II.4 Excursus sul sublime kantiano
II.4.2 Il sublime matematico: essere grande e grandezza
Se in prima battuta il “sublime matematico” viene definito come “ciò che è assolutamente grande” [§ 25, p. 83], dobbiamo indagare innanzitutto cosa significano “assolutamente” e “essere grande”. Kant parte da quest’ultimo concetto distinguendolo, da una parte, da quello
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Il primo, dove il sentimento sublime nasce dalla valutazione delle grandezze, mette il giudizio estetico a confronto con la ragione in quanto “facoltà conoscitiva”; nel secondo, dove il sentimento ha a che fare con la capacità di agire, il giudizio estetico viene confrontato con la ragione come facoltà “di desiderare” [§ 24, p. 83]: “Infatti, dato che il sentimento del sublime implica come suo carattere un moto dell’animo, […] ma questo moto deve essere giudicato come soggettivamente conforme a scopi (perché il sublime piace), allora tale moto viene riferito mediante l’immaginazione o alla facoltà conoscitiva o a quella di desiderare; […]: e quindi la prima disposizione all’accordo dell’immaginazione viene attribuita all’oggetto in quanto disposizione matematica, la seconda in quanto disposizione
di “grandezza” – “esser grande e essere una grandezza sono però concetti del tutto diversi (magnitudo e quantitas)” – e, dall’altra, dal concetto di “sublime” – “dire semplicemente (simpliciter) che qualcosa è grande è anche una cosa del tutto diversa dal dire che è
assolutamente grande (absolute, non comparative magnum)” [§ 25,
pp. 83-4].
Se l’“essere grande” è un predicato, va innanzitutto chiarita quale sia la facoltà che intervenga ad assegnarlo a questo o a quell’oggetto:
Ora, però, che cosa vuol dire l’espressione che qualcosa è grande o piccolo o medio? Non è un concetto puro dell’intelletto ciò che in questo modo viene designato, ancor meno è un’intuizione dei sensi; e altrettanto poco un concetto della ragione, dal momento che quell’espressione non comporta affatto un principio della conoscenza. Dev’essere quindi un concetto della facoltà di giudizio… [§ 25, p. 84]
Giudicare “semplicemente grande” qualcosa non genera alcuna “conoscenza”, né teoretica né pratica perché, come avviene per i giudizi di gusto, vi presiede la facoltà di giudicare nel suo uso non
determinante, cioè riflettente, termine col quale nella terza Critica
viene intesa la riflessione in quanto capace di pronunciare giudizi singolari in vista di una regola universale che non si conosce131.
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“La facoltà di giudizio in genere è la facoltà di pensare il particolare come compreso sotto l’universale. Se è dato l’universale (la regola, il principio, la legge), allora la facoltà di giudizio, che sussume sotto di esso il particolare (anche quando, in quanto facoltà trascendentale del giudizio, stabilisce a priori le condizioni secondo le quali, soltanto, esso può essere sussunto sotto quell’universale) è determinante. Se invece è dato solo il particolare, per il quale essa deve trovare l’universale, allora la facoltà di guidizio è semplicemente riflettente” [§ IV, p. 15]. Si veda, inoltre, J.-F. Lyotard, “La réflexion esthétique”, in Leçons sur l’Analytique du sublime, Éditions Galilée, Paris 1991, pp. 13-68, testo di cui ci serviremo ampiamente (e da cui d’ora in poi citeremo mettendo tra parentesi quadra la sigla LAS seguita dal numero di pagina corrispondente), per commentare il secondo libro della Critica della facoltà di giudizio dedicato, appunto, all’analitica del giudizio di sublime.
Per chiarire il concetto di “grandezza”, invece, Kant fa riferimento ad un’evidenza immediata che riposa sulla nostra facoltà intuitiva: “che qualcosa sia una grandezza (quantum), lo si può riconoscere dalla cosa stessa, senza alcun confronto con altre; vale a dire, quando la pluralità dell’omogeneo costituisce assime un’unità” [ibidem]. Sono grandezze tutti i fenomeni in quanto ci sono dati nelle forme estetiche dell’intuizione costitutive della nostra sensibilità – spazio e tempo – e in quanto possono essere assunti come “misure” per valutare altre grandezze della stessa specie: nel caso di fenomeni estesi nello spazio, ad esempio, “un albero che valutiamo secondo l’altezza dell’uomo può fornire l’unità di misura per una montagna…” [§ 26, p. 93]. Sebbene il concetto di “grandezza” non sia sovrapponibile a quello di estensione (nello spazio) – così come la res extensa di Cartesio non potrebbe avanzare, in una prospettiva critica, la pretesa ad un’evidenza trascendentale – perché l’espressione “pluralità dell’omogeneo” si riferisce appunto al molteplice delle parti di un qualsiasi fenomeno132, di fatto è ai fenomeni presi nella loro estensione spaziale cui Kant pensa e da cui trae tutti i suoi esempi, nonché le sue metafore – come “misura a occhio” e così via – nel discutere il sublime matematico.
