Le nostre considerazioni saranno mirate ad isolare, nell’estesa produzione dell’autore che ci accingiamo a discutere, le riflessioni che ripropongono, da un punto di vista del tutto originale, la questione delle condizioni di comprensione della rappresentazione emersa con Marin. Ma per fare ciò, saremo costretti a restituire il contesto in cui tali riflessioni vengono svolte da Bernard Stiegler, almeno limitatamente all’opera a cui soprattutto faremo riferimento e che già dal titolo chiarisce l’orizzonte in cui ci muoveremo: la tecnica e il tempo169.
Va detto, innanizitutto, che il pensiero di Stiegler non può essere affatto preso per una riflessione estetica sulla rappresentazione artistica moderna, com’era ancora possibile fare in buona parte col pensiero di Marin, e non solo perché ora il campo di analisi è più ampio, coincidendo con gli oggetti tecnici in generale. È l’orizzonte stesso in cui si inserisce la riflessione interdisciplinare di Stiegler che, non disdegnando di utilizzare saperi desunti da ambiti disciplinari di solito trascurati dalla nostra tradizione filosofica – quali, ad esempio, la storia dell’evoluzione tecnica, la paletnologia ecc. – va compreso innanzitutto a partire dall’esigenza di condurci al cospetto dei rivolgimenti epocali prodotti dai dispositivi della tecnica attuale, compresi quelli concernenti le cosiddette arti “tecnicamente
169
La technique et le temps I. La faute d’Épiméthée, Éditions Galilée, Paris 1994; La
technique et le temps II. La désorientation, Éditions Galilée, Paris 1996; La technique et le temps III. Le temps du cinéma et la question du mal-être, Éditions Galilée, Paris 2001 (dai
quali d’ora in poi citeremo mettendo tra parentesi quadra, rispettivamente, la sigla TT-I, TT-II e TT-III seguita dal numero di pagina corrispondente).
assistite”170. Se ogni riflessione odierna non vuol essere condannata all’inefficacia o, peggio ancora, al definitivo disorientamento – a fronte di una tecnica sempre più pervasiva e capace di imporci i suoi ritmi di decisione e di scelta171 – essa deve essere in grado di pensare gli oggetti tecnici non più come corpi estranei da derubricare secondo le discipline specialistiche di appartenenza, ma come il suo più vero e autentico impensato. Solo quando avremo raggiunto quest’osservatorio, da cui Stiegler indaga il rapporto tra temporalità e tecnica, saremo in grado di tornare a discutere delle mutate condizioni di comprensione delle rappresentazioni – nella fattispecie delle immagini.
Abbiamo detto come, mettendo al centro delle sue indagini la tecnica (techne) moderna e contemporanea, Stiegler non muova da un orizzonte estetico, né nel senso ristretto di una riflessione romantica sul bello, sull’opera d’arte o, in generale, sul linguaggio; né nel senso più ampio inaugurato dalla riflessione trascendentale kantiana, come indagine sulla sensibilità e sul sentire come condizioni soggettive ma necessarie dell’esperienza. Tuttavia se, come vedremo, quest’ultima accezione non è in realtà completamente estranea all’impostazione stigleriana, essa viene però decisamente rivisitata nei termini di una
tecno-logia, intesa come pensiero che cerca di rimuovere ogni
rigurgito antropologico che veda ancora nell’uomo il centro esclusivo di configurazione delle condizioni di possibilità dell’esperienza. L’“essenza della tecnica” e dell’oggetto tecnico, sostiene Stiegler
170
Si veda, ad esempio, M. Carboni-P. Montani, Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica
nell’era della tecnica, Editori Laterza, Roma-Bari, 2005
171
“Oggi abbiamo bisogno di comprendere il processo dell’evoluzione tecnica perché avvertiamo una forte opacità nella tecnica contemporanea: non comprendiamo immediatamente ciò che è in gioco realmente e che si agita in profondità, ma al tempo stesso dobbiamo continuamente deciderne, anche se abbiamo sempre più il sentore che le conseguenze ci sfuggano” [TT-I, p. 35].
