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Gli ultimi della terra: il migrante e la cornice

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Academic year: 2021

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INDICE

1 INTRODUZIONE ... 3

1.1 Presentazione del problema ... 3

1.2 Rassegna della lettura ... 3

1.3 Contenuto della tesi ... 6

2 LA CORNICE COME OGGETTO DELL’ ALTERITA’ ... 8

2.1 Cornice: confronto tra Simmel e Ortega y Gasset ... 9

2.2 Autonomia, minorità e alterità ... 14

2.2.1 Il concetto di autonomia ... 14

2.2.2 Il concetto di minorità e le etichette ... 17

2.2.3 Il concetto di autonomia nel processo dell’apprendimento ... 21

2.3 Emigrazione-immigrazione: il migrante secondo Sayad ... 24

3 SISTEMI-MONDO, CAVERNE E CONTESTI: PLATONE, VICO E WALLERSTEIN ... 30

3.1 Sistemi-mondo e interventi militari ... 31

3.1.1 Diritto all’intervento: scontro Bartolomé de Las Casas / Juan Ginés de Sepulveda ... 36

(2)

3.3 Il mito della caverna e la tana di Kafka ... 45

3.3.1 Il prigioniero-migrante ... 51

4 ALTERITA’,RAZZISMO E ANTIRAZZISMO ... 60

4.1 Il problema dell’altro in Fanon e Sartre: l’impronta di Hegel ... 61

4.2 Negare l’ “altro”: l’origine del razzismo ... 69

4.2.1 Oppresso/oppressore: un meccanismo psicologico. Importanza del linguaggio in Sartre e Fanon ... 74

4.2.2 Frantz Fanon e il concetto di alienazione ... 78

4.3 L’altra faccia dell’alterità: Said e l’orientalismo ... 81

4.4 Il razzismo ai giorni nostri ... 92

4.5 L’antirazzismo secondo Taguieff ... 102

Conclusioni ''''''''''''''''''''..107

Bibliografia ''''''''''''''''''''...110

(3)

1 INTRODUZIONE

1.1 PRESENTAZIONE DEL PROBLEMA

L’immigrazione è una grande questione da qualsiasi lato la si osservi: sia dalla prospettiva di chi vi si oppone, sia da quella di chi, in qualche modo e per qualche scopo, la favorisce.

Oggi questa tematica è drammaticamente davanti agli occhi di tutti: non c’è giornale che non ne scriva, telegiornale che non ne parli o talk show che non ne faccia argomento di discussione.

L’idea per questa mia tesi specialistica è nata dall’unione di due elementi: da una parte l’interesse suscitatomi dal concetto di cornice espresso dal prof. Iacono all’interno dei corsi di Storia della filosofia e Metodologie della ricerca filosofica, dall’altra la volontà del sottoscritto di cercare di applicare tale concetto al problema immigrazione.

L’analisi del concetto d'immigrazione e soprattutto la figura del migrante è lo scopo principale che mi prefisso.

1.2 RASSEGNA DELLA LETTURA

I capitoli che articolano la mia tesi sono tre.

Nel primo capitolo affronterò il concetto di cornice prendendo come spunto di discussione due saggi: “La

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cornice” di Georg Simmel e “Meditazioni della cornice” di Josè Ortega y Gasset. La scelta dei due testi è dovuta al fatto che i due autori e il loro modo di trattare l’argomento sono l’ideale per introdurre il concetto di cornice in maniera da poterlo poi “attualizzare” alla problematica del soggetto migrante.

Prima di addentrarmi in questa specifica tematica della ho scelto di approfondire il rapporto autonomia/minorità facendo riferimento soprattutto al Kant di “Risposta alla

domanda: che cos’è l’Illuminismo” e aIl’ Hegel

delle “Lezioni sulla filosofia della storia”.

I concetti di autonomia e di minorità sono centrali all’interno del problema immigrazione, soprattutto all’interno della figura del migrante, e fungono da vero e proprio trait d’union con l’argomento principale di questo mio primo capitolo: l’uscire e l’entrare costantemente in mondi e contesti differenti tra di loro. L’ultima parte del primo capitolo è incentrata sulla figura di Abdelmalek Sayad, sociologo algerino che ha affrontato in maniera esaustiva il rapporto emigrazione-immigrazione, ponendolo come argomento principale dei suoi studi.

La prima parte del secondo capitolo è incentrato sulla

figura di Immanuel Wallerstein, sociologo ed

economista statunitense e alla sua teoria dei sistemi-mondo.

(5)

Attraverso alcuni accenni ai testi di Wallerstein cercherò di inquadrare il concetto di sistema-mondo con particolare attenzione al diritto di intervento attivo delle forze occidentali nei paesi meno sviluppati a alla legittimità o meno di tali interventi: a proposito di questo parlerò dell’accesa diatriba quattrocentesca tra il vescovo Bartolomé de Las Casas e lo scrittore Juan Ginés de Sepulveda.

L’analisi dei testi di Wallerstein e la puntualizzazione sullo scontro Las Casas / Sepulveda mi porterà ad affrontare un argomento datato, ma attuale: i corsi e ricorsi storici. Il riferimento non può non essere che a “La scienza nuova” di Giambattista Vico: può il fenomeno migratorio essere inteso come un ricorso storico? Attraverso una breve analisi della teoria vichiana, cercherò di fare un paragone tra quest’ultima e i fenomeni migratori che hanno caratterizzato e che stanno tutt’ora caratterizzando l’Europa.

L’ ultima parte del capitolo ha come protagonista Platone, quello della “Repubblica” e del mito della caverna. Attraverso l’argomentazione del celebre mito platonico cercherò di mettere in relazione il prigioniero liberatosi dalle catene e la figura del migrante, tutto nell’ottica della dicotomia realtà/apparenza: può l’ambientazione della caverna essere paragonata al mondo in cui noi tutti oggi viviamo?

Nel terzo e ultimo capitolo riprenderò il concetto di alterità. In questi anni tale concetto sembra aver giovato

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di ulteriore linfa: al giorno d’oggi esso è portato troppe volte all’estremo, sfociando inevitabilmente in razzismo. Che legame sussiste tra alterità e razzismo?

Avvalendomi di testi come “I dannati della terra” di Frantz Fanon, “La pedagogia degli oppressi” di Paulo Freire, “Razza nazione classe. Le identità ambigue” di Balibar e Wallerstein e “La conquista dell’America” di Tzvetan Todorov, cercherò di analizzare il discorso sull’ “altro” sottolineando la sua stretta vicinanza al fenomeno delle discriminazioni raziali, cercando di sottolineare il rapporto io/altro e oppresso/oppressore (avvalendomi di figure come Hegel e Sartre e della loro influenza su Fanon).

L’alterità, o meglio una certa interpretazione dell’alterità, sfocia inevitabilmente nel razzismo: che cos’è il razzismo? Come viene vissuto ai giorni nostri? Attraverso le tesi si Said (nel suo “Orientalismo”) e del filosofo francese Taguieff puntualizzerò questa piaga sociale, molto sviluppata ai giorni nostri, con particolare riferimento all’antirazzismo e al perché dovremmo essere antirazzisti.

1.2 CONTENUTO DELLA TESI

Gli argomenti da me trattati (cornice, immigrazione, figura del migrante, alterità, razzismo) sono, ahimè, attuali: è forse il fatto che si tratta di argomenti talvolta tragicamente odierni che ha suscitato in me la volontà

(7)

di chiudere il mio percorso universitario in questa maniera.

Tra tutti gli elementi che ho trattato, quello della cornice funge da sfondo, o meglio da contesto per gli altri argomenti: la lettura che Simmel e Ortega y Gasset danno della cornice apre un mondo d’interpretazione che non può non essere scorto nell’attualità.

La continua entrata/uscita in mondi e universi differenti sono qualcosa che accompagna costantemente le nostre vite e il migrante che esce da un contesto e, attraverso il superamento di cornici, entra a far parte di un mondo nuovo, non fa certo eccezione.

