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Sistemi-mondo e interventi militari

1 INTRODUZIONE

3.1 Sistemi-mondo e interventi militari

La teoria del sistema-mondo tenta di spiegare i

cambiamenti sociali, politici ed economici

che hanno influenzato il mondo.

Pubblicata nel 1987 da Immanuel Wallerstein, sociologo ed economista statunitense contemporaneo, essa interpreta la società in chiave neo-marxista: questa teoria ritiene che l'elemento base del mondo sia l'economia, intesa come rapporti economici, sociali e umani. Questi sono gli interpreti della corrente storiografica moderna e ne influenzano indirettamente il corso. Si tratterebbe di un insieme di meccanismi che ridistribuiscono le risorse economiche del pianeta a partire da un centro verso delle periferie. Il centro del sistema sono i paesi più sviluppati e la periferia quelli meno sviluppati. Mentre il centro sviluppa la ricchezza attraverso l’industrializzazione, la periferia acquista importanza soltanto come luogo delle materie prime. In questo meccanismo di distribuzione ineguale il mercato e le sue leggi diventa il mezzo con il quale il centro sfrutta a suo vantaggio la periferia.

Il primo sistema mondo sarebbe sorto, per Wallerstein, nel periodo che va dal 1492 al 1640 (dalla scoperta delle Americhe alla Rivoluzione Inglese). Per la prima volta si sarebbe creato in questa epoca un << sistema sociale con confini, strutture, gruppi, regole di legittimazione e di coerenza, la cui vita è fatta di forze contrastanti che lo tengono insieme, da tensioni e

lacerazioni provocate dagli interessi dei vari gruppi che in modo eterno tentano di rimodellarlo a proprio favore. Il Sistema Mondo ha le caratteristiche di un organismo con un ciclo di vita nel quale alcune caratteristiche rimangono immutate mentre altre rimangono stabili. Le sue strutture possono definirsi ed essere in tempi diversi forti o deboli a seconda della logica interna del suo funzionamento >> 25.

Fatte le dovute anticipazioni, riguardo all’argomento principale della tesi ciò che più ci interessa è il motivo per cui Wallerstein abbia parlato di sistemi-mondo e abbia offerto una sua interpretazione, ovvero il legame tra la suddetta teoria e il problema dell’intervento attivo dei paesi che fanno parte del centro nei paesi che fanno invece parte della periferia.

Quello che emerge dalla lettura dei testi del sociologo statunitense è che << La storia del sistema-mondo moderno è stata in larga parte la storia dell’espansione

degli Stati e dei popoli europei nel resto del mondo >> 26. Dalle parole di Wallerstein si capisce

come i sistemi-mondo, con tutte le loro implicazioni, si siano formati di pari passo ai fenomeni di espansione e di colonizzazione dei paesi più sviluppati a carico dei paesi più poveri. Il fatto è che molte volte le potenze mondiali hanno utilizzato i moventi più disparati per soddisfare la loro volontà di conquista e di potere.

25

Wallerstein I., The Modern World System, Academic Press, 1974, cit., pp. 347-357)

26

Wallerstein I., La retorica del potere. Critica all’universalismo europeo, Fazi Editore, Roma, 2005, cit., p. 5

La ricerca di benessere economico (o meglio di ulteriore benessere economico) funge da motivazione per continui interventi attivi che poi verranno giustificati dai diretti interessati che si sentono in diritto di agire direttamente.

Come possiamo giustificare l’intervento?

Proviamo a seguire il ragionamento di Wallerstein attraverso l’esempio dell’intervento militare statunitense in Iraq. Molte volte il primo movente che spinge una nazione a invaderne un’altra è la volontà di difesa dei cittadini nei confronti delle violenze che subiscono in patria: << (Q) l’argomento più solido a favore dell’intervento fu la difesa delle persone innocenti: i musulmani bosniaci innocenti che venivano stuprati e massacrati; i kosovari innocenti che venivano allontanati dalle loro terre ed espulsi oltre confine; i curdi e gli sciiti

innocenti oppressi e uccisi da Saddam Hussein (Q) >> 27. Con questi esempi Wallerstein vuole mettere

in evidenza come l’intervento sembra essere legato alla volontà di fermare le azioni violente già presenti nei territori: in pratica fermare la violenza con ulteriore violenza. Continua Wallerstein << (Q) Certo, Saddam Hussein e il partito Baath non sono più al potere e non possono perseverare in quel genere di azioni oppressive compiute in precedenza. E tuttavia il paese ha patito un gran numero di conseguenze negative, assenti prima dell’intervento esterno. Il benessere economico dei cittadini si è probabilmente ridotto. E la

