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L’imposizione della clausura: la riforma delle monache sotto Pio V e Gregorio XIII (1566-1585)

Il Concilio di Trento non offrì soluzioni chiare ed univoche al problema della clausura dei monasteri femminili. Nell’ambito dei dibattiti e delle iniziative che seguirono i decreti, si mostrarono quindi apertamente le divisioni e le diverse correnti di pensiero riguardo alla questione. Alcuni vescovi, subito dopo la promulgazione ufficiale degli Atti Conciliari (30 giugno 1564), imposero la clausura a tutte le monache professe, anche a quelle che come abbiamo detto tradizionalmente appartenevano a “monasteri aperti”. Altri prelati presero invece la difesa di questi ultimi istituti. In particolare, i procuratori generali degli Agostiniani, dei Serviti, dei Francescani, dei Domenicani e dei Carmelitani affermarono che non si potevano obbligare le monache ad un tenore di vita più stretto di quello che avevano scelto ai tempi della professione. Allo stesso tempo però ammisero che la clausura era di certo una delle migliori soluzioni per la riforma, e che sarebbe stato meglio se le monache l’avessero accettata di propria volontà; restavano comunque del parere che esse non potessero esservi costrette.

Favorevoli ad un’azione più rigida furono invece i cardinali della Commissione per la riforma delle monache romane, istituita da Pio IV poco dopo il concilio: essi stabilirono il 17 settembre 1564 che tutti i monasteri aperti non potevano più ricevere novizie, e dunque erano condannati a sparire.

Su questa stessa linea di rigore si pose Pio V, che il 29 maggio 1566 mise fine alle discussioni con la Costituzione Circa Pastoralis, nella quale affermava: universas et singulas moniales, tacite vel expresse religionem professae, etiam si conversae aut quocumque alio nomine appellentur, etiam si ex institutis vel fundationibus eaurum Regulae ad clausura non teneantur (…) sub perpetua in suis monasteriis seu domibus debere de coetero permanere clausura. Tutte le monache professe erano dunque tenute ad osservare la clausura. Nel successivo paragrafo si rettificava che non solo le moniales, ma

anche le terziariae, ovvero sorores ordinis Poenitentiae che avessero emesso i tre “voti solenni”, erano a ciò obbligate.

Quanto alle terziarie senza voti, o con soli “voti semplici”, veniva loro lasciata un’alternativa: esse potevano professare i “voti solenni” e divenire vere e proprie monache professe, sottomettendosi alla clausura, oppure restare nel loro stato, non potendo però più ricevere novizie. L’istituto delle terziarie era dunque destinato ad estinguersi.

Si trattava ora della negazione di quanto i pontefici avevano permesso e riconosciuto nei secoli precedenti, ma allo stesso tempo andava incontro a tendenze già presenti da tempo, come abbiamo visto, in particolare tra le Osservanze.

Come hanno notato da punti di vista diversi Raymond Creytens e Francesca Medioli, Pio V poté seguire così nettamente questa direzione grazie all’appoggio di molti influenti cardinali, favorevoli all’imposizione generalizzata della clausura, in particolare Carlo Borromeo, ma anche i cardinali della Commissione di Pio IV, tra cui Giovanni Morone432 e Giacomo Savelli, Vicario di Roma e fratello di alcune religiose monacate, come vedremo, nel monastero francescano romano di S. Lorenzo in Panisperna. Questi cardinali appartenevano al cosiddetto partito degli “zelanti”, e differivano dagli

“evangelici” in questo caso perché ritenevano essenziale l’imposizione rigida della clausura; anche gli “evangelici”, in realtà, ne vedevano la necessità, ma preferivano utilizzare metodi più rispettosi delle tradizioni delle religiose433.

Durante il pontificato di Pio V nella direzione indicata dal pontefice molti interventi vennero portati avanti a Roma, in particolare dallo stesso Savelli, e a Milano da Carlo Borromeo. In molti casi era necessario procedere con molta cautela, a causa delle dure opposizioni delle monache e dei forti appoggi che esse erano a volte in grado di ricevere.

