Nel capitolo “Il palazzo del principe” Marin si sofferma ad analizzare alcune argomentazioni della Description sommaire du
château de Versailles (1673) di A. Félibien, testo che contribuirebbe
alla costruzione di quell’enorme “memoriale” dal quale doveva scaturire l’immagine del monarca assoluto da affidare alla posterità. Il palazzo di Versailles, con i giardini che ancora oggi ammiriamo, veniva progettato e realizzato per buona parte proprio negli anni in cui scriveva Félibien, per essere inaugurato dallo stesso Re-Sole nell’estate del 1674, durante sei giornate spettacolari di feste e magie pirotecniche che il nostro autore non manca di analizzare secondo
l’effetto di potere che doveva scaturirne119. Per Marin, il testo di Félibien non soltanto
sostituisce immaginariamente un monumento doppiamente assente nel reale – da una parte perché incompiuto, dall’altra perché rivolto a quelli che non possono avere il piacere di vederlo – non soltanto costituirà il monumento di memoria per i soggetti del re che l’avranno visto […], ma ancora «potrà addirittura servire a molti di coloro che vanno a visitarlo». [PR, p. 229]
Se lo scopo di ogni descrizione è indubbiamente quello di far vedere le cose attraverso le parole, lo scopo di Félibien è quello di costruire, attraverso un montaggio di immagini che si susseguono, il percorso che il lettore, ovvero lo spettatore di Versailles, potranno o dovranno compiere per visitare il luogo forse più rappresentativo del potere di Luigi XIV. Perché sarebbe necessaria una tale rappresentazaione dei giardini regali? Perché, come ricorda Marin citando Félibien, questo luogo è fatto “«di un’infinità di cose sulle quali di solito la vista non si posa a causa della grande quandità d’oggetti che dissipano i sensi»”, e però “il luogo del re è quello dell’assoluto e dell’infinito – e assoluto e infinito non possono essere visti da uno sguardo che sarebbe soltanto quello dell’occhio sensibile” [PR, p. 230], cioè dell’occhio finito. Così, il testo di Félibien avrà lo scopo di convogliare l’infinità del sensibile nell’
ordine di un percorso dell’osservazione che sia esso stesso regolato e normato da un ordine assoluto che è indissolubilmente quello dell’intelletto razionale e quello del prinicipe. A questa condizione soltanto l’itinerario narrativo della visita può racchiudere nella sua trama l’infinità della meraviglia regale. A questa condizione soltanto il miracolo regale può manifestarsi. [PR, p. 230]
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A nostro avviso queste argomentazioni non possono non richiamare la problematica che Kant pose alla base della riflessione sui giudizi estetici di sublime. Si può indubbiamente sostenere che l’interesse di Marin per questa problematica va ben oltre il sublime come categoria artistica120, e non è affatto limitato alla discussione del potere assoluto di Luigi XIV, se è vero che il rapporto tra infinità del molteplice sensibile e punto di vista dello spettatore non è nuovo nella bibliografia del nostro autore. Anzi, ricavandolo dai Pensieri di Pascal di cui Marin si occupa già da giovane ricercatore, esso non ha mai smesso di accompagnare le sue riflessioni sul funzionamento del dispositivo della rappresentazione. Fino a trovarlo riproposto quasi ossessivamente nei saggi e articoli raccolti postumi in Della
rappresentazione121:
Sia questo pensiero di Pascal: «Una città, una campagna, da lontanto sono una città e una campagna, ma via via che ci si avvicina, sono case, alberi, rami, foglie, erbe, formiche, gambe di formiche, e così all’infinito. Tutto questo si racchiude nel nome di campagna». [DR, p. 261]
Vedremo nei prossimi paragrafi come l’esperienza della continua ricostituzione del molteplice sensibile in un’unità sempre nuovamente riconfigurata sia essenzialmente legata all’esperienza del sublime. Vediamo intanto come in Marin l’intera questione del sublime – benché Marin non abbia mai usato questa espressione per riassumerla – venga coniugata dalla prospettiva che gli è propria e lo contraddistingue, cioè dal punto di vista della rappresentazione. Il saggio Mimesis e descrizione, da noi citato più volte, ridiscute i due
120 Si veda, ad esempio, la raccolta di scritti uscita postuma, Sublime Poussin, Éditions du Seuil, Parigi 1995.
121
Si vedano, ad esempio, Elogio dell’apparenza (1986) e Mimesis e descrizione (1988), rispettivamente in De la représentation, op. cit., pp. 235-250 e pp. 251-266.
