dalla cornice della sua vita e della sua esistenza per entrare in un contesto diverso?

Le catene metaforiche a cui queste persone, perché è di persone che stiamo parlando (anche se spesso e volentieri sembriamo dimenticarcene), sono legate possono essere rappresentate dalle radici che le fissano ai loro luoghi di nascita. Radici ben salde che però, da un giorno all’altro, vengono spezzate in nome di chissà quale valore.

La libertà che il prigioniero si procura è dovuta al desiderio di vedere cosa c’è oltre, di osservare dove porta quella breve salita e di conoscere da dove proviene quella luce, mentre le radici che tengono ben saldi i soggetti migranti non si rompono a causa di una ricerca curiosa della verità, si distruggono a causa di un sistema, di una situazione, che vuole negare la libertà. << Dovrebbe, invece, io credo, farvi abitudine, per riuscire a vedere le cose che sono al di sopra. E dapprima, potrà vedere più facilmente le ombre e, dopo queste, le immagini degli uomini e delle altre cose riflesse nelle acque e, da ultimo, le cose stesse. Dopo di ciò potrà vedere più facilmente quelle realtà che sono

44

La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffello Cortina Editore, Milano, 2002

nel cielo e il cielo stesso di notte, guardando la luce degli astri e della luna, invece che di giorno il sole e la luce del sole >> e ancora << Per ultimo, credo, potrebbe vedere il sole e non le sue immagini nelle acque o in un luogo esterno ad esso, ma esso stesso di per sé nella sede che gli è propria, e considerarlo così come esso è >> 45: così Platone a proposito del fatto che, una volta liberatosi dalle catene e uscito dalla caverna, il prigioniero possa, attraverso l’abitudine, rendersi conto di come la realtà sia fuori dalla caverna stessa e non dentro.

Il nostro migrante dunque, costretto ad uscire dalla propria caverna (anche se sarebbe più appropriata la figura della tana di Kafka in quanto sembra avere una valenza più positiva della prigione platonica), una volta raggiunto il luogo prestabilito, dovrebbe, per mezzo dell’abitudine, rendersi conto dell’esistenza di una realtà differente da quella che lo ha messo alle strette e indotto a fuggire.

Quello che dobbiamo chiederci è se la nuova realtà in cui il migrante piomba sia effettivamente diversa. Certo è che in Europa, fortunatamente, le bombe non cadono e la guerra, almeno quella usuale combattuta sul campo di battaglia, non è presente. Siamo sicuri però che la ricerca di libertà, l’uscita metaforica da una cornice e l’entrata in un contesto totalmente differente valga veramente lo sforzo fatto?

45

Platone, Tutti gli scritti, (a cura di) Giovanni Reale, Rusconi Editore, Rimini, 1997, cit. da Repubblica, VII, pp. 1239

Platone nella “Repubblica” ipotizza che il primo pensiero che potrebbe nascere nella mente del prigioniero liberatosi, una volta appurato che la realtà è diversa da quella abitudinaria all’interno della caverna, potrebbe essere quello di tornare all’interno della prigione per poter ragguagliare i “colleghi” prigionieri di tutte le meravigliose scoperte fatte all’esterno. L’unico scoglio che il soggetto liberato deve superare è, al momento dell’uscita dalla caverna, la forza della luce solare, mentre nel momento del rientro in essa la necessita del riabituarsi all’ombra e all’oscurità.

Per il migrante il discorso è diverso. Una volta costretto a imbarcarsi verso terre sconosciute in cerca di una realtà differente, arriva a rendersi conto di come, a chilometri e chilometri di distanza, non cadono bombe, ma si ergono muri per evitargli di raggiungere amici o parenti in altri Stati: è questa la problematica principale a cui il migrante deve riuscire ad ovviare dopo aver raggiunto le coste europee. Sempre più Stati stanno manifestando, in questi anni in cui il fenomeno migratorio è aumentato esponenzialmente, la volontà di “lavarsi le mani” del problema tirando su muri che possano fermare le speranze dei migranti.

Secondo il sottoscritto è proprio questo il paradosso del fenomeno migrazione: si esce da un sistema chiuso dalla guerra voluta dalle politiche, molte volte espansionistiche, degli Stati sovrani, si attraversa una cornice che posso senza ombra di dubbio denominare “cornice della speranza” (a giudicare dai tanti corpi

ripescati dal Mar Mediterraneo e da tutti quelli non più trovati) per poi vedere che, altri esseri umani, vogliono evitare problemi e discussioni con la risposta più semplice e immediata, ovvero tirar su un muro sul quale si distruggono tutte le speranze nate al momento della partenza.

Il muro è sempre stato, e sarà sempre, uno dei limiti più grandi e radicati nell’essere umano.

Esso, sotto forma di nebbia, è cantato da Giovanni Pascoli in “Nebbia” 46 e da Eugenio Montale in “Meriggiare pallido e assorto”, solo per citarne alcuni: << E andando nel sole che abbaglia

sentire con triste meraviglia

com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia >> 47.

La metafora di Montale manifesta come il rovente muro d’orto non permetta di soddisfare la volontà conoscitiva dell’uomo che non riesce a superare quella barriera invalicabile rappresentata dalla muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Il muro ha sempre una valenza negativa: manifesta sempre e comunque la volontà di evitare il passaggio da un luogo all’altro, funge da interruzione di un viaggio, da ostacolo per una corsa, da schermo invalicabile. L’ergersi di nuovi muri (come se la nostra storia non avesse in sé gravi esempi anche fin troppo recenti)

46

Pascoli G., Canti di Castelvecchio, BUR Edizioni, Milano 1984 47Montale E., Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2004

rappresenta la più drammatica azione che impedisce agli uomini di attraversare cornici.

