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Nelle ultime pagine del romanzo, Alessandra racconta del processo e della vita in prigione. Durante la sua deposizione in tribunale, la protagonista decide di tacere perché sente che non sarà capita: tutte le persone che hanno testimoniato lo hanno fatto contro di lei, tranne la Nonna, la quale si rivela essere l’unica che davvero conosce e comprende la nipote. La difficoltà di esprimersi di Alessandra è dovuta anche, come afferma lei stessa, al fatto che tutto l’apparato della magistratura è composto da uomini, che difficilmente sarebbero in grado di intendere le ragioni interiori che l’hanno portata a quel gesto disperato. Quando la conducono in una stanzetta per l’interrogatorio, la giovane inizia a raccontare la sua versione dell’accaduto, ma, alla sua sincerità, il giudice risponde

46 sarcasticamente, incredulo, come era solito fare suo padre. Lei intuisce, allora, che quell’uomo non l’avrebbe capita, così come, probabilmente, sarà stato sordo alle ragioni delle donne di casa sua; non comprendeva la difficoltà di Alessandra di esprimere in poche parole e citando fatti concreti il perché del suo gesto e le motivazioni che l’avevano portata a compierlo: Eleonora, tra l’altro, le aveva ripetuto più volte che «le donne sono sempre in torto di fronte ai fatti concreti»21. Per questo la giovane decide di tacere e rassegnarsi alla condanna che verrà pronunciata contro di lei.

Dentro di sé, però, avverte un forte senso di ingiustizia: non è giusto che un uomo abbia il diritto di giudicare una donna, dal momento che non conosce la “materia” diversa di cui è composta; le persone di entrambi i sessi recitano in presenza di quelle dell’altro, non rivelano la loro vera natura ma si attengono al personaggio che vogliono mostrare agli altri, quello stabilito dalle regole e dalle convenzioni sociali e, così facendo, non arrivano mai a intendersi veramente. Perciò non è corretto che un tribunale composto esclusivamente da uomini decida della colpevolezza di una donna della quale non riescono a comprendere le «sottili ragioni»22 connaturate in lei che la conducono all’entusiasmo o, al contrario, alla disperazione.

Fin da adolescente Alessandra si è interrogata su come possa esistere una legge considerata veramente giusta se trascura aspetti fondamentali per le donne quali sono l’amore e, più in generale, i loro sentimenti. Desidera ardentemente che non si parli delle donne come di esseri inferiori o menomati pensando di far qualcosa in loro favore, ma che le si lasci vivere tranquillamente seguendo la loro indole delicata ed ombrosa così come è permesso fare agli uomini.

Riflette anche sulla libertà di cui può godere una donna, fino a che punto possa disporre di sé e del suo corpo una volta sposata:

Non si poteva disporre del corpo di un animale comprato, ma si poteva godere la proprietà del corpo di una donna, invece. Lo si acquistava con l’obbligo di mantenerla, proprio come gli schiavi; e qualora io avessi deciso di abbandonare Francesco, la legge gli avrebbe ugualmente riconosciuto il diritto di rimanere padrone del mio corpo. Durante anni e anni, durante tutta la mia vita, poteva impedirmi di disporne, seppure egli fosse stato cattivo, o infedele, o abitasse, da decenni, a centinaia di chilometri da me. Poiché c’è più libertà per uno schiavo che per una donna. E se io avessi usato della libertà del mio corpo, non avrei avuto soltanto frustate, come gli schiavi, ma addirittura il carcere e il disonore. L’unico modo in cui potevo disporre del mio corpo era quello di gettarlo nel fiume.23

21 Ivi, p. 548.

22 Ivi, p. 95.

47 Durante il processo Alessandra percepisce che, se non era riuscita a farsi comprendere dall’uomo che amava sopra ogni cosa, le era impossibile farlo con gli altri, quindi tace e si rassegna a scontare la pena corrispondente alla sua condanna, ma crede che se avesse avuto un avvocato donna, o comunque tra i componenti della Corte ce ne fosse stata qualcuna, le sarebbe stato più facile spiegarsi: per avere la possibilità di farlo aspetta di essere in prigione, dove può tranquillamente scrivere la sua lunga confessione e raccontare, finalmente, la sua versione dei fatti, la cronaca esatta dell’accaduto, una lunga memoria così come è «infinitamente lunga […] la breve vita di una donna; e raramente è una sola la causa che la costringe a un’improvvisa ribellione»24.

De Céspedes, con questa riflessione finale sull’importanza di modificare la legge considerando anche la natura femminile e di ammettere alla magistratura le donne, si inserisce nel dibattito dell’epoca riguardante queste tematiche per l’appunto25. Un intervento sul tema appare nello scambio epistolare tra Natalia Ginzburg e Alba De Céspedes pubblicato nella rivista “Mercurio” nel 1948, nel quale l’autrice di Dalla parte di lei conferma quanto già espresso nel romanzo, sottolineando l’ingiustizia del fatto che la metà circa degli esseri umani che abitano il mondo debba vivere in uno stato di soggezione per l’incomprensione dell’altra metà che si è arrogata il diritto di decidere, governare ed agire. “Mercurio. Mensile di politica, arte, scienze” è stato fondato nel 1944 da Alba De Céspedes, che lo dirigerà fino alla sua chiusura nel 1948. È una delle riviste più rappresentative del dibattito politico-culturale del secondo dopoguerra. Si è caratterizzata per la pluralità di voci che si sono susseguite nelle sue pagine, appartenenti ad autori e autrici che, in quegli anni difficili e cruciali in cui politica e cultura erano elementi inscindibili tra loro, si interrogavano sulla “ricostruzione” di una identità culturale in senso democratico dopo l’esperienza della dittatura fascista e della guerra.

24 Ivi, p. 549.

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