E’ proprio questo lo scopo della mia tesi: l’entrata in un universo nuovo e sconosciuto è un qualcosa di positivo oppure, come nel caso del prigioniero della caverna platonica, ha anche i suoi lati negativi e nefasti?

E ancora, il razzismo odierno fa crescere in noi l’antirazzismo? Perché dobbiamo essere antirazzisti? Attraverso le pagine della tesi proverò a rispondere a tutte queste domande.

(8)

2

LA

CORNICE

COME

OGGETTO DELL’ALTERITA’

Agli straccioni nel mondo e a coloro che in essi si riconoscono e così riconoscendosi con loro soffrono ma soprattutto con loro lottano.

Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi

Nelle opere umane lo stile è un medium tra l’unicità dell’anima individuale e l’assoluta universalità della natura. Perciò l’uomo, dato il livello culturale che lo separa dal mondo meramente naturale, si circonda di oggetti stilizzati e perciò per la cornice dell’opera d’arte, che nel suo rapporto con l’ambiente ripete quello dell’anima col mondo, lo stile, e non l’individuazione, è il giusto principio vitale.

Georg Simmel, La cornice in Il volto e il ritratto

Come Socrate, l'immigrato è atopos, senza luogo, fuori posto, inclassificabile. Né cittadino, né straniero, né veramente dalla parte dello Stesso, né totalmente dalla parte dell'Altro, l'immigrato si colloca in quel luogo 'bastardo' di cui parla anche Platone, al confine tra l'essere e il non-essere sociale. Fuori posto, nel senso di sconveniente e inopportuno, provoca imbarazzo. E la difficoltà che si prova a pensarlo - persino da parte della scienza, che spesso riprende i presupposti o le omissioni della visione ufficiale - non fa che riprodurre l'imbarazzo che crea la sua ingombrante inesistenza.

Pierre Bourdieu

Prefazione a L’immigrazione o i paradossi dell’alterità. L’illusione del provvisorio di Abdelmalek Sayad

Il mondo sociale è tutt’altro che omogeneo, bensì articolato pluralisticamente; e l’ “altro”, l’interlocutore, è dato dall’attore sociale, così come entrambi a chi li osservi dal di fuori, in gradi volta per volta diversi di anonimità, di vicinanza e di pienezza partecipativa.

(9)

2.1 Cornice: confronto tra Simmel e Ortega y

Gasset

Immaginiamoci un quadro appeso a un muro.

Il quadro è delimitato da una cornice.

Che cosa rappresenta la cornice? Se ci basiamo solamente su ciò che vediamo, su ciò che si trova davanti ai nostri occhi, la risposta è semplice: la cornice racchiude l’opera d’arte che stiamo ammirando.

Cercando di andare oltre alla canonica definizione, una cornice funge da separazione tra un tutto e un particolare che essa stessa racchiude.

La cornice differenzia l’universale dal particolare, ci fa capire dove inizia e dove finisce l’opera d’arte.

Un po’ come una finestra. Così come la cornice, la finestra rappresenta un passaggio grazie al quale è possibile differenziare ciò che sta dentro da ciò che è posto fuori. Esistono vari approcci a una discussione intorno alla finestra. Basti pensare al dialogo tra cugini in “La finestra d’angolo del cugino” di E.T.A. Hoffman,

nel quale la finestra funge addirittura da mezzo per una << intrecciata antropologia attenta a tutti i livelli

d'immagine: quelle rappresentate dalla realtà oggettiva che i due cugini inquadrano, le immagini ipotetiche che essi proiettano su tale realtà e, infine, quelle prodotte dai ricordi e dalle fantasie >> 1. In questo caso la finestra non solo delimita una porzione di spazio che gli

1 Hoffman E.T.A., La finestra d’angolo del cugino, in introduzione a cura di Michele Cometa, Letteratura universale Marsilio, Venezia, 2008, cit., p.11

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osservatori hanno dinanzi, ma rappresenta una sorta di passaggio tra il reale e l’immaginario e tra l’oggettivo e il soggettivo. Siamo dunque di fronte a un passaggio, a un attraversamento: Georg Simmel non la penserà affatto così.

Un altro esempio può essere quello della finestra che rievoca ricordi di libertà nei prigionieri del racconto “Il muro” di Jean-Paul Sartre, contenuto nell’omonima raccolta del 1939: in questo caso il protagonista, attraverso la finestra, osservando la luna, comincia a rammentare momenti passati in cui era libero. La finestra rappresenta qui il dispositivo (per usare un termine caro a Michel Foucault) grazie al quale il soggetto riesce ad “evadere” dalla condizione del presente e rifugiarsi nel ricordo.

Ma torniamo alla cornice. Una lettura del concetto cornice può essere quella secondo cui essa rappresenta una porta attraverso la quale il nostro sguardo esce da un contesto ed entra in un mondo nuovo che non esisterebbe senza la cornice, o quantomeno sarebbe più confuso, visto che l’interno si mischierebbe con l’esterno.

<< I quadri vivono nelle cornici. Quest'associazione di quadro e di cornice non è accidentale. L’uno ha bisogno dell’altra. Un quadro senza cornice ha l’aria di un uomo svestito e nudo. Il suo contenuto sembra rovesciarsi fuori dai quattro lati della tela e rompersi nell’atmosfera. Viceversa la cornice postula costantemente un quadro per il suo intimo, fino al punto che, quando le manca,

(11)

deve trasformare in quadro ciò che vi si vede attraverso >> 2. Con questa definizione Josè Ortega y Gasset, filosofo e scrittore spagnolo vissuto a cavallo tra la fine dell’ ‘800 e la metà del 900, coglie il vero significato della cornice. L’autore rende evidente un rapporto troppe volte dato per scontato, ovvero quello tra la cornice e il quadro: << La relazione fra l’uno e l’altra è, dunque, essenziale e non fortuita: ha il carattere di un’esigenza fisiologica come il sistema nervoso esige quello sanguineo e viceversa; come il tronco aspira a terminare in una testa e la testa a fissarsi su un tronco >> 3. Attraverso l’esempio anatomico, il filosofo sottolinea come non possa esistere quadro senza cornice e viceversa, mette in evidenza lo stretto legame tra i due elementi.

Ortega y Gasset non pone l’accento solo sul rapporto cornice/opera d’arte, ma sottolinea più volte come queste interrompano la realtà, fungano da breccia attraverso la quale l’irreale, l’immaginario entrano in

contatto con il reale: << (Q) le tele dipinte sono buchi d'idealità perforati nella muta realtà delle pareti,

anguste imboccature d’inverosimiglianza alle quali ci affacciamo attraverso la benefica finestra della cornice >> 4 e ancora << (Q) l’opera d’arte è un’isola immaginaria che galleggia circondata da ogni lato di

2Ortega y Gasset J., Meditazione sulla cornice, in Meditazioni del Chisciotte, Guida Editore, Napoli, 2000, cit., p. 1

3

Ivi, p. 3

4

Ivi, p. 310

Di particolare interesse è l’accostamento cornice/finestra: la cornice viene definita da José Ortega y Gasset una finestra che consente all’osservatore di posare la sua attenzione sul livello di irrealtà rappresentato dal dipinto.

(12)

realtà >> 5. La cornice inoltre non indirizza gli sguardi su sé stessa, ma su ciò che è al suo interno. Se un quadro non fosse delimitato, non avesse un inizio e una fine, probabilmente non potrebbe neanche essere chiamato tale. La cornice, in ultima istanza, ha un valore fondamentale sia dal punto di vista stilistico, sia dal punto di vista più semplicemente pratico.

E qui si apre un paradosso su cui vale la pena soffermarsi. È grazie alla cornice che l’opera d’arte

assume valore come tale. Come potremmo

estromettere la delimitazione del quadro dal quadro stesso? Chi ha detto che, pur essendo elementi differenti che hanno bisogno l’uno dell’altro, la cornice non faccia essa stessa parte del quadro?