Perché in fondo qual è l’azione che più di tutte le altre contraddistingue l’essere umano se non quella di attraversare cornici e di passare continuamente tra contesti differenti? Il gioco stesso, per Gregory Bateson, si inquadra, è proprio il caso di dirlo, nel mondo della cornice: << (Q) piuttosto, che la cornice fisica reale venga aggiunta ai quadri fisici perché gli esseri umani si muovono più agevolmente in un universo in cui alcune

delle loro caratteristiche psicologiche sono

esternate (Q) >> 48. Tutto il nostro comportamento è da studiare attraverso la metafora della cornice. Entriamo ed usciamo costantemente da contesti differenti tra di loro e il nostro modo di fare ne risente e agisce di conseguenza: potremmo dire che il nostro agire è condizionato dalla cornice in cui ci troviamo.

Karl Jaspers dice che << Insensibile, né benevolo, né spietato, sottomesso a leggi rigorose o affidato al caso, il mondo non sa di sé. Non lo si può capire perché si presenta impersonalmente, se lo si riesce a chiarire in qualche particolare, resta comunque incomprensibile nella sua totalità. Ciò non toglie che io conosca il mondo anche in un altro modo. Un modo che me lo rende affine e che mi consente di sentirmi, in esso, a casa mia, al sicuro. Le sue leggi sono quelle della ragione, per cui, sistemandomi in esso, mi sento tranquillo, costruisco i miei strumenti e li conosco. Mi è

48Bateson G., Una teoria del gioco e della fantasia, in Verso un’ecologia della

familiare nelle piccole cose e in quelle che mi sono presenti, mentre mi affascina nella sua grandezza; la sua vicinanza mi disarma, la sua lontananza mi attira. Non segue i sentieri che attendo, ma anche quando mi sorprende con insospettate realizzazioni o inconcepibili fallimenti, alla fine conservo, anche nel naufragio, un'indefettibile fiducia in esso >> 49: questa visione parzialmente positiva del mondo non riesce a trovare riscontri nel sottoscritto. Non posso aver fiducia in un mondo in cui vengono innalzati muri, in cui viene tolto il piacere di attraversare cornici. Magari fosse come la pensa l'informatico statunitense Randy Pausch: << Ogni ostacolo, ogni muro di mattoni, è lì per un motivo preciso. Non è lì per escluderci da qualcosa, ma per offrirci la possibilità di dimostrare in che misura ci teniamo. I muri di mattoni sono lì per fermare le persone che non hanno abbastanza voglia di superarlo. Sono lì per fermare gli altri >> 50. I muri vengono ancora oggi edificati. I migranti partono ogni giorno in cerca di speranze che vengono regolarmente distrutte. Finché esisterà la figura del prigioniero-migrante non riuscirò mai ad aver fiducia del mondo in cui vivo.

49

Jaspers K., Filosofia Vol.2, Feltrinelli, 2016, cit. cap. 1

50Pausch R., cit. tratta da Randy Pausch Last Lecture: Achieving Your Childhood

4 ALTERITA’, RAZZISMO E

ANTIRAZZISMO

Nulla sembra più ovvio dell’identità e della natura di un popolo. I popoli hanno nomi familiari e sembrano avere lunghe storie. Tuttavia qualsiasi specialista in sondaggi d’opinione sa che, se si domanda estensivamente “cosa sei?” a individui appartenenti presumibilmente allo stesso “popolo”, le risposte saranno incredibilmente varie, specialmente se, in quel momento, l’argomento non è di particolare urgenza politica. E qualsiasi osservatore della scena politica sa che il dibattito politico veramente appassionante ruota intorno a questi nomi di popoli. Esistono i palestinesi? Chi è un ebreo? I macedoni sono bulgari? I berberi sono arabi? Qual è la classificazione esatta: negro, afro- americano, Nero maiuscolo, nero minuscolo? C’è ogni giorno chi uccide per motivi di classificazione. E tuttavia, sono proprio questi che tendono a negare la complessità della questione, il suo essere sviante o tutt’altro che evidente.

Immanuel Wallerstein, La nozione di popolo: razzismo, nazionalismo, etnicità in Razza, nazione, classe. Le identità ambigue

Il punto di vista secondo il quale il gruppo a cui si appartiene è il centro del mondo e il campione di misura a cui si fa riferimento per giudicare tutti gli altri, nel linguaggio tecnico va sotto il nome di “etnocentrismo”. Ad esso corrispondono dei costumi popolari che sono destinati a giustificare sia le relazioni all’interno del gruppo sia quelle del gruppo con l’esterno. Ogni gruppo esercita la propria fierezza e vanità, dà sfoggio della sua superiorità, esalta le proprie divinità e considera con disprezzo gli stranieri. Ogni gruppo pensa che i propri costumi siano gli unici ad essere giusti, e prova soltanto disprezzo per quelli degli altri gruppi, quando vi presta attenzione.

Wiliam Graham Sumner, Folkways

La cosa che deve essere negata – sia a livello speculativo che a livello pratico – è il razzismo.

La figura del prigioniero-migrante non può non portarmi a parlare del razzismo.

Il tutto parte dall’interpretazione che diamo all’ altro, il modo in cui tutti noi lo identifichiamo e lo consideriamo. Le tre figure di riferimento che indirizzano verso una spiegazione del rapporto io-altro sono Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Jean-Paul Sartre e Frantz Fanon.

Interessante è proprio il “triangolo” che viene a formarsi tra i tre grandi pensatori ed è proprio da questo rapporto che voglio partire nell’analisi di questo ultimo capitolo.

4.1 Il problema dell’ “altro” in Fanon e Sartre: