II.4 Excursus sul sublime kantiano
II.4.3 L’esperienza del sublime
Se in ciò che giudichiamo sublime “la sua semplice grandezza, anche se considerata priva di forma, può comportare un compiacimento” [§ 25, p. 85], chiediamoci perché e come nella valutazione estetica si “produce quell’emozione che una valutazione
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L. Scaravelli, “La struttura trascendentale del sublime”, in Osservazioni sulla «Critica del
Giudizio» tratto da Scritti Kantiani, op. cit., pp. 465-6. Scaravelli, come Lyotard, pone
l’accento sul processo di sovrapposizione tra sintesi dell’apprensione, della riproduzione e della ricognizione, rilevando che è in ragione del tempo, secondo il modo della simultaneità e dell’ordine più che come successione, se il molteplice dell’esperienza può costituirsi come fenomeno per noi. E che proprio lo schematismo dell’immaginazione interviene ad attivare la “continuità di questo processo” e “l’indifferenza di questo processo verso le varietà qualitative del molteplice che viene sintetizzato”, così da fare della quantità omogenea dei fenomeni dell’esperienza, a scapito della loro forma e qualità, “uno dei tre elementi che costituiscono la condizione trascendentale che sta a base della possibilità del sentimento del sublime”; Id., p. 462.
matematica della grandezza mediante numeri non può provocare” [§ 26, p. 87]. Essa si produce perché quella valutazione opera senza alcuna comparazione “oggettiva” con altre grandezze della stessa specie. Ma neppure una comparazione “soggettiva” sembra convenire al sublime se è vero che “non si può dare nulla nella natura che, per quanto sia giudicato grande da noi, non possa essere degradato, considerato in un diverso rapporto, all’infinitamente piccolo…” [§ 25, p. 86]. Anche in una valutazione estetica di questo tipo, in cui non vogliamo stabilire quanto un oggetto sia grande, ma solo se sia più o meno grande di altri, continuiamo a comparare, sia pure “soggettivamente”, le grandezze tra di loro. Quindi, non è un “oggetto dei sensi”, valutato più grande di altri, a poter essere giudicato “assolutamente grande” (sublime),
ma l’uso che la facoltà del giudizio fa in modo naturale di alcuni oggetti in favore di quest’ultimo (sentimento) […]. Quindi è la disposizione dello spirito all’accordo mediante una certa rappresentazione che occupa la facoltà riflettente di giudizio, che si deve dire sublime, non l’oggetto. [ibidem]
Il prinicipio soggettivo alla base del giudizio di sublime, se è vero che deve essere un giudizio estetico, andrà ricercato in altro che in una comparazione, sia pure soggettiva, tra grandezze. Intanto notiamo che, benché sia più giusto riferire il sentimento sublime alla nostra “disposizione d’animo” che non all’oggetto, il “momento oggettuale” – e cioè che “una certa rappresentazione” occupi la nostra riflessione – è pur sempre necessario perché si produca quel “sentimento”. Infatti, come per i giudizi di gusto, occorre fare un’esperienza determinata,
cioè consegnata ad un “oggetto dei sensi”, di ciò che diciamo sublime145.