Ora, se “la valutazione della grandezza mediante concetti numerici (o dei loro segni nell’algebra) è matematica, [mentre] quella nella
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Kant vi aveva già accennato negli “Assiomi dell’intuizione” della prima Critica. “Gli assiomi dell’intuizione perseguono così nella costituzione degli oggetti dell’esperienza la sintesi dell’apprensione nell’intuizione necessaria a priori alla costituzione del tempo della conoscenza in generale. Il concetto di grandezza estensiva, o di quantum, aggiunge a questa sintesi immediata la coscienza di questa sintesi. Esso è «la coscienza dell’unità sintetica dei diversi omogenei nell’intuizione in generale, in quanto grazie ad essa è così resa possibile la rappresentazione di un oggetto»”; [LAS, p. 104]. Per questo Kant aggiunge che “il giudizio su cose in quanto grandi o piccole riguarda tutto, le loro stesse qualità […], qualunque cosa si possa esibire nell’intuizione (e quindi rappresentare esteticamente) […in quanto] è complessivamente fenomeno, e quindi è anche un quantum” [§ 25, p. 85], dove “rappresentare esteticamente” andrà inteso innanzitutto nel senso di quella capacità di esibizione costitutiva dei fenomeni esposta nell’Estetica trascendentale della prima Critica.
semplice intuizione (secondo una misura a occhio) è estetica” [§ 26, p. 87], allora in un giudizio in cui la si predica “semplicemente grande” (o piccola), senza che si “abbia in mente alcuna comparazione, almeno con una misura oggettiva”, essa non viene valutata logicamente ma esteticamente133, in un senso che coinvolge non solo la sensibilità delle forme estetiche dell’intuizione – di cui abbiamo appena detto – ma anche un sentimento di accordo tra le facoltà conoscitive in gioco in tali giudizi134. Ragione per cui, come accadeva ai giudizi di gusto, essi avanzano la pretesa a valere universalmente:
Ma, sebbene il criterio della comparazione sia solo soggettivo, non per questo il giudizio avanza minori pretese al consenso universale; i giudizi, quell’uomo è bello, è grande, non sono limitati al soggetto che giudica, ma pretendono, come i giudizi teoretici, il consenso di ciascuno. [§ 25, p. 84]
Va intanto rilevato che qui Kant fa scivolare l’argomentazione dal “semplicemente grande” al “sublime” – e forse una tale promiscuità non è da considerarsi solo momentanea o avventata. L’essere grande dell’uomo, infatti, viene predicato non solo “semplicemente”, come “criterio empirico, come per esempio la grandezza media degli uomini”135, ma anche a titolo di “criterio dato a priori che, a causa
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Si veda: “…è posto a fondamento di un tale giudizio un criterio che si presuppone di poter assumere come il medesimo per ciascuno, e che però è utilizzabile non per un giudizio logico (determinato matematicamente), ma solo per un giudizio estetico, sulla grandezza, poiché è un criterio solo soggettivo quello che sta a fondamento del giudizio riflettente” [§ 25, p. 85]. 134
“Ciò che qui è degno di nota è che, se anche non abbiamo alcun interesse per l’oggetto, vale a dire ci è indifferente la sua esistenza, pure la sua semlice grandezza, anche se considerata priva di forma, può comportare un compiacimento che è universalmente comunicabile e quindi contiene la coscienza di una conformità soggettiva a scopi nell’uso delle nostre facoltà conoscitive” [§ 25, p. 85].