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violenza quotidiana è aumentata enormemente. Il paese è diventato un rifugio proprio per quel genere di

militanti islamici contro cui l’intervento era

presumibilmente diretto, e che in precedenza non erano in realtà in grado di operare nel loro paese. (Q) Almeno centomila iracheni sono stati uccisi, e un numero assai maggiore di feriti gravi, a partire dall’invasione >> 28: queste parole esprimono al meglio l’idea, che mi sento di condividere in pieno, secondo cui spesso sia proprio l’intervento in sé a causare una serie di reazioni a catena che possono compromettere o peggiorare una situazione già pesantemente critica. Utilizzando questa motivazione i danni risultano essere maggiori rispetto ai miglioramenti. Spesso e volentieri l’intervento militare aggrava una situazione già in via di compromissione. Prendiamo come esempio i giorni nostri. Siria, Libia e medio oriente in generale sono le zone del mondo dalle quali la maggior parte dei migranti giunge fino alle nostre coste. Perché sono qui? Perché i “diversi” arrivano e reclamano una vita non più da ultimi della terra? Precedentemente, citando Abdelmalek Sayad, ho sottolineato come uno dei problemi principali del fenomeno immigrazione-emigrazione sia proprio il fatto di non porsi domande sul perché esistano e sussistano determinati fenomeni. In un periodo storico in cui il nostro tessuto sociale e politico stenta a fronteggiare il fenomeno migratorio, sembra giunta l’ora di porsi alcune domande. Gli ultimi della terra scappano da

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guerra, malattie, distruzione e morte: tutte conseguenze inevitabili di guerre e interventi militari.

Diritto di intervento. Chi si sente in diritto morale di intervenire? La responsabilità non può non cadere sui più “forti”, su coloro che hanno maggiore autorevolezza

politica (oltreché possibilità economiche):

<< La questione relativa a chi ha il diritto di intervenire va al cuore della struttura politica e morale del sistema- mondo. L’intervento è di fatto un diritto di cui i più forti si appropriano. (Q) Chi interviene, una volta sfidato, fa sempre ricorso a una giustificazione morale: il diritto naturale e il cristianesimo nel XVI secolo, la missione civilizzatrice del XIX secolo, i diritti umani e la democrazia alla fine del XX e nel XI secolo >> 29. Giustificazione morale dunque, come se veramente la questione sociale di determinati paesi stesse veramente a cuore. Magari lo è, magari vedo il male anche quando esso non c’è, ma sono sicuro del fatto che l’intervento militare, o meglio determinate tipologie di intervento militare, non può essere la risposta; sicuramente è la risposta più immediata, la via più facile, ma non potrà mai essere la soluzione risolutoria.

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3.1.1 Diritto all’intervento: scontro Bartolomé de Las Casas / Juan Ginés de Sepulveda

A proposito del sentirsi in diritto di intervenire in determinati contesti, emblematico è lo scontro tra l’umanista Juan Ginés de Sepulveda e il vescovo Bartolomé de Las Casas, ottimamente focalizzato da Immanuel Wallerstein in “La retorica del potere” e da Tzvetan Todorov in “La conquista dell’America. Il problema dell’ <<altro>>”.