Georg Simmel compie un netto passo in avanti.

Per il filosofo e sociologo tedesco (1858-1918) << (Q) in un’unità di elementi particolari, essa si

separa, come un mondo a sé, da tutto l’esterno >> 6 e ancora << i confini nell’opera sono di assoluta chiusura, che nello stesso atto si manifesta come indifferenza, ma anche come difesa nei confronti dell’esterno, e come sintesi unificante nei confronti dell’interno. La prestazione della cornice nell’opera d’arte è di simboleggiare questa duplice funzione del suo limite rafforzandola >> 7. Per Simmel dunque la cornice separa l’opera d’arte dal mondo esterno, ma fa essa stessa parte dell’opera d’arte.

5

Ibidem

6

Simmel G., La cornice, in Il volto e il ritratto, Il Mulino, Bologna, 1985, cit., p. 101

7

(13)

Ponendosi il problema dell’opera d’arte che continua sulla cornice Simmel arriverà ad affermare che << la

cornice non può mai presentare nella sua

configurazione una breccia o un ponte, attraverso i quali il mondo possa, per così dire, penetrare il quadro, o il quadro possa uscire dal mondo – come accade, per esempio, quando il contenuto del quadro continua nella cornice >> 8.

Per Simmel, dunque, è sbagliato paragonare una cornice ad un passaggio, al mezzo per uno scambio di mondi, come nel caso di Ortega y Gasset.

Per me, al contrario, la particolarità della cornice sta proprio nel fatto di mettere in contatto mondi altri tra di loro, di favorire la continua entrata/uscita da contesti differenti.

Il mettere in contatto mondi diversi tra di loro, il fatto di rappresentare una porta attraverso la quale vi si entra per poi uscirne e vi si esce per poi rientrarvi, mi consente di introdurre quello che sarà il fulcro centrale del mio elaborato: la figura del migrante come soggetto che esce da un contesto per entrare in un altro “mondo” attraverso il superamento di molteplici cornici. Il migrante è quel soggetto che attraversa metaforiche cornici e passa da un contesto e l’altro: le sue volontà lo spingono ad attraversare mondi, a lasciarsi alle spalle un contesto (una vita) e ad entrare in un universo nuovo e lontano. Secondo il sottoscritto questa visione avvalora il punto di vista di Ortega y Gasset, ovvero

8

Simmel G., La cornice, in Il volto e il ritratto, Il Mulino, Bologna, 1985, cit., p. 103

(14)

quella secondo cui le cornici rappresentano un ponte che collega mondi differenti tra di loro.

2.2 Autonomia, minorità e alterità

La dicotomia autonomia/minorità è sempre più all’ordine del giorno.

La figura del migrante piò essere studiata da molteplici punti di vista: umano, politico, sociale e culturale. Attraverso il rapporto autonomia/minorità proverò a inquadrare il fenomeno migrazione, aiutandomi con le tesi del sociologo algerino Abdelmalek Sayad.

2.2.1 Il concetto di autonomia

Secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani, l’autonomia è, nel suo senso più generale, il potere di dar legge a sé stesso. Una persona è autonoma quando ha la capacità di decidere per se stessa senza l’ausilio di qualcun altro; quando è libera di pensare con la propria testa.

Occorre però partire dalla risposta kantiana alla domanda “Che cos’è l’Illuminismo?” : << Illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, quando la sua causa non stia nella mancanza di intelletto, bensì nella mancanza di decisione e di coraggio nel servirsi del proprio

(15)

intelletto senza la guida di un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto! Questa è dunque la parola d’ordine dell’illuminismo >> 9. La capacità di utilizzare il proprio intelletto è vista da Kant come il più alto grado di autonomia che una persona possa raggiungere, ma, allo stesso tempo, si tratta di una conquista molto faticosa. La mancanza di libertà intellettuale è da attribuirsi principalmente alla pigrizia. Continua Kant: << La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la

natura li ha da lungo tempo affrancati

dall’eterodirezione, (Q) tuttavia rimangono volentieri minorenni per l’intera vita; e per cui riesce tanto bene agli altri erigersi loro tutori. (Q) Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero da me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione >> 10.

Solo il confronto con altre teste pensanti, con altri individui capaci di utilizzare il proprio intelletto e quindi di uscire da uno stato di minorità primordiale può aiutare ad aprire la mente: l’appello kantiano al pensare da sé, il suo sapere aude, non deve essere

confuso con l’autorizzazione al monologo e

al non confronto con l’altro.

9

Kant I., “Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?” in “Kant. Scritti di

storia, politica e diritto”, (a cura di) Filippo Gonnelli, Edizioni Laterza, Bari,

2007, cit., p. 45

10

(16)

Hegel, nelle sue “Lezioni sulla filosofia della storia”, pur non citando direttamente Kant, pone l’accento proprio su questa eventualità: << (Q) La solitudine dell’intimità pensante diventa dunque il principio di una società di ispirati, che si riconoscono con il mero stringersi le mani, e il silenzio del sentimento. E questi ispirati come è ovvio diventano altezzosi, e sprezzanti, nei riguardi di coloro che, per sventura delle proprie menti manchevoli, non colsero l’essenza assoluta >> 11. Prende qui importanza il concetto di alterità. Essere autonomo significa pensare con la propria testa, utilizzare il proprio intelletto: tutto ciò però non sarebbe possibile senza l’interlocuzione con altri individui che hanno la stessa capacità di utilizzare in maniera autonoma il proprio intelletto: tutto ciò non sarebbe possibile senza l’intervento e l’interlocuzione con l’altro. L’altro funge da garante della nostra esistenza e della nostra capacità di pensare. Senza l’altro che conferma la veridicità del nostro pensiero, o al contrario, contesta ciò che noi stiamo pensando, noi tutti non potremmo dichiararci pienamente autonomi.

Tra le motivazioni che spingono un individuo a cercare fortuna lontano dalla propria terra di origine (proprio come nel caso del migrante), c’è proprio la volontà di ottenere una propria autonomia, ma molto spesso la ricerca di quest’ultima pone i diretti interessati nello stato di minorità. È questo il paradosso del fenomeno

11

Hegel G.W.F., “L’Illuminismo e la Rivoluzione” in “Lezioni sulla filosofia della

storia”, (a cura di) Giovanni Bonacina e Livio Sichirollo, Edizioni Laterza, Bari,

(17)

della migrazione: cercare l’autonomia per entrare a far parte della minoranza, per poi rappresentare la minorità. Quando un essere umano non nasce autonomo, ma è costretto a ricercare la propria autonomia, è indirizzato verso lo stato di minorità, verso l’appartenere a una minoranza. Prendiamo come esempio proprio la figura del migrante. Egli ha come scopo quello di raggiungere la sua autonomia, quasi a voler urlare al mondo “ci sono anch’io!”.’ È proprio questa ricerca di autonomia e di libertà che lo pone nella minoranza, che fa si che tutti noi lo consideriamo

altro da noi stessi, diverso.

Vedremo ora come si rapportano tra di loro i concetti di alterità e dei minorità.

2.2.2 Il concetto di minorità e le etichette

Legato al concetto di autonomia vi è quello di minorità. Cosa significa essere immersi in uno stato di minorità? Essere minoritari nei confronti di qualcuno significa essere sottomessi ad altri. La sottomissione non deve essere intesa solo ed esclusivamente dal punto di vista politico: abbiamo appena visto come in Kant prima e in Hegel poi la minorità venga infatti intesa dal punto di vista della capacità o meno di utilizzare il proprio intelletto (una interpretazione morale del concetto di alterità/minorità).

Il concetto di minorità può anche far parte della sfera culturale e sociale. Chi è minoritario nei confronti di altri,

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fa parte di una minoranza, ovvero << un gruppo di persone – differenziate da altre all’interno di una data società sulla base di razza, religione, lingua, nazionalità – che vedono se stesse come un gruppo dotato di una sua specificità e sono percepite all’esterno come tali, con una connotazione negativa >> 12.