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Condizione necessaria, ma non sufficiente, per giudicare “bello” un uomo, discussa da Kant nell’Analitica del bello. Come osserva Hohenegger, “la definizione del giudizio sulla grandezza di un uomo in termini di comprensione estetica rappresenta un superamento o correzione del criterio induttivo e determinato concettualmente di «grandezza media» di un
delle deficienze del soggetto giudicante, è limitato alle condizioni soggettive dell’esibizione in concreto, come, in ambito pratico, la grandezza di una virtù o della libertà e della giustizia pubbliche in un paese”136 [§ 25, p. 85]. È in questo secondo senso che il concetto di “essere grande”, aprendo al campo pratico e politico, sconfina nel sublime, benché non venga ancora detto nulla sul tipo di a priori in questione. Ma dobbiamo ora considerare la valutazione della grandezza nei giudizi logici dove, a differenza del “confronto puramente soggettivo” richiesto da una valutazione estetica, troviamo invece un confronto oggettivo tra grandezze chiamato a soddisfare un’esigenza conoscitiva: sapere di una grandezza “quanto sia grande, richiede però sempre qualcos’altro, che è pure una grandezza, come sua misura”. E, poiché
…nel giudicare della grandezza non si tratta solo della pluralità (numero), quanto piuttosto anche della grandezza dell’unità (della misura), e la grandezza di quest’ultima ha sempre di nuovo bisogno, come sua misura, di qualcos’altro con il quale essa possa essere confrontata, vediamo così che ogni determinazione di grandezza dei fenomeni non può in alcun modo fornire un concetto assoluto di una grandezza, ma in ogni caso solo un concetto comparativo. [§ 25, p. 84]
Da quanto ha stabilito Kant, si vede subito che la valutazione logica di una grandezza ci allontana dal sublime, perché il prezzo che il pensiero deve pagare per determinarla oggettivamente è la comparazione con qualcos’altro che serva da misura di confronto, perdendo così per definizione la dimensione dell’assolutamente
uomo dato nel paragrafo dedicato all’ideale della bellezza”; si veda H. Hohenegger, Note per
un’interpretazione dell’analitica del sublime matematico di Kant, op. cit., nota 13 p. 162.
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In questo dominio, del concetto di unità di misura, benché “dato a priori”, non abbiamo conoscenza alcuna se non attraverso una sua esibizione in concreto o all’occasione di una rappresentazione data, ovvero di un esempio: un’azione giusta, come?: come quella che ti racconto; una misurazione precisa, a quanti decimali?: quanti quelli che ti mostro ora, ecc.
grande come ciò che non accetta confronti. Se, per determinare matematicamente la misura di una grandezza, siamo costretti ad applicarle un’unità di misura, allora, se dovessimo attendere di determinare matematicamente anche la grandezza della misura da utilizzare, saremmo costretti a richiedere anche per quest’ultima un confronto ulteriore con qualcos’altro che fungesse a sua volta da unità di misura determinante. “Ma – dice Kant
dal momento che la grandezza della misura deve pur essere assunta come nota, se essa dovesse essere valutata di nuovo mediante numeri, quindi matematicamente, la cui unità dovrebbe essere un’altra misura, non potremmo mai avere una misura prima o di base, e quindi neanche un concetto determinato di una grandezza data. [§ 26, p. 87]
Si noti l’argomentazione kantiana: non viene detto che dal momento che è impossibile giungere ad una determinatezza matematica della grandezza attraverso un processo infinito, allora bisogna presupporre di assumerla come nota – spiegando con un’impossibilità logica un’assunzione estetica di fatto – ma che “dal momento che la grandezza della misura deve pur essere assunta come nota” – perché è così che procediamo di fatto – allora la sua determinatezza non può che essere estetica, cioè non logica. Che prima di procedere alla misurazione matematica di una grandezza non aspettiamo di veder determinata matematimaticamente la misura di base utilizzata è dimostrato, prima che da una necessità o impossibilità logica di un processo che, per evitare l’indeterminatezza, dovrebbe continuare all’infinito, dal fatto che utilizziamo grandezze o unità di misura la cui capacità di esibizione non solo è sufficiente, ma è anche
necessaria a garantire la determinatezza della grandezza137. Non
