Nel III capitolo intitolato “Chi? Che-cosa? L’invenzione dell’uomo”176, per introdurci alla questione del “radicamento tecnologico di ogni rapporto al tempo” [TT-I, p. 146] come costitutivo dell’essenza dell’uomo, Stiegler si chiede, come emerge dall’esergo apposto in apertura di questa nostra seconda parte, se sia l’uomo ad inventare la tecnica o se non sia piuttosto questa ad inventarlo. La questione, benché paradossale, perde immediatemente la sua apparente stravaganza solo che si riprendano gli studi del paletnologo A. Leroi-Gourhan177 intorno a quel passaggio, o frattura, con cui il fenomeno dell’ominazione conobbe una svolta decisiva. Almeno tre milioni di anni fa ebbe inizio quel “cambiamento” che si protrasse fino a circa centomila anni fa e “che dal Zinjantropo conduce al Neantropo”, fenomeno conosciuto come “corticalizzazione” cerebrale, e riscontrabile “anche nella pietra, nel corso della lenta evoluzione delle tecniche di taglio degli utensili” [TT-I, p. 146]. In un momento in cui l’evoluzione che avrebbe condotto alla specie Homo sapiens non aveva ancora fissato i tratti della corteccia cerebrale che l’uomo ha
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Si veda B. Stiegler, La technique et le temps I, op. cit., pp. 145-187. 177
Si veda, ad esempio, A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole. Technique et language, tr. it.
oggi in dotazione nel proprio programma genetico – e come conseguenza di una ben più antica rivoluzione178 – si assiste a quello che Leroi-Gourhan chiama “processo di esteriorizzazione” [TT-I, p. 152], attraverso il quale l’ominide fissa sull’utensile ricavato da una pietra scheggiata ciò che apprende nella sua interazione col mondo. Dobbiamo chiederci, allora,
cosa implichi, dal punto di vista della storia generale della vita, la chiusura dell’evoluzione corticale dell’uomo e, quindi, il perseguimento dell’evoluzione del vivente attraverso mezzi diversi dalla vita – ciò in cui consiste la storia della tecnica, dal ciotolo scheggiato ai nostri giorni… [TT-I, p. 146]
Possiamo constatare, quindi, una sicura contemporaneità e una possibile interazione tra l’evoluzione della struttura della corteccia cerebrale e l’emersione e lo sviluppo dell’industria litica nella storia della vita. Se, “dal punto di vista paleontologico, l’apparizione dell’uomo è l’apparizione della tecnica”, allora quella dimensione
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Com’è noto, per Leroi-Gourhan l’uomo si riconosce dai piedi: ci riferiamo al fatto che con la stazione eretta (il bipedismo) l’ominazione ha di fatto preso avvio: non è che grazie ad essa se le mani possono d’ora in avanti essere libere per altre funzioni, se la volta cranica può svilupparsi – non essendo più sottoposta alle pressioni meccaniche mandibolari e potendo scaricare il proprio peso sulla spina dorsale – se i denti e la mandibola – che non devono più essere utilizzate come armi di aggressione e di protezione – si rimpiccioliscono e possono essere contenuti in una faccia corta: tutte condizioni indispensabili per l’insorgenza della tecnica e del linguaggio. Al di qua delle dimensioni del cranio e delle sembianze pitecoformi che caratterizzano ancora gli Australantropi (Zinjantropi, Australopiteci, ecc.) di tre milioni di anni fa, possiamo dire che laddove c’è stazione eretta lì siamo già in presenza di Antropiani a tal punto distanti dai primati che non è più possibile alcun confronto tra i due: “il fatto di essere bipedi e di avere la volta cranica completamente libera li pongono a una tale distanza dai Pitecomorfi che non c’è ragione di accostarli più di quanta ve ne sarebbe nel voler vedere nello scimpanzé una specie di orso lavatore molto evoluto”; ivi, p. 75. Eppure: “Il disagio nasce dal fatto che gli Australantropi in realtà non sono tanto uomini con facce di scimmia quanto uomini la cui scatola cerebrale è una sfida all’umanità. Eravamo disposti ad ammettere qualsiasi cosa, ma non di essere stati cominciati dai piedi”,”; ivi, p. 78. Non è il cervello, originariamente, che ha fatto la differenza, ma i piedi.