I termini minorità e minoranza implicano

automaticamente una diversità da un qualcos’altro. Facciamo parte di una minoranza solo se ci distinguiamo da una maggioranza.

Le parole del sociologo americano Rose colgono il segno. Esse si basano su due punti, a parer mio, fondamentali:

1) differenziazione su base religiosa, razziale e linguistica;

2) atteggiamento negativo da parte della “maggioranza”

nei confronti della “minoranza”.

Al giorno d’oggi l’aspetto religioso è il vero e proprio discrimine tra il noi e l’altro, basti pensare alla contrapposizione tra la religione islamica e quella cristiana.

La religione è l’elemento di differenziazione, anche violenta, tra i diversi individui. In nome di Dio si uccidono esseri umani, si compiono attentati e si iniziano guerre dalle quali sarà difficile uscire. La religione (ma sarebbe più giusto dire le diverse

interpretazioni religiose) crea la minorità. La

discriminazione su base religiosa è un fattore

12

Rose A.M., Minorities, in International encyclopedia of the social sciences, vol. X, New York, Macmillan company & free press, 1968, cit., pp. 365-366

(19)

notevolmente sviluppato in tutte quelle zone del mondo in cui il processo di integrazione delle minoranze è venuto meno, o addirittura non si è proprio verificato. Come possiamo pensare un mondo multiculturale senza un adeguato processo di integrazione? È proprio questo il dramma attuale: manca la volontà di accettare la diversità e, di conseguenza, favorire l’integrazione dell’altro.

Gli altri due fattori sui quali Rose pone l’accento, il linguaggio e la razza, sono correlate a tutto ciò che è stato detto finora: così come la religione, anch’essi sono elementi che distinguono una minoranza da una maggioranza e che stanno alla base di rancori tra le persone. Più avanti vedremo come, sia per Sartre che per Fanon, il linguaggio funga da discrimine all’interno dei rapporti oppresso / oppressore e io / altro, instaurando un vero e proprio meccanismo psicologico tra le due figure.

La minoranza è vista oggi come una minaccia. Coloro che hanno sempre vissuto nella minorità e che tentano di uscire dallo stato sociale in cui sono cresciuti per provare a raggiungere un’autonomia hanno ottenuto solo l’etichetta di “altro”, di ”straniero”.

A proposito dei vari tipi di conflitto, Maria Antonella Galanti afferma che << Il conflitto che più intimorisce, nell’epoca delle grandi migrazioni, è legato alla paura dell’alterità culturale. Il problema dell’incontro tra culture è un tipico problema da paura del conflitto e presenta un duplice aspetto: è un’emergenza sociale e nello

(20)

stesso tempo si traduce in un compito etico e politico, nonché educativo >> 13.

Oggi ciò che ci fa paura non è tanto il diverso, quanto il diverso minoritario, ovvero il diverso che fa parte di una minoranza.

Una risposta psicologica di autoconvincimento, quasi di tolleranza forzata nei confronti dell’altro, è l’immagine dell’etichetta.

Noi tutti guardiamo gli altri distinguendoli per etichette. Quando incrociamo per strada un soggetto diverso da noi, la prima cosa che notiamo è proprio la sua diversità. Ad esempio quando ci passa davanti una persona diversamente abile, noi non notiamo la sua umanità: la prima cosa che notiamo è la sua diversità, la sua malattia. Non diamo peso al fatto di avere davanti un essere umano, ma nasce in noi come un sentimento talvolta di compassione, talvolta di paura nei confronti della diversità del soggetto. Le minoranze non esulano certo da questo discorso. L’etichetta di diverso è un qualcosa che si insinua automaticamente nelle nostre teste. Per ovviare a questo gravoso difetto, dovremmo cercare di andare oltre all’etichetta e riconoscere l’essere umano che vi si cela dietro, un essere umano portatore della propria storia che, seppur facente parte di una minoranza, sempre di carne e ossa è fatto.

<< (Q) Diventa chiaro a questo punto che ricevere un’etichetta equivale a essere imprigionati in una sorta

13

Galanti M.A., Smarrimenti del sé. Educazione e perdita tra normalità e

(21)

di destino predeterminato. Ci si ritrova vittime, proprio malgrado, di una forma di determinismo sociale e individuale: i nostri desideri, il nostro divenire e ciò che possiamo sperare e costruire nella nostra vita, tutto, entra a far parte di un sapere e di una statistica

prestabiliti, che ci esiliano dalla nostra incertezza >> 14: uscire da una minorità per raggiungere

l’autonomia, distruggere le etichette, integrarsi ed essere accettati nella diversità sono le uniche vie percorribili per cercare di opporsi alla nascita di nuovi razzismi.

2.2.3 Il concetto di autonomia nel processo

dell’apprendimento

Che cosa significa apprendere? Letteralmente la parola apprendimento identifica la capacità da parte di un individuo di acquisire una o più nozioni che consentano al soggetto stesso un migliore adattamento all’ambiente in cui vive.

Secondo Maria Antonella Galanti l’apprendimento, e tutto ciò che gira intorno ad esso, può essere schematizzato in tre punti fondamentali 15:

1) << processo complesso che si origina ben prima dell’insediarsi della dimensione conoscitiva di tipo

14

Benasayag M, Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli Editore, Milano, 2007, cit., pp. 76-77

15

Galanti M.A., Complessità, apprendimento e relazione: dalle origini della vita

psichica alla capacità di essere soli, in AA.VV., Apprendimento, autonomia, complessità, Edizioni ETS, Pisa 2007, cit., pp. 31-34

(22)

razionale e si snoda, poi, per tutto l’arco di esistenza >>;

2) << (Q) processo reticolare e interminabile, dipendente in parte dalla decisione volontaria dei singoli soggetti che ne sono coinvolti, ma in misura ben maggiore dall’incontro delle loro menti (delle loro realtà psichiche) che si discoprono e confrontano elementi conflittuali e altri congruenti, lasciando

emergere la possibilità di subire anche

disconferme >>;

3) Citando lo psicoanalista britannico Bion16, << (l’apprendimento) considera ogni autentica e

profonda acquisizione di conoscenza come un mutamento che definisce “catastrofico”, perché legato a una rottura epistemologica rispetto al precedente equilibrio interno di saperi. Viceversa, quando i processi di conoscenza e di apprendimento sono bloccato, ciò è riconducibile alla presenza di veri e propri ostacoli di natura epistemologica nella mente del soggetto piuttosto che alla complessità dell’oggetto di studio. Il ciclo di vita (e, dunque, il processo formativo, è segnato dal continuo irrompere di mutamenti catastrofici e dal nostro provare sentimenti ambivalenti di terrore e di attrazione insieme, rispetto ad essi >>.

Apprendere dunque significa sostanzialmente aprirsi a nuove cornici relazionali, rappresentate da tutti

(23)

quei nuovi sentimenti che fungono da sfondo nei rapporti con gli altri.

Per apprendere tuttavia dobbiamo essere autonomi: l’autonomia rappresenta la prerogativa fondamentale all’interno del principio dell’apprendimento.

Già Kant sottolinea come la capacità di utilizzare in

maniera autonoma il proprio intelletto sia

l’espressione più alta di autonomia, ovvero l’uscita da uno stato di minorità.

Nel rapporto docente-bambino, il processo di apprendimento di quest’ultimo dipende dal grado di autonomia che il bambino stesso ha raggiunto.

A questo proposito, Alfonso Maurizio Iacono sottolinea cinque importanti punti 17:

1) << l’insegnamento ha a che fare con la

formazione, ancor prima che con

l’informazione >>;

2) << l’insegnante non è l’accertatore fiscale del sapere acquisito dallo studente >>;

3) << il sapere non è interpretabile in termini prevalentemente quantitativi >>;

4) << l’apprendimento implica in colui che apprende la capacità di saper modificare l’apprendimento stesso >>;

5) << per avere questa capacità, è necessario senso critico e autonomia individuale >>.