Las Casas, vescovo spagnolo vissuto dal 1484 al 1566, è inizialmente favorevole alla encomienda, istituzione vigente fin dal Medioevo nei territori iberici e introdotta nelle colonie d’America all’indomani della loro conquista avvenuta nel XVI secolo: in base al sistema dell’encomienda gli abitanti di un villaggio indigeno, o gruppo di villaggi, vengono affidati a un colono spagnolo, l’ encomendero, cui spetta il compito di proteggerli e provvedere alla loro cristianizzazione. Siamo davanti a una istituzione figlia del colonialismo. Ma nei primi anni del 1500 Las Casas, cui è stato dato il compito di portare il cristianesimo presso le popolazioni indigene (una sorta di moderna esportazione della democrazia, tanto cara oggi ai popoli del “nord” del mondo), rendendosi conto dei comportamenti che gli occidentali riservano agli indios cambia radicalmente idea, torna in Spagna e decide di schierarsi contro questo sistema.

Lo scrittore Juan Ginés de Sepulveda (1494-1573), polemizzerà e non poco con la presa di posizione del vescovo spagnolo.

Sepulveda sostiene l’importanza e la legittimità delle occupazioni spagnole e la necessità della conquista per portare l’evangelizzazione nelle Americhe: per farsi un’idea di che personaggio sia stato basta porre l’accento sul titolo della sua prima opera, “Democrate secondo, ovvero sulle giuste cause di guerra” (1544). Le due tesi filosoficamente più rilevanti che Sepulveda porta a favore del suo controverso punto di vista sono quelle secondo cui << (gli indigeni) fossero barbari, stolti, analfabeti e incolti, bestie del tutto incapaci di apprendere qualsiasi cosa di diverso da abilità meccaniche, pieni di vizi, crudeli e di un genere tale da consigliare che siano governati da altri >> e << gli indiani devono accettare il giogo spagnolo, che lo vogliano o meno, come correzione e punizione dei crimini contro la legge divina e il diritto naturale di cui si sono macchiati, soprattutto l’idolatria e l’empia usanza dei sacrifici >> 30.

Le questioni messe in luce dalle tesi di Sepulveda sono due e sono legate tra di loro:

1) volontà di punire chi si comporta da barbaro

2) è giusto che l’intervento si manifesti come correzione Nel primo caso, è interessante la risposta di Las Casas. Il vescovo pone l’accento sull’etimologia della parola barbaro (la parola onomatopeica con cui gli antichi greci

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indicavano gli stranieri, letteralmente i "balbuzienti", cioè coloro che non parlavano greco, e quindi non erano di cultura greca): questo termine può avere diversi significati, ma se viene utilizzato come aggettivo di chi si comporta in maniera selvaggia, allora è possibile trovare popoli del genere in ogni parte del mondo e non solo nelle zone più povere. Las Casas si oppone qui alla generalizzazione del termine barbaro nei confronti di un intero popolo: non tutte le persone che fanno parte di un popolo sono barbare; barbari possono essere comportamenti propri di una minoranza di persone. L’atteggiamento in questione non riguarda sicuramente la totalità del popolo.

È notevole l’assonanza coi giorni nostri: la

generalizzazione, il pensare “sono tutti delinquenti e terroristi” è una tendenza oggi fin troppo sviluppata. È proprio questa generalizzazione, molte volte insinuata tra le pagine dei giornali o nei servizi televisivi, che da adito a prese di posizione radicali da parte dell’opinione pubblica: se un pazzo criminale si fa saltare in aria inneggiando ad Allah non significa che tutti coloro che professano lo stesso credo religioso siano pronti a fare altrettanto.

Nella logica classica << la generalizzazione, insieme con l’astrazione, è alla base della formazione del concetto. Movendo da un certo numero di oggetti particolari, il pensiero ritiene solo le note comuni a tutti gli oggetti considerati e trascura invece quelle che compaiono solo in alcuni: questo è il processo di

astrazione. Se poi il pensiero attribuisce idealmente queste note a tutti gli oggetti, passati, presenti e futuri, nei quali presume che esse siano state, siano o saranno presenti, si ha la generalizzazione (Q) >> 31. Questa definizione parla di note comuni: non possiamo attribuire note comuni a un intero popolo se le azioni incriminate sono attribuibili a una minoranza dello stesso popolo. Come posiamo pensare che la colpa di una minoranza possa coinvolgere la totalità delle persone?

