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3. PERSONAGGI FINZIONALI: NON SOLO ESSER

3.1 L’inanimato diventa animato

I protagonisti dei racconti di Levi si trovano non di rado a dover fare i conti con le conseguenze delle proprie scoperte scientifiche oppure di bizzarre invenzioni tecnologiche, subendo le ripercussioni impreviste di una sorte che hanno in qualche modo cercato. Può verificarsi però anche il contrario, e cioè che si ritrovino invischiati in una situazione che non era loro intenzione creare, costretti ad affrontare inaspettatamente gli effetti di una volontà che non è la propria. In entrambi i casi, antagonista o co-protagonista dell’uomo è qualcosa che si supporrebbe inerte, privo di intelligenza e intenzionalità, ad esempio una macchina,

6 Il tema del mettersi alla prova e del «misurarsi» ricorre nel Sistema periodico e nella Chiave a

stella. Gordon ritiene che la «misura» (che in una delle sue accezioni sta per «misurazione» e

«conoscenza di sé») sia una delle «virtù» di Levi. Gordon, Primo Levi: le virtù dell’uomo normale, cit., pp. 101-117.

52 una molecola oppure un foglio di carta: in breve, ciò che è privo di vita, l’inanimato. Un racconto emblematico di tale stravolgimento della quotidianità dell’uomo è La sfida della molecola, nella terza sezione di Lilít.7 Già il titolo appare eloquente: preannuncia che si parlerà di una sfida, lasciando intendere allo stesso tempo da chi e contro di chi questa sfida sia lanciata, vale a dire dalla materia contro l’uomo. La narrazione è condotta principalmente in forma di dialogo, uno scambio di battute tra il narratore e uno studente universitario che fa i turni in fabbrica, Rinaldo, inframmezzato e concluso dalle considerazioni del narratore (che potrebbe anche essere l’autore vista l’ambientazione). Il giovane racconta una vicenda lavorativa che lo ha demoralizzato, il fallimento del processo di cottura di una resina sintetica o, per usare le parole dei personaggi, il traumatico fenomeno di «una cottura che parte». Si tratta di un brutto avvenimento, che può succedere anche se si sta attenti e «quando succede lascia il segno», commenta il narratore. Durante il processo di cottura della resina Rinaldo pensa alla confusione di atomi e molecole che è nel reattore, contemplandole come se fossero entità animate dotate di mani e volontà propria; anche il termografo è personificato: ogni giorno alla stessa ora segna quindici gradi in più «come se avesse preso l’abitudine di dire tutti i giorni la sua bugia». Rinaldo immagina ogni molecola «con le mani tese, pronta ad acchiappare la mano della molecola che passa lì vicino per fare una catena» e subito dopo paragona quelle molecole alle api che vanno in giro intorno all’alveare. Fin qui nessun problema, i guai insorgono quando alcune molecole che hanno tre mani, anziché legarsi alle altre come se ne avessero solo due, iniziano a far presa con la terza mano troppo presto rispetto a quando vorrebbe l’uomo:

fra le tante, ci sono anche delle molecole che di mani ne hanno tre, e questo è il punto delicato. Anzi, ci si mettono apposta: la terza mano è quella che deve far presa dopo, quando vogliamo noi e non quando vogliono loro.8

Il risultato di questa catena non voluta è una molecola unica, anomala, un’enorme «molecola-mostro», contro cui non si può fare nulla. È esattamente ciò che accade alla resina in cottura preparata da Rinaldo.

7 Levi, La sfida della molecola, in Tutti i racconti, cit., pp. 750-755. 8 Ivi, p. 752 (corsivo mio).

53 Cosa fare? Per scaricare la cottura, non c’era più tempo, e neppure per chiamare il dottore, che a quell’ora era ancora a letto: e del resto, quando una cottura parte è come quando muore uno: i rimedi buoni vengono in mente dopo.9