17

Viene qui riportata p. 62 di L’autonomia e il gioco delle illusioni condivise di Iacono A.M., in AA.VV, In rapido volo con morbida voce. L’immaginazione come

(24)

I punti 4 e 5 mettono chiaramente in evidenza come l’apprendimento dipenda dall’autonomia. Kant, in “Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?” ci illustra la figura del girello da bambini, una metafora che spiega nella maniera migliore il concetto di apprendimento.

Per alcuni, attraverso il girello, i bambini possono imparare a camminare, dando a questi ultimi l’illusione di farlo in piena autonomia, ma, come sottolinea lo stesso Iacono, il girello può presto diventare << una sorta di piccola prigione >> 18, della quale il bambino, una volta resosi conto di camminare grazie al girello, dovrà liberarsi.

Si apprende in maniera autonoma: altra grande importanza del concetto di autonomia.

2.3 Emigrazione-immigrazione: il migrante secondo

Sayad

Abdelmalek Sayad, sociologo e filosofo algerino naturalizzato francese, ha dedicato tutta la sua vita allo studio del fenomeno dell’emigrazione-immigrazione. Nel marzo del1998 Sayad è venuto a mancare prima di aver dato una cronologia all’insieme dei suoi studi. Aveva però affidato al sociologo e filosofo francese Pierre Bourdieu (1930-2002) un abbozzo di piano, una specie di sommario, dal quale è stato creato il testo cui farò

18

Iacono A.M., La sfida della complessità: autonomia, relazione,

apprendimento, in AA.VV., Apprendimento, autonomia, complessità, Edizioni

(25)

riferimento: “La doppia assenza. Dalle illusioni

dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato” 19.

Il titolo stesso di questo testo dimostra come Sayad cerchi di affrontare nella maniera più completa possibile tutto ciò che gira intorno al fenomeno emigrazione-immigrazione.

Il primo punto sul quale vale la pena soffermarsi è il legame tra il migrante e l’incapacità da parte dell’opinione pubblica di soffermarsi sulle motivazioni per le quali egli si vede costretto a migrare. << Ogni studio dei fenomeni migratori che dimentichi le condizioni d’origine degli emigrati si condanna a offrire del fenomeno migratorio solo una versione nel contempo parziale ed etnocentrica: da una parte, come se la sua esistenza cominciasse nel momento in cui arriva in Francia, è l’immigrante – e lui solo – e non l’emigrante a essere preso in considerazione; dall’altra parte, la problematica, esplicita e implicita, è sempre quella dell’adattamento alla società d’accoglienza >> 20.

La tendenza odierna è quella di considerare immigrato ed emigrato come due enti differenti: sembra che l’immigrato che arriva in Europa non sia l’emigrato che parte dalla sua terra di origine. Sayad pone l’accento sul fatto che ogni immigrazione è sempre anche un'emigrazione, e viceversa ogni emigrazione è anche un' immigrazione. Non c’è differenza tra emigrazione e immigrazione, sono due facce della stessa medaglia.

19

Sayad A., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze

dell’immigrato, Raffello Cortina Editore, Milano, 2002

20

(26)

L’impegno e l’applicazione che tutti noi mettiamo nel considerare altri chi raggiunge i nostri territori fa si che non riusciamo a considerare le motivazioni per le quali tutto ciò avviene.

Il sociologo algerino pone poi l’accento sul rapporto tra il fenomeno emigrazione-immigrazione e il concetto di stato (nazione). Per Sayad infatti lo stato si sente de-naturalizzato e ri-storicizzato a causa della presenza del migrante, ed è per questo motivo che lo percepisce come una minaccia: << (Q) l’immigrato non potrà mai essere un “elemento neutro”; egli appare piuttosto come un “reato latente”, un reato che consiste nel solo fatto di essere un immigrato, violentatore di confini e irrisore di miti fondativi. Così, prima ancora che si possa parlare di razzismo o xenofobia, la nozione di doppia pena è contenuta in tutti i giudizi emessi sull’immigrato (e non solo i giudizi emessi dai tribunali). Essa si radica nel pensiero di stato, base antropologica su cui poggiano tutti i nostri pregiudizi sociali (Q) >> 21. L’immigrato dunque parte dal proprio paese già colpevole di essere altro, di essere diverso, di essere immigrato in quanto tale. L’immigrato porta con se il suo essere minaccia per la comunità che raggiunge. << (Q) Noi tutti pensiamo l’immigrazione (cioè gli “altri” da noi, ciò che sono, ma in questo modo, attraverso di loro, ciò che noi siamo quando li pensiamo) come lo stato ci chiede e ci addestra a pensarla, cioè in fin dei conti come la pensa lo stato stesso. Ecco in sintesi, ciò

21

(27)

che può essere il pensiero di stato >> 22 : Sayad ci definisce così il cosiddetto “pensiero di stato”, ovvero una forma di pensiero che riflette le strutture dello stato tramite le proprie strutture mentali; le categorie attraverso cui pensiamo l’immigrazione sono infatti categorie nazionali. Esse hanno il compito di separare nettamente, di demarcare i confini che separano i nazionali dai non-nazionali (gli immigrati); lo stato nazionale infatti, secondo il punto di vista di Sayad, deve delimitarsi per definirsi. E dunque per esistere, per delimitarsi, deve discriminare, tracciare una linea immaginaria tra “noi” (chi possiede la nazionalità del paese) e gli “altri” (chi non possiede tale nazionalità); questi ultimi “esistono” per lo stato ospitante solo a livello materiale, strumentale. E’ così che l’identità del migrante si configura solo ed esclusivamente attraverso gli occhi del paese di immigrazione: identità che forse sarebbe più esatto definire non-identità; essa si costituisce infatti come un’eterna privazione: il migrante è un non-nazionale, è altro rispetto al tutto, è un non-soggetto sociale.

L’immigrato è il colpevole. E’ colpevole di essere fuori posto e, in quanto colpevole, l’immigrato è la minaccia per lo stato e così viene percepito dall’opinione pubblica, a mio avviso, la vera colpevole di questa situazione.

Sayad definisce l’immigrato come il luogo della

cosiddetta doppia assenza: egli è assente

22

La traduzione viene qui tratta dalla prima versione italiana del saggio di Sayad apparsa sulla rivista “aut aut”, gennaio-marzo 2009

(28)

contemporaneamente sia dalla società in cui è nato, sia dalla società in cui abita. L’immigrato è lo straniero in tutto il mondo. Ma l’immigrato è anche il fautore del cosiddetto viaggio immoto. Come riporta Stefania Tusini 23, il migrante non solo è assente sia dal luogo di origine sia dal luogo in cui arriva, ma è proprio questa doppia assenza che fa si che il suo viaggio sia come fuori dal tempo. Il migrante non viene visto con gli occhi della compassione e dell’empatia, dunque tutto ciò che fa parte del suo mondo viene interpretato come fuori dal tempo e dal mondo stesso.

<< Questa è l’emigrazione, questo è vivere da stranieri in un altro paese (Q) Il nostro elghorba [l’esilio] è come qualcuno che arriva sempre in ritardo: arriviamo qui, non sappiamo nulla, dobbiamo scoprire tutto, imparare tutto – per coloro che non vogliono restare così come sono arrivati – siamo in ritardo sugli altri, sui francesi, restiamo sempre indietro. Più avanti, quando [l’emigrato] ritorna al suo villaggio, si rende conto che non ha nulla, che ha perduto il suo tempo. (Q) Tutta l’emigrazione, tutti gli emigrati, tutti quanti sono, sono così: (Q) l’emigrato è l’uomo con due luoghi, con due paesi. Deve metterci un tanto qui e un tanto là. Se non fa così è come se non avesse fatto nulla, non è nulla (Q) >> 24: le parole di questa testimonianza spiegano nella maniera più chiara lo stato d’animo dell’immigrato

23

Tusini S., Il viaggio immoto. Studio sul tempo e sui migranti, Tangram edizioni scientifiche, Trento 2015

24

Testimonianza di un algerino immigrato in Francia in A. Sayad, La doppia

assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello

(29)

e le caratteristiche della doppia assenza che coinvolgono il suo essere.