Rimanendo all’attualità, come esempi più empi di una generalizzazione sconsiderata possono essere citati sia il titolo in prima pagina che la testata giornalistica di “Libero” dedica all’indomani dell’attentato alla sede del giornale satirico francese Charlie Hebdo, sia quello che lo stesso giornale ha il coraggio di pubblicare il giorno dopo gli attacchi terroristici di Parigi del 13 novembre 2015: “Questo è l’Islam” e “Bastardi islamici”.

In entrambi i casi alcune delle vittime accertate degli scellerati atti terroristici sono civili appartenenti proprio all’Islam, senza parlare dei vari attentati che si susseguono in paesi come Siria e Libia dove i civili coinvolti sono islamici. Alla luce di tutto questo mi chiedo come sia possibile pensare che tutti siano colpevoli.

Ma veniamo ora al secondo punto sottolineato da Las Casas, ovvero quello della correzione. Per Sepulveda sarebbe lecito intervenire militarmente in alcune regioni

31AA.VV., Il dizionario di filosofia. Gli autori, le correnti, i concetti le opere, BUR, Milano, 1999

del mondo in quanto l’intervento servirebbe da correttivo nei confronti di atteggiamenti ritenuti contro natura e contro la legge divina. In queste parole possiamo notare la presunzione e la prepotenza che molto spesso accompagna le potenze militari e politiche più influenti. La questione principale è questa: chi siamo noi occidentali per sentirci in grado di correggere gli altri? La nostra storia è caratterizzata da azioni coloniali e occupazioni, basti pensare all’occupazione spagnola delle Indie orientali, il vasto impero coloniale francese (che comprende la sanguinosa invasione di Algeri) e le numerose guerre portate avanti dalla coalizione occidentale che hanno provocato milioni e milioni di vittime civili, oltreché favorire il processo immigrazione- emigrazione (Iraq, Afghanistan e, più recentemente, Siria). Chi possiede un curriculum come questo tutto può pensare tranne che avere la presunzione di poter correggere qualcun’altro, ne tantomeno insegnare ed esportare la civiltà.

Per Las Casas la prima cosa da evitare è quella di aggiungere del danno a chi, già di per sé, non riesce a vigere sulla propria sopravvivenza, una sorta di rivisitazione del primum non nocere ippocratico, secondo cui i medici, per prima cosa, non devono aggravare la condizione dei loro pazienti 32.

Nel testamento del 1559 Las Casas scrive:

<< Credo che, a causa di queste opere empie, scellerate e ignominiose, perpetrate in modo così

32Vedi il Giuramento di Ippocrate in Ippocrate, Testi di medicina greca, (a cura di) Vincenzo di Benedetto, BUR Edizioni, Milano, 1983

ingiusto, barbaro e tirannico, Dio riserverà sulla Spagna la sua ira e il suo furore, giacché tutta la Spagna si è presa la sua parte, grande o piccola, delle sanguinose ricchezze usurpate a prezzo di tante rovine e tanti massacri >> 33. Le parole evidenziano il punto di vista di Las Casas nei confronti dei conquistadores spagnoli, ma possono essere estese a tutto il mondo occidentale: trascurando la figura di Dio come ente vendicatore, tutti noi oggi stiamo pagando le azioni coloniali e le numerose guerre scatenate nelle più disparate regioni del mondo. Perché la guerra non potrà mai essere una risposta soddisfacente. Citando il poeta e religioso David Maria Turoldo in un intervista televisiva del 1991, << ogni guerra è sempre un atto contro la ragione e il ricorso alla guerra è sempre una sconfitta della ragione. Anzi, io credo che bisognerà cambiare perfino la categoria culturale: non ci saranno più né vittoriosi né vinti, ma saremo tutti sconfitti. Perché, appunto, sarà la forza bruta che vince su qualunque cosa. È tutta l'umanità a perdere. Io, difatti, non sono qui a mettermi contro qualcuno, sono qui a mettermi soltanto in favore della pace, perché solo la pace è il trionfo della ragione >>.

33

Dal testamento del 1559 di Bartolomé de Las Casas, cit. in Todorov T., La

conquista dell’America. Il problema dell’ << altro >>, Einaudi Editore, Torino,