In ogni caso, per Kant viene giudicato sublime solo ciò che, al di là di ogni comparazione tra grandezze, “esibisce la grandezza assoluta, fin dove l’animo può coglierla in una intuizione” [§ 26, p. 87]. Abbiamo accennato che questa capacità di “comprensione estetica” dell’immaginazione è limitata, infatti “procedendo questa all’apprensione di ulteriori rappresentazioni parziali, […] perde da un lato tanto quanto guadagna dall’altro” [§ 26, p. 88], così da non essere
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Kant, nel tentativo di reperire il principio di determinazione (Bestimmungsgrund) del puro giudizio di sublime, riconduce tale sentimento al territorio dell’esperienza sensibile, alla “natura bruta”, nel momento stesso in cui cerca di sottrarlo all’arte così come ad ogni tipo di mediazione concettuale: “se il giudizio estetico deve essere dato come puro […], non si deve dire che il sublime sta nei prodotti dell’arte (per esempio edifici, colonne, ecc.), dove uno scopo umano determina tanto la forma, quanto la grandezza, e neanche in cose della natura il
cui concetto comporti già uno scopo determinato (per esempio, animali di cui sia nota la
destinazione naturale), ma piuttosto nella natura bruta […], semplicemente in quanto ha in sé una grandezza” [§ 26, pp. 88-9]. Ritorneremo sull’esclusione delle opere d’arte o tecniche dall’esperienza del sublime perché tale esclusione, trascendentalmente non perseguibile, andrà interpretata come un esperimento ideale finalizzato al reperimento di quel principio di determinazione (Bestimmungsgrund) che, solo nella sua purezza presunta, può legittimare una trattazione critica e una deduzione trascendentale dei giudizi che ne derivano. Relativamente al rapporto tra arte e principio di determinazione nei puri giudizi di gusto ricercato da kant nell’Analitica del bello, si veda l’imprescindibile studio di E. Garroni, Estetica, op. cit. pp. 121-141. Ma nel caso del sublime il discorso dovrà essere diverso perché, se nei giudizi che riguardano la bellezza il rapporto con l’“arte bella” era già legittimo, qui, sebbene possibile, è invece ancora tutto da legittimare. Del resto Garroni non tratta, se non marginalmente, del sublime ma comunque sollevando riserve sull’esclusione dell’arte, in altri luoghi più cauta anche in Kant, dall’esperienza del sublime. Si vedano, a tale riguardo, le pagine 210-213, soprattutto la nota 28: “Kant lo afferma con una certa decisione nel § 26 […], ma, poco prima, era stato più cauto: «prendiamo in considerazione innanzi tutto, come è giusto, solo il sublime negli oggetti della natura (quello dell’arte è sempre limitato infatti alle condizioni dell’accordo con la natura» [… § 23, p. 81]. Ciò sembra voler dire che il sublime, come esperienza-limite, non appartiene all’arte, che preseuppone il conseguimento di uno scopo da parte dell’artista e un libero accordo delle facoltà, quindi un proporzionamento dell’immaginazione rispetto all’intelletto, che nel sublime è escluso in partenza; e che tuttavia si ammette che, anche a tali condizioni, sia possibile rintracciare una qualche subordinata sublimità nelle opere d’arte.”
in grado di comporre in un’unità simultanea – cioè trattenendo nell’immaginazione le unità già trascorse – tutte le misure di base che via via le sono offerte dall’apprensione. Per quel che riguarda la limitatezza estetica della comprensione Lyotard formula un paragone con il campo visivo:
Quella è a misura della «comprensione» come questo «a misura degli occhi». Il campo visivo è limitato, la grandezza che può abbracciare in un sol colpo la facoltà di presentazione è misurata da un massimo. Questo massimo è «determinato soggettivamente». Il pensiero che presenta prova, sente di essere trattenuto da un limite invalicabile nell’estensione della sua intuizione attuale. Questo limite è l’assoluto, soggettivamente o esteticamente sentito, di ciò che esso può afferrare in materia di grandezza presentabile. [LAS; p. 128]
Il paragone è esplicativo146 di come la com-prensione – alla lettera: la capacità di prendere il molteplice insieme in una volta – abbia un limite intrinseco che il soggetto che valuta esteticamente le grandezze può sentire, in quelle esperienze dette sublimi, come assoluto: “e di questo massimo dico che, se viene giudicato come misura assoluta al di là della quale non è possibile soggettivamente (al soggetto giudicante) una misura maggiore, esso comporta l’idea del sublime e produce quell’emozione…” [§ 26, p. 87, corsivo nostro]. Vedremo più avanti che l’ipotetica è significativa. Nella valutazione matematica
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Benché in parte fuorviante, perché se condotto fino alle estreme conseguenze ridurrebbe il trascendentalismo kantiano, che pure viene messo a dura revisione nella terza Critica, a una sorta di empirismo, senza più alcuna distinzione critica tra una considerazione di ordine trascendentale e una di ordine empirico: mentre i limiti della forma dell’intuizione sono trascendentali, cioè costitutivi dell’esperienza in generale, e in questo senso soggettivi e rilevabili solo tramite una riflessione “euristica” (come rileva lo stesso Lyotard nel primo capitolo delle sue Leçons sur l’Analytique du sublime), quelli del campo visivo sono empirici, fenomenici, e dunque, per Kant, conoscibili oggettivamente solo grazie ai primi. Relativamente al significato del trascendentalismo delle forme dell’intuizione, si veda l’“Introduzione” di V. Mathieu a I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari, 1995 (1ª ed. 1977), pp. XIV-V.