Analizzando il testo di Abdelmalek Sayad ci possiamo rendere conto di quanto, al giorno d’oggi, la situazione non sia cambiata dai fatti della guerra d’Algeria e il

conseguente processo di decolonizzazione.

Mettiamoci per un attimo nei panni di un migrante: scappiamo dalla nostra terra di nascita, decidiamo di rischiare la nostra vita e quella dei nostri padri, delle nostre madri e dei nostri figli per raggiungere una terra lontana (attraversando quelle cornici metaforiche di cui parlerò più avanti), tutto questo per poi essere considerati una minaccia semplicemente perché diversi, altri rispetto a un tutto, rispetto alla maggioranza.

(30)

3 SISTEMI-MONDO, CAVERNE

E CONTESTI: PLATONE, VICO

E WALLERSTEIN

Gli spagnoli si sono insinuati, senza dubbio, con grande audacia, in questa nuova parte del mondo, di cui non avevano mai sentito parlare in precedenza e in cui, malgrado il volere del loro sovrano, commisero crimini mostruosi e inauditi. Hanno ucciso migliaia di uomini, bruciato i loro villaggi, si sono impadroniti del loro bestiame, hanno distrutto le loro città e commesso crimini abominevoli senza alcuna particolare giustificazione verificabile, con atroce crudeltà contro questa povera gente. É davvero possibile sostenere che questi uomini sanguinari, avidi, crudeli e sediziosi conoscano Dio, al cui culto esortano gli indiani?

Bartolomé de Las Casas, Brevísima relación de la destrucción de las

Indias

Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!

Friedrich W. Nietzsche, La gaia scienza. Gli Idilli di Messina

Non appena io mi muovo in direzione dell’uscita, anche se da me ancora la separano gallerie e spiazzi, ho subito la sensazione di finire in un’atmosfera densa di pericoli, a volte mi pare di sentirmi il pelame come se stessi restando lì con la mia carne nuda e cruda e come se in quell’istante venissi accolto dalle urla dei miei nemici. Certo, a provocarmi simili sensazioni è l’uscita stessa, il venir meno della protezione domestica.

(31)

3.1 Sistemi-mondo e interventi militari

La teoria del sistema-mondo tenta di spiegare i

cambiamenti sociali, politici ed economici

che hanno influenzato il mondo.

Pubblicata nel 1987 da Immanuel Wallerstein, sociologo ed economista statunitense contemporaneo, essa interpreta la società in chiave neo-marxista: questa teoria ritiene che l'elemento base del mondo sia l'economia, intesa come rapporti economici, sociali e umani. Questi sono gli interpreti della corrente storiografica moderna e ne influenzano indirettamente il corso. Si tratterebbe di un insieme di meccanismi che ridistribuiscono le risorse economiche del pianeta a partire da un centro verso delle periferie. Il centro del sistema sono i paesi più sviluppati e la periferia quelli meno sviluppati. Mentre il centro sviluppa la ricchezza attraverso l’industrializzazione, la periferia acquista importanza soltanto come luogo delle materie prime. In questo meccanismo di distribuzione ineguale il mercato e le sue leggi diventa il mezzo con il quale il centro sfrutta a suo vantaggio la periferia.

Il primo sistema mondo sarebbe sorto, per Wallerstein, nel periodo che va dal 1492 al 1640 (dalla scoperta delle Americhe alla Rivoluzione Inglese). Per la prima volta si sarebbe creato in questa epoca un << sistema sociale con confini, strutture, gruppi, regole di legittimazione e di coerenza, la cui vita è fatta di forze contrastanti che lo tengono insieme, da tensioni e

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lacerazioni provocate dagli interessi dei vari gruppi che in modo eterno tentano di rimodellarlo a proprio favore. Il Sistema Mondo ha le caratteristiche di un organismo con un ciclo di vita nel quale alcune caratteristiche rimangono immutate mentre altre rimangono stabili. Le sue strutture possono definirsi ed essere in tempi diversi forti o deboli a seconda della logica interna del suo funzionamento >> 25.

Fatte le dovute anticipazioni, riguardo all’argomento principale della tesi ciò che più ci interessa è il motivo per cui Wallerstein abbia parlato di sistemi-mondo e abbia offerto una sua interpretazione, ovvero il legame tra la suddetta teoria e il problema dell’intervento attivo dei paesi che fanno parte del centro nei paesi che fanno invece parte della periferia.

Quello che emerge dalla lettura dei testi del sociologo statunitense è che << La storia del sistema-mondo moderno è stata in larga parte la storia dell’espansione

degli Stati e dei popoli europei nel resto del mondo >> 26. Dalle parole di Wallerstein si capisce

come i sistemi-mondo, con tutte le loro implicazioni, si siano formati di pari passo ai fenomeni di espansione e di colonizzazione dei paesi più sviluppati a carico dei paesi più poveri. Il fatto è che molte volte le potenze mondiali hanno utilizzato i moventi più disparati per soddisfare la loro volontà di conquista e di potere.

25

Wallerstein I., The Modern World System, Academic Press, 1974, cit., pp. 347-357)

26

Wallerstein I., La retorica del potere. Critica all’universalismo europeo, Fazi Editore, Roma, 2005, cit., p. 5

(33)

La ricerca di benessere economico (o meglio di ulteriore benessere economico) funge da motivazione per continui interventi attivi che poi verranno giustificati dai diretti interessati che si sentono in diritto di agire direttamente.

Come possiamo giustificare l’intervento?

Proviamo a seguire il ragionamento di Wallerstein attraverso l’esempio dell’intervento militare statunitense in Iraq. Molte volte il primo movente che spinge una nazione a invaderne un’altra è la volontà di difesa dei cittadini nei confronti delle violenze che subiscono in patria: << (Q) l’argomento più solido a favore dell’intervento fu la difesa delle persone innocenti: i musulmani bosniaci innocenti che venivano stuprati e massacrati; i kosovari innocenti che venivano allontanati dalle loro terre ed espulsi oltre confine; i curdi e gli sciiti

innocenti oppressi e uccisi da Saddam Hussein (Q) >> 27. Con questi esempi Wallerstein vuole mettere

in evidenza come l’intervento sembra essere legato alla volontà di fermare le azioni violente già presenti nei territori: in pratica fermare la violenza con ulteriore violenza. Continua Wallerstein << (Q) Certo, Saddam Hussein e il partito Baath non sono più al potere e non possono perseverare in quel genere di azioni oppressive compiute in precedenza. E tuttavia il paese ha patito un gran numero di conseguenze negative, assenti prima dell’intervento esterno. Il benessere economico dei cittadini si è probabilmente ridotto. E la

27

(34)

violenza quotidiana è aumentata enormemente. Il paese è diventato un rifugio proprio per quel genere di

militanti islamici contro cui l’intervento era

presumibilmente diretto, e che in precedenza non erano in realtà in grado di operare nel loro paese. (Q) Almeno centomila iracheni sono stati uccisi, e un numero assai maggiore di feriti gravi, a partire dall’invasione >> 28: queste parole esprimono al meglio l’idea, che mi sento di condividere in pieno, secondo cui spesso sia proprio l’intervento in sé a causare una serie di reazioni a catena che possono compromettere o peggiorare una situazione già pesantemente critica. Utilizzando questa motivazione i danni risultano essere maggiori rispetto ai miglioramenti. Spesso e volentieri l’intervento militare aggrava una situazione già in via di compromissione. Prendiamo come esempio i giorni nostri. Siria, Libia e medio oriente in generale sono le zone del mondo dalle quali la maggior parte dei migranti giunge fino alle nostre coste. Perché sono qui? Perché i “diversi” arrivano e reclamano una vita non più da ultimi della terra? Precedentemente, citando Abdelmalek Sayad, ho sottolineato come uno dei problemi principali del fenomeno immigrazione-emigrazione sia proprio il fatto di non porsi domande sul perché esistano e sussistano determinati fenomeni. In un periodo storico in cui il nostro tessuto sociale e politico stenta a fronteggiare il fenomeno migratorio, sembra giunta l’ora di porsi alcune domande. Gli ultimi della terra scappano da

28

(35)

guerra, malattie, distruzione e morte: tutte conseguenze inevitabili di guerre e interventi militari.