momenti della rappresentazione da noi indagati nei paragrafi precedenti122, alla luce del rapporto tra dire e vedere indagato a partire da due esempi di rappresentazioni pittoriche: la Veduta di Delft (1660) di Vermeer e la Vanité (1646) di P. de Champaigne. I due quadri servono quindi a Marin da commutatore di conversione tra il dire e il vedere, per impostare cioè un parallelo tra rappresentazione mimetica di pittura e descrizione linguistica secondo la loro dimensione transitiva. Come un quadro risulta essere trasparente rispetto alle cose che rappresenta (ad esempio quelle che emergono dalla veduta della città di Vermeer) e che permette di nominare e anche di riunire sotto uno stesso nome (Delft), così la descrizione linguistica di un insieme di cose (ad esempio il brano di Pascal) ce le mostra come parti visive di un tutto (una città, una campagna). Ma, come sappiamo, la dimensione transitiva non è la sola dimensione della rappresentazione, sia essa un quadro o un testo scritto. Nel caso di Vermeer, ad esempio, sono la composizione dell’immagine e la tecnica fiamminga a spingere lo spettatore ad avvicinarsi alla tela fino a vedere svanire l’identità di ciò che aveva visto fin lì – tetti, finestre, ombre – in “piccole gocce di rosso, di verde e di bianco, grandi impasti blu e gialli…” [DR, p. 263]. Nella descrizione di Pascal, invece, è il “sintagma della sua enunciazione: «una città, una campagna, da lontano sono… ma via via che ci si avvicina sono…»” [ibidem] a spingere il lettore o uditore a ricostituire il proprio orizzonte visivo per analizzare le nuove unità che gli vengono mostrate. È l’enunciazione, con le locuzioni “da lontano” e “via via” che introducono la copula che nomina le cose viste nel movimento di scomposizione cognitiva
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Nello scritto viene anche ripresa l’argomentazione intorno alla relazione che abbiamo visto dispiegarsi tra alcune procedure di rappresentazione del potere: la rappresentazione iconica (il ritratto del re o le sue effigi nelle medaglie), la rappresentazione narrativa (delle sue gesta nelle medaglie o nelle cronache del tempo) e quella simbolica (del nome: «questo è Luigi XIV»).
dell’esperienza, che sottolinea come le unità così ottenute siano funzione del processo di spostamento del punto di vista del soggetto123. In entrambe le rappresentazioni, insomma, è la loro dimensione opaca, o riflessiva, “che mette in questione l’è che consacra l’inversione immediata dell’immagine mimetica e del nome che la nomina” [DR, p. 262]. Contro l’illusione di una pura trasparenza della descrizione, per cui il nome con cui ci riferiamo a qualcosa sarebbe la “descrizione definita” della sommatoria delle cose che la costituiscono – munite a loro volta dei relativi nomi – il nome è piuttosto “l’involucro d’uso e usato di un’infinità”, “di un’infinità di liste di nomi inscatolati”, e dunque qualcosa di approssimativo e provvisorio che pure “ci permette di parlare delle cose agli altri” [ibidem]. Questa apparente e necessaria adeguatezza delle parole, dei concetti e delle immagini – nel loro uso figurativo e denotativo – alle cose, si fonda, per Marin, sullo sfondo della dimensione opaca della
rappresentazione124 che, inevitabilemente, fa emergere
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Del resto l’enunciazione di Pascal è possibile solo quando – come nota Marin – si sia preventivamente “operata la conversione” [DR, p. 261] tra nomi e cose secondo quella teoria della descrizione trasparente che pure, secondo il nostro autore, l’enunciazione pascaliana intende sovvertire: solo se traduco, immaginativamente, il nome della cosa nell’immagine della cosa riesco ad attivare quello schema temporale che mi permette di procedere alla scomposizione-analisi delle sue parti costitutive e, quindi, a farne la rassegna nominandole una per una.
