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Il retroscena culturale della concezione platonica di giustizia

Capitolo 4 – L'alternativa platonica La definizione di giustizia

2. Il retroscena culturale della concezione platonica di giustizia

4. Le conseguenze della definizione platonica

4.1. Antidemocraticità

4.2. Organicismo e scarsa considerazione per libertà ed individualità 4.3. Stato di diritto ed irrealizzabilità del progetto platonico

5. Conclusione

1. L'insoddisfazione di Platone e la sua proposta: la Repubblica e la definizione di giustizia come specializzazione di funzioni

Nel capitolo precedente, abbiamo analizzato da un lato l'atteggiamento di Platone nei confronti della democrazia e dall'altro quello rispetto all'aristocrazia.

Molti autori (Fite, Crossman, Farrington, Winspear, Russell) danno grande importanza alle critiche platoniche nei confronti dei regimi democratici e di conseguenza valutano il progetto politico da lui elaborato come aristocratico ed autoritario. Al contrario, alcuni (Field) tendono a rivedere simili conclusioni, considerandole affrettate ed invitano ad una più adeguata collocazione del pensiero platonico nel suo contesto storico-culturale.

Ad ogni modo, anche in base alla lettura della Lettera VII, si può sicuramente dire che Platone fosse profondamente insoddisfatto non solo della democrazia, ma in generale di tutti i regimi esistenti.

In particolare, era rimasto deluso sia dell'esperienza del colpo di Stato dei Trenta, che a suo dire erano risultati addirittura peggiori dei leader democratici nella gestione del potere, sia della fallita esperienza siracusana. Questo è un fatto su cui concordano anche gli accusatori di Platone, sebbene tendano a non dare ad esso troppo rilievo ed in genere sorvolino sulla questione, sostenendo che comunque Platone rimase un aristocratico convinto.

L'insoddisfazione platonica, tuttavia, è un dato di fatto e possiamo aggiungere che Platone, nel tentativo di trovare una soluzione ad un tale stato di cose, fu portato ad elaborare un progetto politico che costituisse un'alternativa sostanziale alle deficienze della politica dei suoi tempi. Fece ciò rimeditando a fondo anche la vicenda e la tragedia di Socrate. Bisognava, infatti, nelle sue intenzioni, costruire un tipo di città che non incorresse nell'errore di mettere a morte l'unico uomo veramente sapiente. Se la filosofia non era riuscita a salvare la città, occorreva fondare una città che salvasse la filosofia. Soprattutto, nell'ottica platonica, si doveva trattare di una città "giusta".

Conseguentemente, è proprio il problema della definizione della giustizia che costituisce il primo e principale tema della Repubblica platonica.

Per Platone, la giustizia avrebbe dovuto essere quel principio guida che doveva ispirare la condotta non solo individuale, ma anche sociale, e in base al quale organizzare quella città perfetta che egli intendeva proporre come la "giusta" alternativa alla situazione politica dei suoi tempi.

Più precisamente, secondo Platone, la giustizia, così come doveva essere realizzata nella città ideale, avrebbe dovuto tradursi in una specializzazione di funzioni, in base alla quale ognuno si sarebbe dovuto occupare dell'attività per la quale era naturalmente predisposto.

Ovviamente, gli autori del dibattito in esame si occupano di questa definizione platonica di giustizia e tra di loro alcuni, come Winspear e Russell, ne analizzano anche gli antecedenti culturali. Tuttavia, quello che è più rilevante esaminare è il tipo di interpretazione e di conseguenze che questi studiosi traggono da una simile concezione.

Anche in questo caso, troviamo una serie di accusatori che sostengono che la definizione platonica abbia esiti politici antidemocratici (Winspear, Russell, Thomson e Fite) o che, comunque, così concepito da Platone, sia un progetto irrealizzabile, soprattutto in riferimento alla situazione storica dei suoi tempi (Crossman).

in rilievo il carattere positivo (Koyré), se non addirittura la presenza di elementi precursori dello Stato di diritto moderno (Cassirer).

2. Il retroscena culturale della concezione platonica di giustizia

Alcuni autori degli anni '30 e 40' del XX secolo, vale a dire Winspear e Russell, prima di analizzare la concezione platonica della giustizia, ne mettono in rilievo gli antecedenti filosofico-culturali.

Nel suo libro del 1940, Winspear, per interpretare il tipo di definizione che Platone dà del concetto di giustizia nella sua Repubblica, la colloca nel contesto dell'evoluzione del pensiero filosofico della Grecia antica210. Nell'ambito di quest'ultimo, infatti, per Winspear, non solo emerge la distinzione tra una corrente idealistica ed una materialistica, ma il fatto essenziale è che questi due approcci filosofici si divideranno proprio sulla definizione del termine dike, vale a dire in merito alla questione della giustizia. In particolare, la definizione di Platone rappresenterà per questo autore il culmine di una tale discussione e addirittura il suo superamento, attraverso il netto rifiuto della visione materialistico-democratica.