Diritto di intervento. Chi si sente in diritto morale di intervenire? La responsabilità non può non cadere sui più “forti”, su coloro che hanno maggiore autorevolezza

politica (oltreché possibilità economiche):

<< La questione relativa a chi ha il diritto di intervenire va al cuore della struttura politica e morale del sistema-mondo. L’intervento è di fatto un diritto di cui i più forti si appropriano. (Q) Chi interviene, una volta sfidato, fa sempre ricorso a una giustificazione morale: il diritto naturale e il cristianesimo nel XVI secolo, la missione civilizzatrice del XIX secolo, i diritti umani e la democrazia alla fine del XX e nel XI secolo >> 29. Giustificazione morale dunque, come se veramente la questione sociale di determinati paesi stesse veramente a cuore. Magari lo è, magari vedo il male anche quando esso non c’è, ma sono sicuro del fatto che l’intervento militare, o meglio determinate tipologie di intervento militare, non può essere la risposta; sicuramente è la risposta più immediata, la via più facile, ma non potrà mai essere la soluzione risolutoria.

29

(36)

3.1.1 Diritto all’intervento: scontro Bartolomé de Las Casas / Juan Ginés de Sepulveda

A proposito del sentirsi in diritto di intervenire in determinati contesti, emblematico è lo scontro tra l’umanista Juan Ginés de Sepulveda e il vescovo Bartolomé de Las Casas, ottimamente focalizzato da Immanuel Wallerstein in “La retorica del potere” e da Tzvetan Todorov in “La conquista dell’America. Il problema dell’ <<altro>>”.

Las Casas, vescovo spagnolo vissuto dal 1484 al 1566, è inizialmente favorevole alla encomienda, istituzione vigente fin dal Medioevo nei territori iberici e introdotta nelle colonie d’America all’indomani della loro conquista avvenuta nel XVI secolo: in base al sistema dell’encomienda gli abitanti di un villaggio indigeno, o gruppo di villaggi, vengono affidati a un colono spagnolo, l’ encomendero, cui spetta il compito di proteggerli e provvedere alla loro cristianizzazione. Siamo davanti a una istituzione figlia del colonialismo. Ma nei primi anni del 1500 Las Casas, cui è stato dato il compito di portare il cristianesimo presso le popolazioni indigene (una sorta di moderna esportazione della democrazia, tanto cara oggi ai popoli del “nord” del mondo), rendendosi conto dei comportamenti che gli occidentali riservano agli indios cambia radicalmente idea, torna in Spagna e decide di schierarsi contro questo sistema.

(37)

Lo scrittore Juan Ginés de Sepulveda (1494-1573), polemizzerà e non poco con la presa di posizione del vescovo spagnolo.

Sepulveda sostiene l’importanza e la legittimità delle occupazioni spagnole e la necessità della conquista per portare l’evangelizzazione nelle Americhe: per farsi un’idea di che personaggio sia stato basta porre l’accento sul titolo della sua prima opera, “Democrate secondo, ovvero sulle giuste cause di guerra” (1544). Le due tesi filosoficamente più rilevanti che Sepulveda porta a favore del suo controverso punto di vista sono quelle secondo cui << (gli indigeni) fossero barbari, stolti, analfabeti e incolti, bestie del tutto incapaci di apprendere qualsiasi cosa di diverso da abilità meccaniche, pieni di vizi, crudeli e di un genere tale da consigliare che siano governati da altri >> e << gli indiani devono accettare il giogo spagnolo, che lo vogliano o meno, come correzione e punizione dei crimini contro la legge divina e il diritto naturale di cui si sono macchiati, soprattutto l’idolatria e l’empia usanza dei sacrifici >> 30.

Le questioni messe in luce dalle tesi di Sepulveda sono due e sono legate tra di loro:

1) volontà di punire chi si comporta da barbaro

2) è giusto che l’intervento si manifesti come correzione Nel primo caso, è interessante la risposta di Las Casas. Il vescovo pone l’accento sull’etimologia della parola barbaro (la parola onomatopeica con cui gli antichi greci

30

(38)

indicavano gli stranieri, letteralmente i "balbuzienti", cioè coloro che non parlavano greco, e quindi non erano di cultura greca): questo termine può avere diversi significati, ma se viene utilizzato come aggettivo di chi si comporta in maniera selvaggia, allora è possibile trovare popoli del genere in ogni parte del mondo e non solo nelle zone più povere. Las Casas si oppone qui alla generalizzazione del termine barbaro nei confronti di un intero popolo: non tutte le persone che fanno parte di un popolo sono barbare; barbari possono essere comportamenti propri di una minoranza di persone. L’atteggiamento in questione non riguarda sicuramente la totalità del popolo.

È notevole l’assonanza coi giorni nostri: la

generalizzazione, il pensare “sono tutti delinquenti e terroristi” è una tendenza oggi fin troppo sviluppata. È proprio questa generalizzazione, molte volte insinuata tra le pagine dei giornali o nei servizi televisivi, che da adito a prese di posizione radicali da parte dell’opinione pubblica: se un pazzo criminale si fa saltare in aria inneggiando ad Allah non significa che tutti coloro che professano lo stesso credo religioso siano pronti a fare altrettanto.

Nella logica classica << la generalizzazione, insieme con l’astrazione, è alla base della formazione del concetto. Movendo da un certo numero di oggetti particolari, il pensiero ritiene solo le note comuni a tutti gli oggetti considerati e trascura invece quelle che compaiono solo in alcuni: questo è il processo di

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astrazione. Se poi il pensiero attribuisce idealmente queste note a tutti gli oggetti, passati, presenti e futuri, nei quali presume che esse siano state, siano o saranno presenti, si ha la generalizzazione (Q) >> 31. Questa definizione parla di note comuni: non possiamo attribuire note comuni a un intero popolo se le azioni incriminate sono attribuibili a una minoranza dello stesso popolo. Come posiamo pensare che la colpa di una minoranza possa coinvolgere la totalità delle persone?

Rimanendo all’attualità, come esempi più empi di una generalizzazione sconsiderata possono essere citati sia il titolo in prima pagina che la testata giornalistica di “Libero” dedica all’indomani dell’attentato alla sede del giornale satirico francese Charlie Hebdo, sia quello che lo stesso giornale ha il coraggio di pubblicare il giorno dopo gli attacchi terroristici di Parigi del 13 novembre 2015: “Questo è l’Islam” e “Bastardi islamici”.

In entrambi i casi alcune delle vittime accertate degli scellerati atti terroristici sono civili appartenenti proprio all’Islam, senza parlare dei vari attentati che si susseguono in paesi come Siria e Libia dove i civili coinvolti sono islamici. Alla luce di tutto questo mi chiedo come sia possibile pensare che tutti siano colpevoli.