interiore o spiriturale che da sempre è servita a discriminarlo
dall’animale, dovrà essere intesa innanzitutto come tecnica: l’uomo calcola e progetta fin dalle sue origini. Ma occorre chiarirsi. Non è che l’uomo, già formato, abbia iniziato ad esteriorizzare ciò che già conservava nella sua interiorità: è da dove mai potrebbe provenirgli questa capacità interiore di progetto e di calcolo? Se è vero che “non c’è esteriorizzazione che non designi un movimento dall’interiore verso l’esteriore” – e se “l’uomo è qui l’interiore” bisogna ammettere, allora, che egli ancora non c’è – dovremo concludere che l’uomo, ovvero “l’interiore, è inventato da questo movimento” [TT-I, p. 152], cioè dal movimento stesso della vita che tende a conservarsi prolungandosi in mezzi diversi dalla vita biologica: gli oggetti tecnici. L’uomo non solo si è affidato alla tecnica, cioè alla manipolazione dell’ambiente che lo circondava, ben prima che i suoi mutamenti organici e genetici avvessero terminato di farlo diventare quello che è oggi, ma addirittura senza sapere bene, potremmo dire, quello che
faceva. Come avremo modo di vedere, sarà l’oggetto manipolato
inteso come deposito della memoria di un incontro – quello delle mani dell’uomo con le proprietà della pietra e con la visione dell’ambiente che lo circondava – a ricordarglielo. Stiegler arriva così a sostenere che è la tecnica ad inventare l’uomo, che cioè “l’uomo si inventa nella tecnica inventando l’utensile” [ibidem], respingendo così ogni spiegazione antropologica che veda nell’evoluzione della produzione litica dell’uomo, un semplice e graduale processo di proiezione all’esterno di una capacità tutta interiore che si sarebbe affinata e incrementata in conseguenza di un’evoluzione specificamente zoologica. Ma se è vero che l’uomo inizia ad affidarsi alla tecnica ben prima di aver definito e stabilizzato biologicamente il proprio patrimonio genetico allora, al contrario, dobbiamo ipotizzare che sia la stessa tecnica – cioè da una parte, l’interazione tra la mano e gli
utensili, dall’altra quella tra la bocca e i suoni del linguaggio – ad aver contribuito alla definizione morfologica e funzionale di questi organi, nonché, dunque, delle stesse aree cerebrali ad essi deputate179.
Stiegler accoglie, da Leroi-Gourhan, che la distribuzione e organizzazione funzionale delle aree cerebrali debba essere spiegata a partire dalle mutazioni anatomiche dello scheletro che precedono l’insorgenza dell’industria paleolitica vera e propria, così da ottenere una prima spiegazione zoologica o biologica della comparsa degli Antropiani. Ma non ammette che la stessa spiegazione possa essere estesa al periodo che separa lo Zinjantropo dall’uomo di Neanderthal (fino a all’homo sapiens), periodo durante il quale “l’essenziale del processo di trasformazione è il dispiegamento del ventaglio corticale che si traduce direttamente nell’evoluzione delle forme utensili” [TT-I, p. 161]. Secondo Stiegler, la crescente specializzazione tecnico- funzionale degli arti (e della bocca) è spiegabile solo
attraverso l’apparizione di un elemento che non può evidentemente essere considerato come vivente, come facente parte dell’anatomia del corpo, ma che nondimeno è essenziale alla definizione della sua zoologia […]. Questo corpo e questo cervello sono definiti dall’esistenza di questo utensile e ne diventano indissociabili. [TT-I, p. 159-60]
Non si tratta di disconoscere l’importanza delle mutazioni anatomiche e delle mancanze che ne sono derivate all’uomo180 ai fini
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Visto che, in seguito all’assunzione della stazione eretta, le funzioni di questi organi restano piuttosto indeterminate – almeno rispetto alla specializzazione che hanno conosciuto in altre specie di mammiferi – “l’indeterminazione funzionale sempre più aperta, prepara il terreno di ciò che sarà nell’uomo la tecnicità in senso forte” [TT-I, p. 157]. La quale, in seguito, si incaricherà proprio di individuare e differenziare la funzionalità di mani e bocca: “la questione determinante è il dispiegamento del ventaglio corticale al momento in cui l’organizzazione schelettrica si stabilisce. La corteccia dei ‘prensori’ comporta già delle aree tecniche nel senso in cui la tecnicità fabbricatrice nasce evidentemente dalla prensione” [TT-I, p. 158].