Pio V intervenne allora nuovamente con la bolla Decori et honestati del 24 gennaio 1570,

432 Su Morone mi limito a rinviare alla recente biografia di Massimo Firpo, in DBI 77 (2012) ad vocem, che contiene bibliografia aggiornata.

che intendeva rendere meno agevole il ricorso a dispense per ovviare al precetto della clausura. La risposta dei monasteri alle nuove normative era enormemente diversa da un istituto all’altro, a causa delle differenti tradizioni. Il monastero domenicano di S. Sisto a Roma, ad esempio, non ebbe certo particolari difficoltà ad adeguarsi, dato che fin dalla sua fondazione seguiva la cosiddetta Regola delle monache di San Sisto, che prevedeva una rigidissima clausura per tutte le monache. S. Sisto, come vedremo, proprio durante i pontificati di Pio V e di Gregorio XIII si trasferì dentro le mura, e la costruzione del nuovo monastero seguì rigorosamente i nuovi canoni sugli edifici monastici per il rigoroso rispetto della clausura. Anche i monasteri di clarisse erano solitamente più adusi alla clausura, non solo perché come abbiamo visto gli Osservanti ne erano grandi fautori, ma perché la regola di Santa Chiara del 1259 fu la prima a prevedere nella formula della professione solenne un quarto voto specifico sulla clausura434. La clausura alle origini sembra essere prerogativa di alcuni monasteri e di alcuni ordini, tra cui per l’appunto domenicani e francescani435. Nei monasteri tradizionalmente aperti, invece, non di rado l’obbligo alla clausura venne percepita come “una forma di incarcerazione”.

Nell’Ordine domenicano sicuramente molti erano allineati sulle concezioni di Pio V riguardo alla clausura delle monache. Tuttavia, dovevano esserci anche parecchie voci discordi. Così suggeriscono le Disposizioni prese dal Capitolo del 1569, dove Pio V, presente per un intero giorno, impose o comunque suggerì alcuni punti del Decreto De claustralium seu conventualium reformatione, dove tra l’altro si affermava: precipimus omnibus et singulis nostri ordinis fratribus et sororibus… ut non audeat quavis de causa contra nostrarum dispositionem constitutionem et contra praefatas Bonifacii VIII436. Si ribadiva dunque che le monache domenicane venissero sottoposte alle disposizioni prese da Pio V nel 1566, che in parte ricalcavano come si è detto quanto era stato stabilito da

434 Per la bibliografia su S. Chiara rinvio a AA. VV., Chiara di Assisi. Atti del XX Convegno Internazionale, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1993.

435 Medioli, La clausura delle monache.

Bonifacio VIII. Nello stesso Capitolo, si sanciva la vittoria definitiva dell’Osservanza, che doveva favorire una rigorosa e generale riforma, secondo quanto auspicato dal pontefice: i non riformati venivano persino privati del diritto di essere eletti vicari generali della propria vicaria, ed i vicari, scelti dalle file degli osservanti, potevano quindi efficacemente mettere in pratica le prescrizioni di riforma date dal pontefice, dai Capitoli, e dai Maestri Generali, nonché ovviamente quelle del Concilio di Trento437.

Nella stessa direzione di Pio V si mosse poi Gregorio XIII, che per vigilare sulle riforme mandò in diversi luoghi “visitatori apostolici”. In questa occasione, molti superiori degli ordini religiosi imposero la clausura a religiose recalcitranti, ancor prima dell’arrivo dei

“visitatori”: così successe nel monastero domenicano di S. Vincenzo a Prato, dove ancora, grazie alla personalità carismatica di Caterina de Ricci, le terziarie continuavano a seguire le loro tradizioni, conducendo una vita esemplare ma seguendo una “clausura imperfetta”.