Ma veniamo ora al secondo punto sottolineato da Las Casas, ovvero quello della correzione. Per Sepulveda sarebbe lecito intervenire militarmente in alcune regioni

31AA.VV., Il dizionario di filosofia. Gli autori, le correnti, i concetti le opere, BUR, Milano, 1999

(40)

del mondo in quanto l’intervento servirebbe da correttivo nei confronti di atteggiamenti ritenuti contro natura e contro la legge divina. In queste parole possiamo notare la presunzione e la prepotenza che molto spesso accompagna le potenze militari e politiche più influenti. La questione principale è questa: chi siamo noi occidentali per sentirci in grado di correggere gli altri? La nostra storia è caratterizzata da azioni coloniali e occupazioni, basti pensare all’occupazione spagnola delle Indie orientali, il vasto impero coloniale francese (che comprende la sanguinosa invasione di Algeri) e le numerose guerre portate avanti dalla coalizione occidentale che hanno provocato milioni e milioni di vittime civili, oltreché favorire il processo immigrazione-emigrazione (Iraq, Afghanistan e, più recentemente, Siria). Chi possiede un curriculum come questo tutto può pensare tranne che avere la presunzione di poter correggere qualcun’altro, ne tantomeno insegnare ed esportare la civiltà.

Per Las Casas la prima cosa da evitare è quella di aggiungere del danno a chi, già di per sé, non riesce a vigere sulla propria sopravvivenza, una sorta di rivisitazione del primum non nocere ippocratico, secondo cui i medici, per prima cosa, non devono aggravare la condizione dei loro pazienti 32.

Nel testamento del 1559 Las Casas scrive:

<< Credo che, a causa di queste opere empie, scellerate e ignominiose, perpetrate in modo così

32Vedi il Giuramento di Ippocrate in Ippocrate, Testi di medicina greca, (a cura di) Vincenzo di Benedetto, BUR Edizioni, Milano, 1983

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ingiusto, barbaro e tirannico, Dio riserverà sulla Spagna la sua ira e il suo furore, giacché tutta la Spagna si è presa la sua parte, grande o piccola, delle sanguinose ricchezze usurpate a prezzo di tante rovine e tanti massacri >> 33. Le parole evidenziano il punto di vista di Las Casas nei confronti dei conquistadores spagnoli, ma possono essere estese a tutto il mondo occidentale: trascurando la figura di Dio come ente vendicatore, tutti noi oggi stiamo pagando le azioni coloniali e le numerose guerre scatenate nelle più disparate regioni del mondo. Perché la guerra non potrà mai essere una risposta soddisfacente. Citando il poeta e religioso David Maria Turoldo in un intervista televisiva del 1991, << ogni guerra è sempre un atto contro la ragione e il ricorso alla guerra è sempre una sconfitta della ragione. Anzi, io credo che bisognerà cambiare perfino la categoria culturale: non ci saranno più né vittoriosi né vinti, ma saremo tutti sconfitti. Perché, appunto, sarà la forza bruta che vince su qualunque cosa. È tutta l'umanità a perdere. Io, difatti, non sono qui a mettermi contro qualcuno, sono qui a mettermi soltanto in favore della pace, perché solo la pace è il trionfo della ragione >>.

33

Dal testamento del 1559 di Bartolomé de Las Casas, cit. in Todorov T., La

conquista dell’America. Il problema dell’ << altro >>, Einaudi Editore, Torino,

(42)

3.2 Migranti e ricorsi storici

Il fenomeno dell’immigrazione non è nato ai giorni nostri. Basti pensare ai grandi processi migratori che hanno investito il nostro paese tra il XIX e il XX secolo.

Se prendiamo in considerazione l’attualità, la

condizione politico-economica europea non aiuta certamente ad acuire il fenomeno migratorio, al contrario lo determina e lo fomenta.

Le continue guerre e tutto ciò che ne consegue (miseria, povertà, malattie e disperazione) favoriscono senza alcuna tregua i cosiddetti “viaggi della speranza”, viaggi che molte volte, troppe volte, finiscono in tragedia: di morti nel Mar Mediterraneo se ne contano a migliaia ogni anno.

E se i fenomeni migratori fossero intesi come ricorsi storici ?

Gianbattista Vico, nella “Scienza Nuova” 34, traccia la sua idea di storia, divisibile in tre differenti età: età degli dei, in cui gli uomini, affidandosi esclusivamente ai propri sensi e alla loro fantasia, interpretano il mondo

come un gigantesco organismo di forze

incommensurabili; età degli eroi, in cui la società inizia a stratificarsi: un gruppo si impone con la forza sugli altri, arrogandosi quelle qualità che prima spettavano agli dei; ed età degli uomini, in cui tutte le credenze precedenti ricevono un fondamento e una spiegazione razionale e si impone il principio dell’uguaglianza degli

34

(43)

uomini di fronte alla legge, che è la garanzia sia delle repubbliche popolari sia delle monarchie.

Per Vico l’uomo è il creatore, attraverso la storia, della civiltà umana tutta. Civiltà: proprio ciò che oggi manca, assieme all’empatia, nell’osservare ciò che spinge i migranti a partire, a passare oltre. La scienza nuova che auspica il filosofo di Napoli è la scienza migliore di tutte, in quanto è creata direttamente dall’uomo, dunque ha per oggetto una realtà più vera e concreta.

Dopo un dovuto sunto di parte del pensiero di Gianbattista Vico, torniamo all’argomento principale: i fenomeni migratori intesi come corsi e ricorsi storici. Come riporta Paolo Cristofolini nella sua introduzione alla “Scienza nuova” 35, Vico sostiene che alcuni accadimenti si ripetono con le medesime modalità, anche a distanza di tempo, e tutto ciò avviene non per puro caso, ma in base ad un preciso disegno pensato e messo in atto dalla provvidenza.

Lasciando da parte l’ambito provvidenziale, quello che colpisce la mia attenzione è il punto secondo cui si ha una sorta di ripetizione di eventi, il tutto nella stessa precedente modalità.

Secondo il sottoscritto il fenomeno migratorio può essere letto anche dal punto di vista vichiano. Oggi stiamo assistendo a situazioni, tumulti, reazioni da parte di una parte del popolo mondiale di fronte ad un periodo che ha, per così dire, tirato troppo la corda per molte categorie di persone. L’oppressione e la mancanza di

35

Cristofolini P., Scienza Nuova. Introduzione alla lettura, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1995

(44)

ciò che è da considerarsi basilare per il semplice vivere dell’essere umano, la mancanza e il calpestio di valori come il rispetto dell’altro, i diritti umani, la libertà d’espressione, la ricerca della verità, il bisogno del non percepire più il vivere come un sopravvivere, ha condotto sempre più gli esseri ad una sensazione frustrante di oppressione a tutti i livelli e al bisogno di reagire. È proprio tutto questo, unito al sogno di una vita migliore, che spinge migliaia e migliaia di persone a fuggire dalla propria terra natia. Come non possiamo trovare delle analogie, ad esempio, con la cosiddetta

grande migrazione 36 italiana a cavallo tra la seconda

metà e la fine del 1885?

<< Cosa intende per nazione, signor Ministro? Una massa di infelici? Piantiamo grano ma non mangiamo pane bianco. Coltiviamo la vite, ma non beviamo il vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo carne. Ciò nonostante voi ci consigliate di non abbandonare la nostra Patria. Ma è una Patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro? >> 37: queste parole pronunciate anni e anni fa da un emigrato italiano hanno lo stesso identico valore anche nell’attualità. Oggi potrebbero essere pronunciate da un qualsiasi

36

La grande emigrazione ha avuto come punto d'origine la diffusa povertà di vaste aree dell'Italia e la voglia di riscatto d'intere fasce della popolazione, la cui partenza significò per lo Stato e la società italiana un forte alleggerimento della "pressione demografica". Essa ebbe come destinazioni soprattutto l'America del Sud e l'America del Nord (in particolare Argentina, Stati Uniti d'America e Brasile, paesi con grandi estensioni di terre non sfruttate e necessità di manodopera) e, in Europa, la Francia. Ebbe modalità e forme diverse a seconda dei paesi di destinazione, fonte www.wikipedia.it

37

Risposta di un emigrante italiano a un ministro italiano, riportata da Inni C.,

Homens sem paz, Civilização Brasileira, 1972, ed esposta nel Memoriale

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