riprendendo le considerazioni che Heidegger svolge ne La questione
della tecnica172, non può più essere pensata secondo “le categorie di
fine e di mezzo”, cioè secondo quella “«interpretazione corrente della tecnica secondo la quale essa è un mezzo e un’attività umana” ovvero, più esplicitamente, a partire da una “concezione strumentale e antropologica della tecnica»” [TT-I, p. 22]. La concezione della metafisica tradizionale che si è sviluppata da Aristotelo in poi – per cui l’oggetto della techne, a differenza dell’oggetto della physis, “non ha in sé il principio del proprio movimento” e quindi difetterebbe della “sua propria causa finale” – attribuisce all’artigiano quella causalità finale che, mancando nell’oggetto tecnico inteso come semplice mezzo, viene a “confondersi con la causa efficiente” [TT-I, p. 23] che lo produce, cioè con l’uomo stesso. L’uomo sarebbe il fine e al tempo stesso il produttore dell’oggetto tecnico inteso come mezzo. Se queste categorie sono ancora presupposte dall’estetica moderna nel momento in cui essa concepisce l’attività artistica o poietica (poiesis), come specie particolare di techne – intesa, genericamente, come produzione umana di ciò che non esiste in natura – allora, nell’oggetto artistico moderno si riassume ed esemplifica quella concezione strumentale, antropologica e soggettivistica attraverso la quale la metafisica ha da sempre pensato gli oggetti tecnici in generale.
L’elemento decisivo della techne non sta perciò nel fare e nel maneggiare, nella messa in opera di mezzi, ma nel disvelamento […]. In quanto tale, non però intesa come fabbricazione, la techne è un pro-durre.173
172
Si veda M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, tr. it. Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1980.
173
Se “la techne come poiesis” non è che un “modo”, come la physis, “di disvelamento” della verità dell’essere, allora essa andrà pensata non più secondo le categorie di mezzo e fine, ma come “sottomessa a quella causa finale che è la physis aggirando [au détour] la causa efficiente” [ibidem], cioè l’uomo supposto produrla. Anche perché se la “tecnica moderna”, per Heidegger, “si concretizza in dispositivo di calcolo [arraisonnement] di tutte le risorse” [TT-I, p. 38] e l’uomo stesso ne è parte, allora non è più possibile pensarlo come il soggetto che, a detrimento della natura, disporrebbe della tecnica più di quanto essa non disponga di lui174. E non si tratta di far fare un salto al pensiero per non continuare a concepirla partendo dai fini e dai calcoli di dominio dell’uomo, ma – visto che “physis e essere sono sinonimi” e techne e physis non sono che modi di disvelamento dell’essere – secondo una differente ontologia:
tra gli enti inorganici della scienza fisica e gli enti organici della biologia, esiste un terzo genere di «enti», gli enti inorganici organizzati che sono gli oggetti tecnici. [TT-I, p. 30]
Occorre una riflessione onto-tecnologica capace non solo di rimuovere il soggettivismo e l’oggettivismo moderni quali eredi metafisici dell’antico finalismo, ma anche di confrontarsi con le scienze della vivente e della sua evoluzione. Ci torneremo tra poco. Ma non sarà la riflessione heideggeriana, per quanto preziosa, ad indicarci il cammino da percorrere, perché se per Stiegler la “questione più profonda” è quella che riguarda “il rapporto della tecnica e del tempo” [TT-I, pp. 27], il limite di Heidegger resta quello
174
“Ora, la tecnica è un mezzo attraverso il quale noi padroneggiamo la natura, oppure la tecnica, rendendosi padrona della natura, dispone anche di noi stessi come facenti parte di essa? È innanzitutto in questo senso che, ne La questione della tecnica, Heidegger pone che non la si possa definire come un mezzo” [TT-I, p. 38].
di avere visto nella “tecnicizzazione del linguaggio come uno snaturamento” [ibidem], benché sia stato tra i primi a non credere di potersene sbarazzare auspicando la restaurazione di un rapporto originaria tra l’uomo e il linguaggio. Secondo Stiegler, infatti, nella concezione heideggeriana solo il linguaggio, solo “la parola veicola questa temporalità originaria del tempo che, al contrario, la strumentalità tecnica e calcolante occulterebbe in una intratemporalità che è solo più quella della preoccupazione” [TT-I, pp. 27-8], cioè di un modo d’essere dell’esserci inautentico. Questa distinzione tra una temporalità originaria e una temporalità intramondana quale principio di autentica individuazione dell’esserci – sviluppata in Essere e tempo – impedisce a Heidegger di cogliere la potenzialità individuante che si cela nella temporalità dell’oggetto tecnico.
