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Dopo questo lungo cammino dobbiamo ritornare, per concludere, a Marin. La nostra ipotesi è che, benché non in maniera teoreticamente esplicita, quando l’autore discute del rapporto tra rappresentazione e molteplice dell’esperienza affronti in realtà le medesime questioni indagate trascendentalmente da Kant. Quando Marin discute del rapporto tra il tutto e le sue parti, dell’unità e del molteplice, ora muovendo da Pascal e facendo considerazioni sull’esperienza più ordinaria – una città vista da lontano… – ora discutendo della rappresentazione del potere assoluto di Luigi XIV – “l’ordine di un percorso d’osservazione […] può racchiudere nella sua trama l’infinità della meraviglia regale…” – egli non fa altro che porsi il problema della struttura trascendentale dell’esperienza in generale da un punto di vista sublime, cioè della quantità e della qualità delle grandezze che possono essere apprese da uno sguardo. In Marin, anzi, il punto di

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vista sembra proprio emergere come quella condizione ancora più originaria dell’esperienze sublime – nel senso di una condizione

ancor più vicina al sensibile e al contingente, e dunque non assegnabile al di fuori di un’esperienza effettiva, di una rappresentazione – che in qualche modo non poteva non fare difetto in una giustificazione trascendentale del giudizio sublime166. Eppure Kant, come ci indicano gli esempi che fa, ha avvertito questo problema. Non esistono oggetti che, a prescindere dal nostro punto di vista, possano essere definiti troppo grandi per la nostra facoltà intuitiva, perché il suo limite si sposta con essa, sia fisicamente che immaginativamente – come ci ricorda il brano in cui il pensiero da un albero passa a considerare una montagna, il raggio terrestre, le galassie... Solo facendo tale assunzione, dice Kant,

si puo spiegare ciò che Savary annota nei suoi resoconti dall’Egitto: che non ci si debba avvicinare molto alle Piramidi, né tanto meno si debba stare troppo lontani da esse, per avere tutta l’emozione della loro grandezza. Infatti, se si dà il secondo caso, le parti che vengono apprese (le pietre sovrapposte delle Piramidi) sono rappresentate solo oscuramente e la loro rappresentazione non ha effetto sul giudizio estetico del soggetto. Ma, se si dà il primo caso, l’occhio ha bisogno di un certo tempo per completare l’apprensione dalla base alla cima; e allora però svaniscono sempre, parzialmente, le parti iniziali, prima che l’immaginazione abbia appreso le ultime, e la comprensione non è mai completa. [§ 26, p. 88]167

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Del resto la varietà di esperienza sublimi di cui dà conto Kant è veramente scoraggiante per chi volesse anche solo pensare di catalogarle o classificarle al fine di chiarirne le condizioni empiriche di possibilità: da un atteggiamente di umiltà verso il proprio comportamento inadeguato, allo spettacolo di un mare in tempesta; dalla vita ritirata che non ha bisogno della compagnia ma che neppure rifugge il contatto con gli uomini, all’azione elevata che non si cura dei propri beni (compresa la propria vita); da un comandamento biblico alla guerra condotta secondo i principi dei diritti civili (si confrontino i §§ 28-30, oltre agli esempi che riporteremo).

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Viene qui confermato quanto accennato in nota più sopra, e cioè che il sublime si addice anche alle opere dell’uomo, perché se ad esse può convenire, come sembra, il predicato di “colossale”, è perché se anche richiedono la mediazione di un concetto – fosse anche quello

 

L’esempio ci dice che c’è un’intuizione giusta senza la quale l’esperienza del sublime non si produce: non si deve stare né troppo lontani né troppo vicini all’oggetto da valutare perché si produca l’emozione che può procurare tutta la loro grandezza. Il concetto di punto di vista ci offre allora l’occasione di ridiscutere quel rapporto tra misura di base e grandezza da valutare in un’intuizione già emerso in precedenza. Se stiamo troppo lontani dalle pietre delle piramidi, esse non possono essere comprese come misure di base, perché non sono colte distintamente in un’unica intuizione e quindi non possono neppure essere comprese immaginativamente in un tutto simultaneo. Mentre se stiamo troppo vicini, esse emergono sì, distintamente, ma oscurando l’unità più ampia di cui fanno parte: a fianco, sopra e sotto ci sono altre pietre ma quelle che via via vengono apprese risultano non essere altro che parti tra altre parti di cui sfugge, per così dire, l’aggregato. Invece, se siamo nel punto in cui, pur distinguendo le pietre singole, abbiamo anche l’intuizione del tutto dato di cui esse fanno parte, e proviamo a collazionarle simultaneamente nell’immaginazione – e però la composizione fallisce perché l’immaginazione non riesce a tenerle tutte insieme simultaneamente – allora si produce quell’esperienza che chiamiamo sublime. Perché si