di una spiegazione della tecnica come capacità suppletiva di tali carenze, ma di integrare, semmai, tale spiegazione zoologica della tecnica con una spiegazione tecnologica dell’anatomia (come emerge dal brano appena citato). Stiegler, insomma, rimprovera a Leroi- Gourhan di spingere troppo oltre la spiegazione zoologica, cioè fino a ridurre sia l’insorgenza che l’evoluzione delle tecniche (almeno fino a Neanderthal), ad un riflesso incondizionato dell’evoluzione della corteccia cerebrale sconfessando, di fatto, l’originaria intuizione dell’esteriorizzazione tecnica come vera e propria rottura dell’ordine biologico del vivente. Esteriorizzazione, dice Stiegler, “che deve essere compresa meno come una rottura con la natura che come una nuova organizzazioe della vita – la vita che organizza l’inorganico organizzandosi, così, essa stessa” [TT-I, p. 172]. Per questo motivo “la stessa evoluzione corticale potrebbe essere codeterminata
dall’esteriorizzazione, dal carattere non genetico dell’utensile” [TT-I,
p. 165]. Una tale rottura del processo evolutivo è possibile solo se supponiamo che, insieme al primo ciotolo scheggiato, sia già posta una forma di anticipazione del futuro, cioè una forma di interiorità tecnica. “Se”, in questi primi momenti in cui l’uomo fa la sua comparsa,
non c’è [ancora] coscienza nel senso di «coscienza creatrice» né, dunque, nel senso di ciò che noi chiamiamo ordinariamente coscienza, se non c’è che una coscienza tecnica che non è tuttavia il semplice comportamento automatico o programmatico-genetico di un animale fabbricatore, deve esserci anticipazione. […]
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“La proiezione della mano e degli oggetti della mano verso ciò che si mantiene sempre più fuori della sua portata appare subito, nell’Australantropo, come una «vera conseguenza anatomica, unica soluzione per un essere diventato, nella sua mano e nella sua dentatura, inerme». È a partire da questa comprensione inizialmente zoologica della tecnica che può essere posta la questione della sua eventuale autonomia originaria, del suo movimento filogenetico proprio” [TT-I, pp. 159-60].
Anticipazione vuol dire realizzazione di un possibile non determinato da una programmazione biologica.
[…E] non c’è [inversamente] anticipazione, non c’è tempo, fuori da questo passaggio all’esterno, fuori da questa messa fuori di sé e da questa alienazione dell’uomo e della sua memoria rappresentata dall’«esteriorizzazione». [TT-I, pp. 160-2]
La nascita o invenzione dell’uomo come elaborazione e iscrizione della sua memoria attraverso e con l’inorganico181, non è che una tappa della storia generale della vita come orizzonte a partire dal quale Stiegler propone la sua lettura del rapporto tra temporalità e tecnica. La temporalità viene introdotta nella storia della vita solo dal momento in cui vi è anticipazione. E non c’è anticipazione senza tecnica, senza esteriorizzazione. Così, porre “la questione della nascita dell’uomo [nella tecnica], è porre la questione della «nascita della morte» o del rapporto alla morte” [TT-I, p. 148], cioè la questione del rapporto dell’uomo al tempo come al proprio futuro. Per questo il
primo uomo ad essere stato morto, «o piuttosto ad essere dato per morto», è quello del primo presente, della prima estasi temporale del passato, del presente e del futuro: un passato che non è mai stato presente dona un presente che non si concatena a nessun presente passato. [TT-I, p. 149]
L’estasi temporale dell’essere-per-la-morte come possibilità offerta all’esserci di appropriarsi della sua temporalità autentica, sarebbe così resa possibile solo da quell’“esteriorizzazione” tecnica di cui parla
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Si veda il brano seguente in cui, riconoscendo alla lettura di Leroi-Gourhan il merito di aprire “la questione della possibilità – del tempo – a un approccio che si emancipa largamente da una comprensione antropocentirca della dinamica tecnologica”, viene esplicitamente affermato che l’elaborazione della memoria che si conserva nell’oggetto tecnico non precede l’organizzazione dell’oggetto tecnico: l’approccio di Leroi-Gourhan, allora, “permette di apprendere la costituzione della temporalità dall’emergenza di una memoria che si elabora e
Leroi-Gourhan e che Deridda riprende nella sua Della grammatologia. È la “«possibilità di una messa in riserva»” [TT-I, p. 148] del presente nella sopravvivenza futura dell’oggetto tecnico che dona il tempo all’uomo. Ma, se prima dell’emersione di un oggetto tecnico quale che fosse, il passato non poteva essere passato perché non era mai stato presente – dato che può essere presente solo in un oggetto tecnico che mette in riserva il proprio presente per il futuro – allora neppure il
passato esiste prima della tecnica. Con le dovute distinzioni,
ritroveremo il paradosso di un passato che non è mai stato presente, quando analizzeremo la tecnica fotografica e vedremo che, benché ciò che io vedo in una foto possa non essere mai stato vissuto da me come
presente – perché ad esempio proviene da un passato che precede la
mia nascita – tuttavia esso è stato presente una volta (è ciò che mi dice
evidentemente l’immagine fotografica che ho sotto gli occhi).