Tutta la questione è di sapere se una tale distinzione, secondo la quale la tecnica, non essendo costitutiva dell’individuazione, dovrebbe stare solo da una parte [quella inautentica], non resti essa stessa «metafisica». [ibidem]
Tuttavia Heidegger, attraverso la sua analitica dell’esserci (Dasein), è stato il primo ad aver tenuto insieme “temporalità” e “fatticità” come tratti costitutivi dell’“orizzonte originario dell’esistenza” umana, mostrando che
il Dasein non viene al mondo che nella misura in cui questo lo ha già preceduto nella sua fatticità […] ma, allo stesso tempo, in quanto la sua temporalità si fonda sull’anticipazione della propria fine, il Dasein è già da sempre in anticipo su se stesso. [TT-I, pp. 29-30]
Sovrapponendo allo scarto temporale tra passato e futuro che costituisce l’esistenza umana, la capacità tecnica di anticipazione del futuro (capacità prometeica) e quella di ritorno e mediazione après
coup sul già-stato, Stiegler ci fa uscire di colpo dall’orizzonte
heideggeriano. Per il nostro autore l’orizzonte originario di ogni esistenza umana è costituito da un mondo di oggetti tecnici che la precede e che ha già previsto e predisposto per essa delle possibilità di progettazione. L’esserci arriva sempre già troppo tardi per poter scegliere autenticamente le sue possibilità più proprie, in quanto il suo luogo di origine è già occupato dalla tecnica come rimando al futuro e rimedio alla sua mancanza di origine. Il mito del segreto del fuoco e della tecnica sottratti agli dei da Prometeo per farne dono agli uomini, va pensato a partire dalla mancanza e dall’errore (faute) originari commessi da Epimeteo e che la tecnica è chiamata a colmare e a riparare, producendo, col suo intervento, utleriore ritardo. Così il rapporto tra tecnica e tempo verrà indagato sotto un duplice rispetto. Da una parte esso verrà indagato dal punto di vista di una tecnologia come scienza sui generis che studia la “dinamica tecnica” dei sistemi
nel tempo, cioè le loro relazioni diacroniche e sincroniche – nei
sistemi tecnici i cambiamenti locali inducono assestamenti sistemici in altri segmenti: si pensi all’evoluzione delle lingue naturali175. Questa scienza, sviluppata soprattutto da F. Gille e da G. Simondon, non può essere ridotta “né alla meccanica, né alla biologia né all’antropologia” [TT-I, p. 30]. Dall’altra, quel rapporto andrà indagato secondo la temporalità stessa di cui è produttrice e detentrice la tecnica, o un sistema di oggetti tecnici. Di questa seconda configurazione ci occuperemo nel presente lavoro. Ma lasciamo la parola a Stiegler:
Noi mostreremo […] che quando la vita diventa tecnica, essa è anche finitudine ritenzionale. Questa ritenzione, in quanto finita, è presa nella dinamica che
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“La tecnica fa sistema nella misura stessa in cui essa non può essere compresa come un mezzo – come in Saussure l’evoluzione della lingua, la quale forma un sistema di estrema complessità che sfugge alla volontà di coloro che la parlano” [TT-I, p. 38].
determina una tendenza tecnica. Ciò che non sarebbero stati in grado di pensare né la fenomenologia – benché nei suoi termini husserliani essa ne accenni sotto il nome di scrittura – né l’analitica esistenziale. Questa, ereditando l’opposizione che Husserl pone di principio, nella sua analisi dell’oggetto temporale, tra ritenzioni primarie, secondarie e terziarie (chiamiamo ritenzione terziaria ciò che Husserl designa con l’espressione «coscienza d’immagine»), non sarebbe stata in grado di dare a ciò che Essere e tempo chiama l’intra-temporale, la sua dimensione costitutiva della temporalità, al di qua e al di là dell’opposizione tra temporalità autentica e inautentica. [TT-I, p. 31]