In alcuni casi, tuttavia, la volontà di imporre la clausura si scontrò duramente contro la volontà dei Governanti, come avvenne a Venezia, dove i monasteri aperti vennero strenuamente difesi. Difficile era anche imporre la clausura in quegli istituti poveri dove era necessario che alcune religiose uscissero per fare la questua. A quest’ultimo problema diede però una risposta Gregorio XIII con la bolla Deo sacris virginibus del 30 dicembre 1572, dove si stabiliva che la metà delle elemosine per i poveri dovesse essere utilizzata per il sostentamento delle monache indigenti, affinché esse potessero seguire rigidamente la clausura438. Gregorio XIII inoltre nel 1575 emanò la costituzione Ubi gratiae che scomunicava immediatamente chi entrava in clausura senza permesso; come abbiamo visto, ciò teoricamente era già stato stabilito da molto tempo, ma evidentemente la regola continuava a non essere rispettata. In ambito francescano, d’altra parte, le richieste per l’ingresso in clausura erano in realtà cresciute enormemente già alla fine del secolo

437 Sul Capitolo del 1569 vedi MOFPH X, ed anche Iszak A., Un ignorato decreto di riforma emanato dal capitolo generale del 1569.

precedente, e possiamo pensare che il problema in questo caso riguardasse in maniera più drammatica altri Ordini religiosi.

Nel periodo dopo il Concilio, la grande sfida riguardo ai monasteri francescani fu quella di imporre la riforma alle Urbaniste, in particolare a quelle che ancora alla metà del secolo non erano sottoposte agli osservanti. Molti di questi istituti tolleravano abitudini estranee ai voti religiosi, la clausura non era bene osservata, così come la vita comune e la povertà. Le monache vivevano spesso come le loro coetanee nel secolo, si vestivano con abiti lussuosi, tenevano presso di sé animali domestici, si impegnavano in rappresentazioni teatrali, nel gioco dei dadi e delle carte, abbandonando gli Uffici divini.

Un caso di tardivo passaggio sotto la cura osservante fu quello del monastero di Santa Chiara di Napoli, sottoposto all’Osservanza nel 1568 da Pio V, dunque negli anni in cui la stessa cosa avvenne, come vedremo, a S. Silvestro in Capite. I tentativi di riforma tuttavia non riuscirono ad avere grandi risultati: ancora nel 1593 la vita comune non era del tutto rispettata, mentre le religiose continuavano a tenere con sé animali domestici, a giocare a dadi e a carte, e a organizzare rappresentazioni teatrali439.

Nelle riforme furono impegnate spesso le autorità diocesane, oltre a quelle dell’Ordine francescano.

Nel Protomonastero di Assisi, la decadenza della disciplina monastica fu aggravata dalle lotte che opposero Osservanti e Conventuali per la giurisdizione sull’istituto, che venne sottoposto al Vescovo nei primi anni del Cinquecento. La riforma fu quindi in questo caso portata avanti dal vescovo assieme al visitatore apostolico, che stabilirono norme restrittive riguardo alla clausura, in particolare in occasione della visita apostolica del 1573. Ancora a quella data, le religiose non avevano parlatorio e utilizzavano la porta del monastero, attraverso la quale entravano i secolari. La riforma ebbe successo per il ristabilimento della clausura e della vita comune, mentre le norme sulla tenuta dei registri

riguardo gli incarichi e gli ingressi delle novizie iniziarono ad essere rispettate solo alla fine del secolo440.

Un caso eclatante del coinvolgimento dei vescovi nelle riforme francescane di questo periodo fu quello di Sant’Apollinare di Milano, riformato da Carlo Borromeo a partire dal 1565. L’istituto, fondato nel 1224, era poi stato riformato nel Quattrocento e doveva essere in condizioni disciplinari abbastanza buone, ma Borromeo intese farne una sorta di

“fortezza della preghiera, retta da una disciplina quasi militare”441, che servisse da modello per altri vescovi per riformare i monasteri in Italia. Carattere principale della riforma borromaica era il rispetto rigorosissimo della clausura; il vescovo impose regole molto minuziose riguardo alla forma delle grate del parlatorio, e disciplinò rigorosamente i rapporti con l’esterno, prevedendo anche una serie di punizioni per le infrazioni. Ogni giorno bisognava leggere un passaggio della Regola, delle costituzioni e delle ordinanze del capitolo provinciale. Per verificare l’applicazione della riforma il Borromeo visitò costantemente la comunità, infliggendo in prima persona le penitenze442.