Winspear, pertanto, inizia col descrivere l'evoluzione della civiltà greca che avvenne nel periodo post-omerico, un'epoca caratterizzata da profondi cambiamenti sociali e culturali e soprattutto segnata dal sorgere dello spirito filosofico. Durante un tale periodo, si assistette al passaggio dal mondo omerico, splendente ed ottimistico, all'atmosfera pessimistica di Esiodo. Quest'ultimo può essere descritto come il portavoce di quel gruppo che non sarebbe riuscito a trarre beneficio dai cambiamenti sociali in corso, che avrebbero determinato il passaggio dalla società tribale antica alla città-stato. Esiodo cioè espresse il sentimento di frustrazione dei piccoli contadini sempre più schiacciati dalle nuove forze economiche. Questi non si erano ancora organizzati, come fecero più tardi sotto Pisistrato, in vista di un'azione politica comune e non avevano ancora compiuto completamente il passaggio dall'agricoltura al commercio. Esiodo, dice Winspear, come era da aspettarsi in un'epoca in cui non si era ancora sviluppata una riflessione sistematica sui processi economici e sul mutamento sociale, fraintese in una certa misura tale cambiamento in atto e lo presentò in termini di colpa individuale, biasimando i "re divoratori di doni", che emettevano "sentenze disoneste" e che defraudavano lui ed i suoi pari dei loro diritti. In altre parole, Esiodo sentiva di star subendo un'"ingiustizia".

Si vede quindi comparire un concetto, quello appunto di "giustizia" destinato ad essere molto discusso e a divenire uno di quei problemi su cui si sarebbe sviluppato il successivo pensiero filosofico. Winspear sottolinea che nel passaggio da Omero ad Esiodo assistiamo al una profonda trasformazione del significato della parola dike, che più tardi avrebbe significato giustizia. Nell'epoca omerica, dove non esisteva ancora una distinzione tra legge sociale e naturale, con questo termine si indicava genericamente il mos latino, il costume. Esso aveva però anche una connotazione etica: non esisteva un codice etico astratto, ma il costume della tribù determinava che cosa si doveva fare e la trasgressione era semplicemente l'allontanamento da una norma di condotta accettata.

Il cambiamento di significato della parola dike, che avvenne passando da Omero ad Esiodo, esprimeva la trasformazione profonda della base sociale in atto in quel momento. Quando infatti l'ordine tribale lasciò il posto allo Stato, allora la parola che esprimeva la relazione primaria di un uomo nei confronti dei suoi compagni, la parola dike appunto, prese un significato completamente nuovo. Per la perplessa mentalità contadina di Esiodo, la frantumazione dell'unità organica della tribù, che aveva stimolato e favorito il sorgere della disuguaglianza, era un fatto abbastanza incomprensibile come processo. Il suo punto di vista era infatti personale e soggettivo. Le disuguaglianze e l'ingiustizia, egli pensava, sorgono tra gli uomini a causa di un contrasto e delle sentenze distorte dei re divoratori di doni. Il poeta allora cercò rifugio nella fede e dike divenne un principio eterno, la figlia illibata di Zeus. La giustizia cioè salì così dalla terra al cielo. Essa non era più una funzione delle relazioni sociali, ma era divenuta un principio eterno che stava al di fuori di esse.

Nel VI secolo a.C., le forze sociali si modificarono molto: il sorgere del commercio e degli scambi, la crescente concentrazione delle terre migliori nelle mani di un piccolo gruppo di proprietari terrieri ed il malcontento sempre più grande della classe contadina indusse aspri conflitti sociali in alcuni stati greci ed in particolar modo in Attica. In un simile contesto, Solone divenne l'arbitro della situazione tra le fazioni contendenti e si assunse il compito di revisionare

la costituzione. Con lui, dice Winspear, ancora una volta, la giustizia venne connessa alle relazioni sociali, ma non ci troviamo di nuovo in presenza del monismo sociale dell'epoca omerica. Il legislatore e lo Stato ora sono concepiti al di sopra del conflitto tra le fazioni. Si afferma cioè per la prima volta la teoria dello Stato neutrale, dal momento che la funzione del legislatore viene interpretata come quella dell'imparzialità. In un certo senso, Solone riportò di nuovo la giustizia giù sulla terra, anche se non completamente, perché egli continuava comunque a parlarne come di un principio divino.

Questa posizione ambigua di Solone, dice Winspear, adombra l'opposizione tra le due opposte scuole, che si sarebbero sviluppate più tardi: la scuola idealistica degli eleatici, dei pitagorici e di Platone (che vedranno nello Stato il riflesso di un'armonia e di un'idea divina) e la scuola relativistica e materialistica dei sofisti (che vedrà la giustizia come meramente relativa ad una serie di situazioni sociali).