La presenza del tempo nell’oggetto tecnico non può, allora, non porre il problema della coscienza che coglie tale presenza. Senza tecnica, o gramma182, come si esprime Derrida, non c’è différance, non c’è cioè vita come rapporto della ‘coscienza’ al tempo (o alla morte):
La différance è la storia della vita in generale, nella quale si produce un’articolazione, tappa della différance da cui emerge la possibilità di fare apparire il gramma in quanto tale, cioè la «coscienza». [TT-I, p. 148]
La coscienza come interiorità supposta esteriorizzarsi nel processo tecnico, non può manifestarsi a se stessa che attraverso il “gramma in
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“Se la grammatologia pensa la grafia e se, con ciò, essa pensa il nome dell’uomo, essa lo fa elaborando un concetto di différance che fa appello alla paleo-antropologia di Leroi-Gourhan e nella misura in cui questa non descrive soltanto «l’unità dell’uomo e dell’avventura umana attraverso la semplice possibilità della grafia in generale [ma] piuttosto una tappa o un’articolazione nella storia della vita – come storia del gramma»” [TT-I, p. 147].
quanto tale”, cioè, citando Derrida, come presa di coscienza dell’oggetto tecnico in quanto
«traccia che, dai programmi elementari di comportamenti detti ‘istintivi’ fino alla costituzione dei calcolatori elettronici e delle macchine da leggere, elargisce la différance e la possibilità della messa in riserva». [ibidem]
Senza traccia non si dà alcuna coscienza intenzionale alla morte, quindi al tempo, per cui il primo uomo a morire, o ad essere dato per morto, è l’uomo che può rimirare la costituzione della propria coscienza nell’oggetto tecnico. Il disvelamento della coscienza in un oggetto tecnico costruito non è che uno dei modi di darsi della traccia, la quale sempre si manifesta anche in oggetti naturali: anche il vento del sud che annuncia la pioggia e un’orma lasciata sulla neve – per quanto non fabbricati – per essere compresi in quanto tali, in quanto grammi, presuppongono il disvelamento e l’apertura della coscienza al futuro (ricordiamoci della critica heideggeriana alla tecnica come fabbricazione e produzione). Ecco perché la différance del gramma è più vecchia della scrittura e delle altre tecniche in senso stretto183, e coincide con l’oggetto tecnico solo se siamo in grado di pensarlo non più come prodotto dell’uomo ma come disvelamento dell’essere o della natura al tempo.
Ora, se è evero che non c’è esser-già [déja-là] che come sedimentazione epigenetica, ciò è possibile solo nella misura in cui la trasmissione permessa dai sedimenti ha un’essenza assolutamente tecnica: non vivente, resa possibile da quella
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Stiegler ricorda come per Derrida, in riferimento a quanto detto più sopra sulla correlazione tra faccia e mano quali organi preposti alla specificazione di due tecniche – quella linguistica e quella operativa (e grafica) – e relativamente alla loro connessione nella corteccia cerebrale, dice che “l’architraccia è più vecchia della specificazione delle due aree e delle costituzione di queste zone d’associazione, e permette di reinterpretare l’insieme del movimento di esteriorizzazione come différance” [TT-I, p. 159].
materia organizzata, benché inorganica, che è sempre la traccia, si tratti di utensile o di scrittura, ovvero di organon in generale. [TT-I, p. 151]
L’epigenesi è il processo di individuazione attraverso cui il vivente, nella misura in cui non è determinato geneticamente a certe risposte acquisisce e attiva nella sua interazione con l’ambiente ciò che sarebbe destinato a perire con l’uomo, se non si depositasse come memoria nell’oggetto tecnico.