Con il Concilio di Trento e con le disposizioni di Pio V si rafforzò dunque quella tendenza alla omogeneità dei monasteri femminili perseguita già da molto tempo sia dai pontefici che dagli Ordini.

Come ha affermato Mario Rosa, in questa fase, e poi soprattutto nel Seicento, la clausura appare come un elemento essenziale per la riforma dei monasteri femminili, forse addirittura il più importante. L’imposizione dell’omogeneità, nella quale ampio spazio veniva dato alla necessità della reclusione claustrale, era parte di una larga opera di controllo e disciplinamento che intendeva in primo luogo tutelare la fragilità della donna e conservarne la virtù, ma anche portare le religiose ad un continuo sforzo di

440 Casolini F., Il Protomonastero di Santa Chiara in Assisi, Milano, Garzanti 1950.

441 Roussey – Goudon, op. cit., p. 679.

autodisciplina443. Il recinto, come ricorda Gabriella Zarri, ha rappresentato fin dall’antichità il simbolo femminile per eccellenza, e la condizione di verginità444; così la clausura veniva messa in relazione in maniera esplicita alla tutela del voto di castità, oltre che all’osservanza.

Il disciplinamento sociale imposto alle donne è stato inserito dalla storiografia all’interno del più ampio processo che investe la società e lo Stato in età moderna, e che si esprime sul duplice versante della civilizzazione e della repressione, secondo i due filoni interpretativi di Norbert Elias e Michel Focault. L’opera di controllo e disciplinamento compiuta all’interno dei recinti monastici è quindi parte di questo processo445. Ciò risulta ancora più importante e incisivo poiché i monasteri accoglievano principalmente donne appartenenti al ceto nobiliare, al quale in questo stesso periodo si indirizzava una politica di controllo e normalizzazione ai fini della stabilità e dell’accrescimento del potere statale.

L’imposizione della clausura portata avanti da francescani e domenicani, contestualmente all’opera di controllo e riforma dei monasteri, in accordo con il potere pontificio, è dunque un altro aspetto della partecipazione degli Ordini al processo di centralizzazione, controllo e disciplinamento tipico della formazione dello Stato moderno, che vive un’accelerazione e un rafforzamento a partire dalla seconda metà del XVI secolo446.

443 Rosa, La religiosa.

444 Zarri, Recinti.

445 Cfr. Knox D., “Disciplina”Le origini monastiche e clericali della civiltà delle buone maniera in Europa, in Annali dell’Istituto Storico italo-germanico in Trento, XVIII, 1992; Zarri, Donna, disciplina, creanza cristiana.

446 Sul contributo degli ordini religiosi alla formazione dello Stato moderno vedi Chittolini G. – Molho A.

– Schiera P. (a cura di), Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età

T

ABELLA N

. 20

D

ISPOSIZIONIDI

P

IO

V (

DOMENICANE

)

447

Anno Bolle Tot.

Bolle Mon.

Rif. Rif.

G

Acc. Gov. Bad. Ing. Beni Varie Ter.

1566 33 2 1 1

1567 14 1 1

1568 16 0

1569 22 1 1

1570 16 3 1 1 1

1571 22 2 1 1

1572 2 0

TOT. 125 9 2 1 0 0 2 0 1 3 0

T

ABELLA N

. 21

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ISPOSIZIONIDI

G

REGORIO

XIII (

DOMENICANE

)

448

Anno Bolle Tot.

Bolle Mon.

Rif. Rif.

G

Acc. Gov. Bad. Ing. Beni Varie Ter.

447 Fonte: Bullarium O. P. III.

1572 9 3 2 1

1573 49 1 1

1574 1

1575 17

1576 5

1577 7 1 1

1578 4 1

1579 12 3 1 2

1580 10

1581 2 2

1582 8

1583 10

1584 2

1585 0

TOT. 136 11 3 0 0 0 0 0 2 6 0

Da terziarie a monache: il caso delle terziarie domenicane e francescane a