delle grandezze era l’intelletto che impediva all’immaginazione di collassare su se stessa fornendole i concetti numerici su cui appoggiare il processo potenzialmente illimitato di composizione del molteplice. Ora, invece, “nello sforzo di estenderlo”, l’immaginazione sente il proprio limite – essa “ricade in se stessa” – anche se stranamente147 ciò la pone “in un compiacimento emozionante” [§ 26, p. 88]. Allora, chiediamoci, come avviene che, in occasione di questi fenomeni che ci fanno toccare il limite estetico della nostra comprensione intuitiva, nasca quella certa “disposizione d’animo” che chiamiamo “sublime”? Kant dice che ciò avviene non solo perché “nella nostra immaginazione c’è una tensione verso un progresso all’infinito” – in se stesso fallimentare e frustrante – ma anche perché “c’è nella ragione un’esigenza di totalità assoluta come di un’idea reale” [§ 25, p. 86]. La tensione infinita dell’immaginazione che si manifesta nella composizione matematica delle grandezze, è conforme all’intenzione dell’intelletto di adeguare ogni misura ad ogni grandezza data, quindi non ha bisogno di “nulla che costringa a spingere la grandezza della misura, e quindi della comprensione dei molti in una intuizione, fino ai limiti della capacità dell’immaginazione” [§ 26, p. 90]. Ma di fronte a certi fenomeni – alla “natura bruta” – è la ragione, venuta a sostituirsi all’intelletto nella
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La cosa strana è che un tale compiacimento sia “legato con una rappresentazione da cui uno meno dovrebbe aspettarselo, tale cioè che ci faccia avvertire la sua inadeguatezza e di conseguenza anche la sua non conformtà soggettiva a scopi per la facoltà di giudizio nella valutazione della grandezza” [§ 26, p. 88]. Così Kant, prima di proporre la soluzione a tale problema, si domanda: “Poiché tutto ciò che deve piacere senza interesse alla facoltà di giudizio semplicemente riflettente deve comportare, nella sua rappresentazione, una conformità soggettiva a scopi e in quanto tale valida universalmente […], qual è questa conformità soggettiva a scopi? e in qual modo essa viene prescritta come norma, per dare ragione del compiacimento universale nella semplice valutazione della grandezza, e precisamente di quella che è spinta fino all’inadeguatezza della nostra capacità dell’immaginazione nell’esibizione del concetto di una grandezza?” [§ 26, p. 89].
guida dell’immaginazione148 – ad esigere da essa la comprensione delle grandezze in un tutto, “anche per quelle che, pur non potendo mai essere completamente apprese, possono tuttavia essere giudicate (nella rappresentazione sensibile) come completamente date” [§ 26, p. 90]149. L’essere “date” di queste grandezze, o fenomeni, è un carattere che viene precisato continuamente in queste osservazioni kantiane, come se fosse il perno attorno a cui fare ruotare la dinamica delle facoltà conoscitive.
Ora, l’idea della comprensione di un qualsiasi fenomeno, che possa esserci dato, nell’intuizione di un tutto è un’idea che ci viene imposta mediante una legge della ragione, che non riconosce alcuna altra misura determinata, valida per ognuno e immutabile, se non il tutto assoluto. [§ 27, p. 93]
Sebbene di fronte a ciò che è “dato” ed è sentito come “assolutamente grande” le esigenze della ragione debbano essere disattese dall’immaginazione – che, nonostante lo sforzo comprensivo, non può fare a meno di perdere da una parte tante unità quante ne guadagna dall’altra –la ragione dimostra che, “anche [soltanto] poterlo pensare come un tutto indica una capacità dell’animo che supera ogni misura dei sensi” [§ 26, p. 91]. Il potere della ragione di pensare qualsiasi fenomeno dato come un tutto – anche quando non ne possono essere esibiti i limiti o la forma – “è però posto a sostrato dell’intuizione del mondo, […così che] l’infinito
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“Ora, però, l’animo dà ascolto dentro di sé alla voce della ragione…” [§ 26, p. 90]. 149
A dispetto di un’apparente confusione tra le operazioni di comprensione e di apprensione già distinte da Kant, è chiaro che col termine “apprese” viene ora designata la comprensione grazie all’uso dell’avverbio che ad essa ci riconduce: “completamente (cioè scecondo la sua totalità)” [§ 26, p. 91]. La stessa apparente confusione si ritrova nella definizione del “colossale […come] la semplice esibizione di un concetto […che è resa] difficile dal fatto che l’intuizione dell’oggetto è presso a poco troppo grande per la nostra facoltà dell’apprensione” [§ 26, p. 89, ultimo corsivo nostro], dove è chiaro che si fa riferimento alla comprensione.