       molto generico di costruzione dell’uomo – per apparirci colossali, esigono quella valutazione estetica che ci fa sentire che la “esibizione d’un concetto viene reso difficile dal fatto che l’intuizione dell’oggetto è quasi troppo grande per la nostra facoltà dell’apprensione” [§ 26, p. 89] (leggi: comprensione). È vero che in questo caso l’esibizione è riferita ad un concetto comunque determinato, che in quanto tale dovrebbe escludere il sublime, ma in realtà esso è allo stesso tempo talmente indeterminato, o non determinato nel senso che ci interessa della grandezza, da non essere capace di dettare le misure oltre le quali, intellettualmente, dovremmo definirlo “colossale”. Chi può dire quanto deve essere grande una costruzione dell’uomo perché possa essere oltrepassata? Quindi, come negare che qui Kant stia descrivendo un’esperienza non determinata dai concetti che comunque una qualsiasi esperienza non può non implicare, ma da una valutazione estetica sublime?

 

dia esperienza sublime, allora, non può essere sufficiente che i molti sensibili (le pietre) superino il limite della comprensione – come semplicemente accade quando siamo troppo vicini alle Piramidi – ma che anche il tutto in cui esse rientrano sia in qualche modo dato in un’intuizione, come sembrava suggerire il passo che precedeva immediatamente: “la grandezza che viene appresa può essere accresciuta quanto si vuole, purché la si possa comprendere mediante l’immaginazione in un tutto” [§ 26, p. 89]. E all’articolazione di queste parti in un tutto presiede, in Marin, la rappresentazione come messa in figura del senso.

L’altro esempio kantiano, quello che riferisce dello “sbigottimento, o quella specie di imbarazzo che, come si racconta, coglie lo spettatore che entra per la prima volta nella chiesa di S. Pietro”, ci avvicina ancora di più all’argomentazione mariniana nel momento in cui ci permette di affiancare il “sentimento dell’inadeguatezza della sua immaginazione rispetto alle idee di un tutto, al fine di esibirle [§ 26, p. 88] e quello provato dal visitatore di Versailles che si trova a dover comporre in un tutto le rappresentazioni della potenza del monarca assoluto. Il punto di vista che lo spettatore è chiamato ad occupare durante tutta la sua permaneza all’interno della basilica o nei giardini regali, non è né casuale né libero, perché progettato ad arte e dunque “conforme” alle intenzioni dell’artista. E tuttavia, a dispetto di quanto aveva sostenuto Kant nelle pagine precedenti168 e a ragione di quanto sostiene Marin, questo accordo tra immaginazione e intelletto può creare le condizion perché un’esperienza sublime si produca.

Non sappiamo se del tutto consapevolmente ma certamente in maniera sempre più insistente, si fa strada in Marin l’idea che debba darsi una condizione figurativo-immaginativa dell’esperienza –

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soprattutto in Le Portrait du Roi e in diversi saggi raccolti in De la

représentation – non assegnabile né alla sola performatività dello

sguardo di un soggetto né tanto meno ad un presunto ordine del molteplice sensibile. Una condizione grazie alla quale l’esperienza si organizza in maniera sensata e che la rappresentazione, in quanto

messa in figura del senso, esibisce al meglio, ad esempio nel momento

in cui la rappresentazione del potere ci fa sentire di rovesciarsi in potere della rappresentazione. In questo luogo, che Marin chiama dimensione opaca o riflessiva della rappresentazione come condizione trascendentale non disgiunta dalla sua dimensione transitiva (una figura, un rappresentato), indagine kantiana e riflessione ermeneutica sembrano schiudere una stessa condizione dell’esperienza: trascendentale-empirica nel primo caso, contingente-ontologica nel secondo.

 

Parte Seconda

Bernard Stiegler: la temporalità tecnica dell’immagine

“L’invenzione dell’uomo: […] «Chi» o «che-cosa» inventa? «Chi» o «che-cosa» è inventato? L’ambiguità del soggetto, e allo stesso modo l’ambiguità dell’oggetto del verbo (inventa), non traduce nient’altro che l’ambiguità del senso stesso di questo verbo. Il rapporto che lega il «chi» e il «che-cosa» è l’invenzione. […E] se il «chi» fosse la tecnica? E se il «che-cosa» fosse l’uomo?”

  Capitolo III: Tecnica e tempo