perché dobbiamo accontentarci di un afferramento estetico che ci eviterebbe di rideterminare ogni volta le grandezze utilizzate nella misurazione – come se l’estetico fosse una conoscenza confusa di qualcosa che potrebbe essere chiarito concettualmente – o perché l’abitudine e le convenzioni ci dispenserebbero dal misurarle sempre di nuovo – del resto una tale misurazione come potrebbe fermarsi se non con una nuova convenzione? Ma perché, come dice Kant, solo una ponderazione “a occhio” ci permette di avere un “concetto determinato della grandezza data”. Il concetto numerico, per quanto determinato matematicamente, resterebbe indeterminato138, rispetto alla grandezza da misurare, se “la grandezza della misura di base” non venisse colta “immediatamente in un’intuizione”139:
La valutazione della grandezza della misura di base deve consistere dunque nel fatto che la si può cogliere immediatamente in un’intuizione e usare mediante
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Del resto, come potremmo anche soltanto decidere se utilizzare, poniamo, un metro da sarta o un calibro (o, perché no, una bilancia!) per misurare la larghezza di un tavolo, se non attraverso un confronto intuitivo tra essa, che ancora non conosciamo matematicamente, e gli strumenti di misurazione, di cui magari conosciamo la lunghezza in numeri ma che pure non ci istruisce in nulla sulla loro maggiore o minore adeguatezza alla grandezza da misurare? Sarà pur sempre un confronto estetico a permetterci di scegliere come più adatto un metro da sarta così da procedere alla misurazione oggettiva del tavolo. L’esempio non è kantiano ma è stato sviluppato dall’argomentazione intorno al rapporto tra grandezza da misurare e misura
della grandezza. Non è difficile trovare nelle riflessioni “estetiche” sul “seguire una regola”
dell’ultimo Wittgenstein un’indubbia vicinanza alla posizione qui espressa da Kant. 138
Crediamo che nel saggio di Hohenegger sia espressa la stessa consapevolezza quando, discutendo del rapporto che lega comprensione estetica, giudizio riflettente e soprasensibile, si dice che “il soprasensibile a cui fa riferimento [il giudizio riflettente] non è solo indeterminabile, ma anche indeterminato, ovvero non concettuale”; si veda H. Hohenegger,
Note per un’interpretazione dell’analitica del sublime matematico di Kant, op. cit., p. 178. Il
soprasensibile della comprensione estetica di una grandezza si caratterizzerebbe, allora, come la determinatezza estetica, non logica, della grandezza secondo la sua unità.
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O, come si dirà di lì a poco, in una “comprensione dei molti in una intuizione” [§ 26, p. 90].
l’immaginazione per l’esibizione dei concetti numerici: vale a dire, ogni valutazione della grandezza di oggetti della natura è infine estetica (cioè determinata soggettivamente e non oggettivamente). [ibidem]
Della misurazione (matematica) della grandezza Kant è dunque interessato a fare emergere l’estetico quale principio necessario, benché soggettivo, per la produzione di una conoscenza effettiva. E ciò a riconferma di tutto l’impianto della terza Critica, in cui non solo il bello naturale e l’arte, ma anche la conoscenza vengono indagati dal punto di vista dell’esperienza effettiva (qui la misurazione oggettiva delle grandezze) – non della sua sola possibilità in generale come nella prima Critica – cioè ormai a partire da quel sentimento estetico riconosciuto come costitutivo dei puri giudizi di gusto e regolativo di ogni conoscenza ed esperienza determinate140.
Per chiarire il funzionamento della comprensione estetica come condizione imprescindibile di ogni valutazione della grandezza – non solo di una valutazione estetica – Kant non può non ripartire dalla valutazione matematica e dalla funzione che in essa svolge l’immaginazione, se è vero che il sentimento del sublime matematico deve essere riferito alla “facoltà conoscitiva” nel suo complesso (intuizione, intelletto e ragione). Il § 26, centrale da questo punto di vista, non smette di fare i conti con questo tipo di valutazione:
Per apprendere intuitivamente un quantum nell’immaginazione, al fine di poterlo usare come misura o unità per la valutazione della grandezza mediante numeri,
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Relativamente alla ricaduta pervasiva del principio estetico della “finalità soggettiva della natura” – legittimato da Kant a partire dai “giudizi di gusto” – sulla conoscenza e sull’esperienza effettiva come loro condizione necessaria, seppure non sufficiente, si vedano, ad esempio, E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992, soprattutto pp. 110-121; L. Scaravelli, Osservazioni sulla «Critica del Giudizio», in Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze , 1973, pp. .