Il fenomeno della vita che è il Dasein, si singolarizza nella storia del vivente in quanto nel suo caso lo strato epigenetico della vita, lungi dal perdersi con il vivente allorché perisce, si conserva e si sedimenta […]. Questa sedimentazione epigenetica, memorizzazione di ciò che è accaduto, è ciò che si chiama il passato e che noi chiameremo l’epifilogenesi dell’uomo, nel senso della conservazione, dell’accumulazione, della sedimentazione delle epigenesi successive e tra loro articolate, rottura con la vita pura nel senso in cui nella vita pura l’epigenesi è proprio ciò che non si conserva. [TT-I, pp. 150-1]
Il neologismo epifilogenesi sarà fondamentale in tutta l’analisi di Stiegler perché esprime il ripercorrimento dell’intera filogenesi tecnica che l’individuo attualizza nella sua esperienza con il mondo degli oggetti tecnici organizzati in sistema. Veniamo così a dare un nome a quell’esteriorizzazione originaria che è l’oggetto tecnico: nella misura in cui esso non è il semplice “risultato dell’anticipazione” o la mera realizzazione in “atto” di una capacità in “potenza” detenuta dall’uomo, ma la “condizione di ogni anticipazione” [TT-I, p. 162], il suo nome sarà «pro-tesi». Esso non sta a significare, dice Stiegler, ciò che viene a “rimpiazzare ciò che sarebbe stato là una volta e che si sarebbe poi perduto” ma ciò che si “aggiunge” in quanto “posto davanti, o spazializzazione (al-lontanamento)” e “posto in anticipo, già là (passato) e anticipazione (previsione), cioè temporalizzazione”
[ibidem]. Anche per la produzione di un semplice chopper è richiesto all’uomo un grado di anticipazione che gli proviene dall’utensile stesso. Questa anticipazione non è diversa dal “momento stesso della riflessione, dell’affezione di sé come ritorno a sé” [TT-I, p. 163]. Con l’evoluzione della tecnica l’anticipazione “si affina e si complica” e dà così conto di quella produzione litica più complessa che richiede un maggior grado di anticipazione, come accade nelle punte e nelle lame di Neanderthal, che testimoniano di un artefatto concepito in negativo, cioè ottenuto non più dalla diretta trasformazione dell’oggetto trovato, ma dalla lavorazione della parte ricavata dalla sua previa scheggiatura184. L’evoluzione della tecnica come evoluzione dell’anticipazione che vi si realizza
non è più semplicemente determinata da quella del chi in quanto zoon, dal chi in quanto vivente […ma] dall’evoluzione del che-cosa che ha, di ritorno, un effetto sul chi e comanda, in una certa misura, la sua popria differenziazione. [TT-I, p. 163]
Ecco com’è possibile spiegare in termini non biologici ma tecno-
logici, la lenta evoluzione che dal Zinjantropo conduce al Neantropo
(Neanderthal) e anche lo sviluppo successivo della tecnica dell’homo
sapiens, quando ormai il patrimonio genetico dell’uomo si è
stabilizzato e la velocità dell’evoluzione tecnica si sostituisce alla lentezza dell’evoluzione biologica.
Uno vero spartiacque tra anticipazione semplice e complessa, così come tra coscienza tecnica e coscienza creatrice, per Stiegler non esiste. Ed è ciò che rimprovera a Leroi-Gourhan di non cogliere, nel momento in cui introduce la distinzione tra una “«coscienza tecnica»”,
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A questo proposito si vedano le imprescindibili analisi che Garroni sviluppa, a partire proprio da Leroi-Gourhan, intorno alla meta-operatività dell’operazione tecnica nel suo rapporto alla meta-linguisticità della significazione linguistica; si veda E. Garroni,
emanazione diretta della specificità biologica dell’umano guidata o regolata dall’istinto di conservazione della vita, e una “«coscienza non tecnica»” quale “facoltà di simbolizzazione” [TT-I, p. 170] libera o affrancata dal soddisfacimento delle esigenze vitali. Il paleoantropologo non farebbe così che riproporre, spostandola più avanti, quella seconda origine tanto contestata a Rousseau (sulla quale Stiegler si era soffermato nel II capitolo del I volume de La tecnica e
il tempo) e a partire dalla quale l’uomo comincerebbe ad associarsi.
Distinguere in successione homo faber da homo sapiens, adducendo come discrimine una diversa configurazione della corteccia cerebrale, significa di fatto reintrodurre la distinzione corpo/spirito lasciando del tutto indeterminata l’origine di una tale separazione, visto che, se per la coscienza tecnica l’origine era stata individuata nel processo di esteriorizzazione – seppure inteso in maniera talvolta ambigua – non altrettanto si potrebbe fare per una coscienza simbolica o spirituale, libera, com’è, dalla necessità di garantire la sopravvivenza dell’individuo. Ed è indubbio, del resto, che a partire dagli ultimi Paleantropi e sempre più spesso con Neanderthal, l’uso della sepoltura