Inoltre, Winspear nota come il periodo post-omerico fu caratterizzato da un profondo spirito religioso e dal sorgere di nuovi culti mistici tra cui l'orfismo: in esso il concetto di giustizia mantenne il significato che aveva in Esiodo. Dike era strettamente correlata a Zeus ed era la fonte di una giustizia retributiva, la cui funzione era punire coloro che trasgredivano la legge divina, ma che nello stesso tempo era la guardiana della giustizia sociale. Con l'orfismo, movimento di origine popolare che dette voce alle frange più oppresse della popolazione, sorse poi, dice Winspear, anche la questione del "conflitto degli opposti", in particolare quello tra anima e corpo. Siamo infatti in un periodo in cui l'unità della tribù si è rotta, trasformandosi nella contesa tra due classi opposte, la lotta tra gli eupatridi e gli spossessati. Il concetto che ogni uomo ha di sé è diventato allo stesso modo dualistico: ora per la prima volta si sviluppa il concetto di anima come un'entità separata dal corpo ed in opposizione ad esso, che cerca di controllare gli appetiti carnali e gli impulsi attraverso il potere della ragione. Qui ci sono in germe, prosegue Winspear, le grandi antitesi della filosofia platonica: anima e corpo, materia e spirito, l'uno ed i molti, la permanenza ed il cambiamento. Questo conflitto di opposti nella società portò l'uomo a meditare sul conflitto di opposti in natura e a questo punto sorse la filosofia, come riflessione sistematica sulla natura dell'universo e dell'uomo.

A questo riguardo poi, abbiamo già detto come Winspear suddivida il pensiero filosofico greco, fin dalle sue origini in due opposte scuole di pensiero, che si sarebbero anche sviluppate geograficamente e politicamente in modo molto diverso211. Da un lato, troviamo infatti la filosofia idealistica, che si affermò dove a livello politico dominavano i proprietari terrieri schiavisti, dall'altro, la scuola relativistica e materialistica, che si sviluppò nei luoghi dove aveva avuto la meglio la democrazia schiavista degli usurai, dei mercanti e degli artigiani.

In questa biforcazione della filosofia, il problema fondamentale che divideva le due scuole era quello della giustizia. Per gli idealisti, preoccupati di difendere la disuguaglianza ed il predominio di pochi, la giustizia divenne un principio eterno, un'autorità trascendente, un sé divino, che parlava attraverso maestri e profeti semidivini. Per i sofisti, preoccupati di difendere il diritto dei democratici a rovesciare il potere di pochi favoriti, la giustizia era un accordo storico, relativo alla crescita della società che lo produceva e che non richiedeva una validità superiore alla sanzione dei costumi e dell'accordo sociale. In altri termini, le istituzioni dello Stato ed il codice della giustizia per un gruppo di pensatori erano parte di una natura delle cose necessaria ed eterna, mentre per l'altro gruppo, i sofisti, queste stesse istituzioni erano convenzionali, un accordo umano, valide in quanto ottenevano consenso e soggette al cambiamento se non lo ottenevano.

Il famoso dibattito su natura e convenzione dominò gran parte del pensiero del V secolo ed in un certo senso si può argomentare, dice Winspear, che l'intera struttura della Repubblica di Platone è intesa a confutare il punto di vista del sofista Trasimaco, secondo il quale la giustizia è semplicemente l'interesse della classe al potere.

Ache Russell si preoccupa di collocare la definizione platonica di giustizia nel suo contesto filosofico-culturale212. In particolare, questo autore mette in rilievo come la parola giustizia nel pensiero greco corrispondeva ad un concetto assai importante, ma per il quale noi non possediamo un equivalente veramente esatto. Vale la pena di ricordare, dice Russell, ciò che diceva Anassimandro:

...principio degli esseri è l'infinito...da dove infatti gli esseri hanno l'origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché pagano l'uno all'altro la pena e

211Winspear, "The Conservative Philosophy", chapter IV, in The Genesis of Plato's Thought, cit., p. 75-111. 212Russell, "L'utopia di Platone", cap. IV, seconda parte, in Storia della filosofia occidentale, cit., p. 124-33.

l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo.213

Prima della filosofia, dice questo autore, i Greci avevano una teoria o piuttosto una visione dell'universo particolare che potremmo chiamare religiosa od etica. Secondo questa teoria, ogni persona ed ogni cosa ha il suo posto preciso e la sua funzione precisa. Questo non dipende dalla volontà di Zeus, poiché Zeus è soggetto alla stessa legge che governa gli altri. La teoria è legata all'idea del fato e della necessità. Si applica in modo particolare ai corpi celesti, ma là dove sorge una forza notevole, esiste anche una tendenza a sorpassare i giusti limiti: da ciò nasce la discordia. Una specie di legge impersonale super-olimpica punisce l'hubris e ristabilisce l'ordine eterno, che l'aggressore cercava di violare.

Tutta questa concezione, dice Russell, forse all'origine non del tutto consapevole, passò nella filosofia e la si può trovare sia nelle cosmologie basate sulla discordia, come quelle di Eraclito e di Empedocle, sia nelle dottrine monistiche come quella di Parmenide. Essa sta all'origine della fede nella legge naturale ed umana ed evidentemente è alla base della concezione platonica della giustizia.