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Relativamente al fatto che le due figure umane dipinte da Giorgione nella sua Tempesta (1507-8) siano i rappresentanti, nel quadro, dello spettatore, nel saggio I/Le fini
dell’interpretazione Marin si domanda: “Da dove cominciare a (de)scrivere questo quadro?
Da questo attraversamento puro di uno sguardo che denuncia, enunciandosi, il modello rappresentazionalista e l’illusione di una descrizione pura, poiché attraverso questo sguardo – la figura e il tropo di questo sguardo di una donna rappresentata – la rappresentazione (enunciato «cognitivo» che rappresenta degli stati di cose, che descrive – a suo modo – degli stati di cose) si presenta essa stessa, «si riferisce a una realtà che essa stessa costituisce». Nel «senso del rappresentato» si riflette il fatto della sua rappresentazione. In questo rappresentato […] una figura, un attore, un viso, gli occhi di una donna figurano la riflessione […]. È un paradosso che, questa figura di riflessione, parte dell’insieme rappresentato, sia al tempo stesso la sua autorappresentazione? [DR, p. 187].
l’inadeguatezza della rappresentazione stessa a significare analiticamente il tutto a cui si riferisce. Inadeguatezza che, nell’immagine pittorica, Marin coglie come l’“informe dell’immagine, sincope della figura” e, nel discorso descrittivo, nel “movimento verso niente di dicibile” [DR, p. 262]. Se ci avviciniamo troppo al quadro di Vermeer, siamo costretti a nominarne i colori (l’informe); mentre nella descrizione di Pascal raggiungiamo presto il limite di non riuscire a nominare più nulla di definito (così come, allontanandoci troppo, rischiamo di non vedere più che una macchia confusa in luogo di una città vista dalle colline circostanti). Problema di linguaggio, di concetti e di esperienza che, come vedremo, ci conduce al cuore stesso della nostra lettura del sublime kantiano.
Prima di intraprenderla riprendiamo il filo del nostro discorso. Non ci siamo affatto allontanati dalla problematica che ci ha occupati in questo capitolo, e cioè quella del rapporto tra rappresentazione e potere. Anzi, non abbiamo parlato che di quello discutendo degli effetti di senso prodotti dalla dimensione seconda della rappresentazione (opaca o riflessiva) alla quale viene imputato quel potere della rappresentazione come necessario correlato della rappresentazione del potere (dimensione transitiva). Abbiamo anzi meglio precisato che il la dimensione opaca della rappresentazione chiama necessariamente in causa il soggetto dell’enunciazione secondo come condizione essenziale alla produzione stessa della sua figuratività. Figuratività che, per Marin, resta la modalità essenziale dell’espressione del senso125. E ora vediamo, ritornando a discutere della rappresentazione del potere assoluto, che la sua messa in figura, come accennato, risulta determinante: per conferire ordine e senso all’esperienza all’
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Si veda la nota precedente nonché la distanza presa da Marin dalla semiotica plastica greimasiana.
«aspetto», semplice vista delle cose, come direbbe Poussin, le quali, essendo quantitativamente e qualitativamente infinite non possono che disperdere e dissipare lo sguardo, occorre sostituire il «prospetto», ufficio di ragione […]: processo «teorico» della ragione di cui il principio è il principe, la regole il re e la norma il monarca assoluto. [PR, p. 230]
Sembra, insomma, che il problema di Marin sia proprio quello di indagare il rapporto tra forma e informe, tra rappresentazione e molteplice sensibile, rapporto che dobbiamo indagare a partire dall’indagine trascendentale del sublime svolta da Kant nella sua terza
Critica. Infatti, se la rappresentazione “non ha altra funzione che di
operare la trasformazione, ad uso dei soggetti del re, dell’infinito in assoluto” [PR, p. 232], allora la trasformazione dell’infinito in assoluto non è altro che il tentativo della messa in figura di un molteplice che, altrimenti, sfuggirebbe alla presa della rappresentazione.