del mondo dei sensi viene interamente compreso sotto un concetto” [ibidem]. Questa “idea di noumeno” [ibidem] – come tutto che sfugge alle forme della sensibilità e anzi viene presupposto da esse – sarebbe l’assunto primitivo non ulteriormente risalibile e presupposto da Kant alla base di tutta l’argomentazione sul sublime150. L’esperienza sublime, allora, sarebbe in grado di fare emergere la ragione come quella facoltà che, come ricorda Lyotard, secondo Kant ci appartiene come nostra più propria “destinazione”:
C’è dunque, nel sentimento sublime, la sensazione provata dal pensiero che un «appello» è rivolto in esso a una forza che non è «natura». Questa sensazione è una soddisfazione esaltante, dunque un piacere vivo […] perché questo appello attualizza, nello stesso tempo in cui la scopre, la destinazione (Bestimmung) […] del potere del pensiero in ciò che esso ha di più vivo. [LAS, p. 149-150]
Viene così descritta e legittimata, soprattutto nel § 27, quella speciale conformità delle nostre facoltà che, risorta sulle ceneri di una conformità che la sola facoltà intuitiva da sola non poteva esibire, viene presupposta (ma forse prodotta al tempo stesso), dal sentimento del sublime, come fonte dell’esaltazione per un’esperienza che invece dovrebbe rivelarsi disforica per il nostro animo.
Il sentimento del sublime è dunque un sentimento di dispiacere derivante dall’inadeguatezza dell’immaginazione, […] ed è un piacere, che nello stesso tempo viene così risvegliato, derivante dall’accordo di questo stesso giudizio dell’inadeguatezza della massima capacità sensibile rispetto alle idee della ragione
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“Le limitazioni, le forma, gli schemi, le regole concettuali, le illegittimità, le illusioni che la critica non cessa di opporre a questo potere non hanno alcun senso se non si ammette innanzitutto che la presupposizione, quasi segreta, del pensiero kantiano è che ci sia il pensiero e che sia assoluto. Ora, è ciò che gli dice «la voce della ragione» nel sentimento sublime e che lo esalta” [LAS, p. 152].
[…Ed] è conforme a scopi, e quindi è un piacere, trovare che ogni unità di misura della sensibilità è inadeguata alle idee della ragione. [§ 27, pp. 93-4]
Viene così data risposta anche alla nostra domanda intorno al tipo di valutazione (confronto) presupposta stare alla base del giudizio estetico di sublime: “appartiene alla nostra destinazione stimare piccolo, in confronto alle idee della ragione, tutto ciò che di grande per noi c’è nella natura in quanto oggetto dei sensi” [§ 27, p. 94]. L’oggetto (la grandezza) sensibile presentatoci dalla facoltà dell’esibizione (l’immaginazione) e che inappropriatamente – “surrettiziamente”, dice Kant – giudichiamo sublime, non viene confrontato con altre grandezze della stessa specie (sia pure soggettivamente), ma con la stessa facoltà delle “idee della ragione”. O, meglio, attraverso l’oggetto, sono le facoltà in goico nell’esperienza che risultano essere così confrontate:
Il giudizio stesso rimane in ciò sempre solo estetico, perché, senza avere a fondamento un concetto determinato di oggetto, rappresenta come armonico soltanto il gioco soggettivo delle facoltà dell’animo (immaginazione e ragione) perfino mediante il loro contrasto [ibidem].