occorrono due operazioni di questa facoltà: apprensione (apprehensio) e comprensione (comprehensio aesthetica). [§ 26, p. 87]
Si deve all’operazione di apprensione se “l’immaginazione procede da sé all’infinito nella composizione, che è richiesta per la rappresentazione di grandezze, senza che niente le sia di ostacolo”, benché sia “l’intelletto però [che] la guida con concetti numerici, cui quella deve dare lo schema” [§ 26, p. 89-90, corsivo nostro]. Come caso particolare di quel rapporto che lega intuizione (immaginazione) e intelletto e che nella prima Critica va sotto il nome di “schematismo trascendentale”, vediamo qui descritto il percorso seguito dalla prima facoltà – deputata all’esibizione del sensibile – nel presentare il molteplice ai concetti forniti dall’intelletto – qui rappresentati dai numeri – affinché questi lo unifichino nell’unità o nella conoscenza di una grandezza data. L’accordo tra immaginazione e intelletto che nei giudizi di gusto – «questo “x” è bello» – veniva vivificato da una libera produzione di forme dell’immaginazione – non vincolata ad alcun concetto determinato dell’intelletto e il cui libero accordo con esso poteva essere sentito come piacevole in occasione di una rappresentazione data giudicata “bella” – torna qui in primo piano, denunciando però un’immaginazione che, guidata dall’intelletto, è ora schiacciata sull’operazione di composizione continua del molteplice, a scapito della sua capacità comprensiva. La quale capacità, del resto, come vedremo, “raggiunge presto il suo massimo, vale a dire la misura di base esteticamente massima della valutazione della grandezza” [§ 26, p. 88]. L’intervento dell’intelletto nella valutazione delle grandezze permette allora di andare ben oltre la limitata capacità unificante dell’intuizione. Per questo “l’ulteriore produzione di grandezze nella composizione” che si ottiene in una valutazione matematica di una grandezza, cioè oltre la capacità comprensiva
dell’immaginazione, “viene eseguita solo progressivamente (non comprensivamente) secondo il principio di progressione che è stato assunto” [§ 26, p. 90]. Come ci ricorda Lyotard, l’operazione di “composizione” (Zusammensetzung) cui qui si accenna, e che ritorna più volte nel testo, è altra cosa dall’operazione di “comprensione” (Zusammenfassung) del molteplice in un’unica intuizione, ed era già stata definita da Kant nella seconda edizione della prima Critica come “«la sintesi dell’omogeneo in tutto ciò che può essere esaminato
matematicamente» […]. Occorre dunque vedere nella composizione
un’operazione di addizione successiva di una parte all’altra, queste parti essendo omogenee”141 [LAS; p. 132]. La composizione è la funzione che presiede alla costituzione degli oggetti empirici della conoscenza e tratteggiata da Kant attraverso l’esposizione di due delle tre sintesi individuate a fondamento dell’esperienza in generale142. La
141 “…L’esempio fornito per illustrare la composizione è la relazione tra i due triangoli che si ottiene quando si traccia la diagonale di un quadrato: essi sono omogenei l’uno all’altro, ma la loro congiunzione non è necessaria in quanto ognuno può essere concepito senza il concorso dell’altro. Al contrario, non si può pensare l’effetto senza la casua, la loro sintesi è necessaria, benché essi siano di natura eterogenea (la causa non è un fenomeno come l’effetto)” [ibidem]. Dobbiamo qui tralasciare di considerare, per tornarci nella seconda parte di questo lavoro, in quale misura per una sintesi di composizione – che non è una comprensione in un’unica intuizione e che tuttavia non è neppure una semplice apprensione – sia talvolta richiesto qualcosa di esterno alla facoltà immaginativa o intuitiva per come la intende Kant: qualcosa come la possibilità di tracciare una linea, di utilizzare dei simboli per il calcolo e così via, che renda possibile, secondo un metodo o una tecnica, l’addizione di parti consecutive non comprese in un’unica intuizione.
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Nella Nota preliminare alla deduzione delle categorie della prima Critica. Come ricorda Lyotard, le prime due sintesi sono quelle “«dell’apprensione nell’intuizione e [quella] della riproduzione nell’immaginazione»” [LAS; p. 133]. La prima consiste nel “«mantenere» il diverso «come in un colpo d’occhio»” [LAS; p. 133]; con la seconda vengono collocate in successione, l’una dopo l’altra, le unità apprese, perché “la riproduzione permette di conservare presente nel pensiero un’unità appresa anteriormente, dunque attualmente assente. Questa sintesi di ritenzione è prodotta dall’immaginazione. La «composizione» la comporta necessariamente” [LAS; p. 134]. Vedremo nella seconda parte di questo lavoro, quando discuteremo della concezione husserliana del tempo, se l’assegnazione delle ritenzioni temporali proprie della composizione possano essere pacificamente assegnate
composizione, articolando apprensione e riproduzione, è la presentazione ricorsiva nel tempo delle unità apprese precedentemente, e quindi “lo schema che corrisponde al concetto di grandezza, ed è l’atto dell’immaginazione che prepara il diverso ad essere conosciuto dall’intelletto per mezzo del concetto di grandezza (e, ulteriormente, di numero)” [LAS; p. 132]143. È per noi sufficiente
all’immaginazione a scapito dell’intuizione (percezione). In questi passi di Lyotard i termini kantiani (composizione, immaginazione) e quelli husserliani (ritenzione, immaginazione) si confondono a tal punto da rendere impossibile stabilirne le differenze e le analogie: da una parte, si direbbe, la prima sintesi kantiana sembra escludere la ritenzione implicando solo una