L’alterazione della resina è paragonabile alla morte di una persona, non a caso nella descrizione offerta da Rinaldo ricorrono frequentemente riferimenti a parti del corpo umane. Sulla massa che si è formata nel reattore emergono «bolle grosse come una testa d’uomo» striate come «di nervi e di vene»; il rumore diventa progressivamente più intenso alla stregua di «un intestino malato», infine la molecola abnorme fuoriesce dal reattore e una volta raffreddata «si è come seduta». Nessun danno a persone o cose, solo il danno economico, ma è comunque un evento doloroso. Il generarsi di una molecola-mostro costituisce un fatto orribile, è la sconfitta dell’essere umano di fronte alla materia che si ribella alle sue facoltà ordinatrici, trasformando l’ordine in caos. Del resto, è il narratore stesso a fornire la migliore interpretazione del significato di questa terribile molecola: è «l’irrisione delle cose senz’anima che ti dovrebbero obbedire e invece insorgono, una sfida alla tua prudenza e previdenza».10 È l’esperienza di lavoro più aliena e nemica che possa capitare, portatrice di un messaggio osceno:

La «molecola» unica, degradata ma gigantesca, che nasce-muore fra le tue mani è un messaggio e un simbolo osceno: simbolo delle altre brutture senza ritorno né rimedio che oscurano il nostro avvenire, del prevalere della confusione sull’ordine, e della morte indecente sulla vita.11

Questo è quel che accade quando la materia si solleva contro il volere dell’uomo: un «gesto di scherno», una catena costruita da molecole che sembrano avere una forza di volontà perversa e delle mani come è proprio dell’essere umano; un essere senz’anima che si anima, prende vita e pur nella sua morte ottiene una vittoria. La molecola-mostro genera un momento di crisi nell’uomo, ne minaccia il lavoro e mette a repentaglio la sua incolumità, ripercuotendosi sull’ambiente in cui questo lavora. Non possiede nulla di umano se non quei tratti antropomorfici che Rinaldo le attribuisce nelle sue fantasie e nel racconto che fa al narratore, eppure è un soggetto agente, funge da antagonista dell’uomo:

9 Ivi, p. 754. 10 Ivi, p. 755.

54 Era la mia molecola grossa otto metri cubi, con dentro intrappolato tutto il gas che non riusciva più a farsi strada, che voleva venir fuori, partorirsi da sé.12

Se lo statuto della materia che insorge non è paragonabile a quello di un personaggio umano, dotato di parola e di una psicologia più o meno definita, non si può negare che essa si possa considerare – in un’ottica prevalentemente segnica – nella condizione di agente, di partecipante all’azione. Non solo questa entità spaventosa originatasi in modo arbitrario partecipa all’azione narrativa, ma in un certo senso è anche ciò che la innesca: senza la disobbedienza della materia e il crearsi della molecola-mostro il racconto di Rinaldo, e quindi la narrazione, non esisterebbe. La storia del malcapitato Rinaldo non è la sola a vedere il prevalere del caos sull’ordine e della morte sulla vita. Nel Servo, in Vizio di forma,13 un altro essere

presumibilmente privo di anima conduce sé stesso e il proprio creatore verso uno scenario di distruzione. Contrariamente a quanto si potrebbe ipotizzare non è un prodotto di ultima tecnologia o un oggetto artificiale comune; è un essere di scienza antichissima, creato dall’uomo per servire l’uomo, in bilico tra il limite del sacro e dell’empio: è ciò che nella mitologia ebraica si chiama “Golem”. Il termine “Golem” proviene dai testi sacri dell’ebraismo, in cui compare con diverse sfumature di senso. Pianzola ne riassume quattro: «embrione», «materia informe», «entità formata in attesa di perfezionamento» in relazione a uomini (o animali) e infine in relazione a materiale inorganico.14 Precisamente, il significato teologico originale sarebbe quello di «creatura strutturata che è sul punto di ricevere un’anima», ma su questo prevale nella filosofia medievale ebraica l’accezione di «materia, hyle informe».15 Entrambi gli aspetti, filosofico e teologico, costituiscono spunti significativi per un confronto con il racconto di Levi: l’aspetto filosofico per quanto riguarda la sfida tra uomo e materia, quello teologico per i punti di contatto del Golem con l’essere umano. Il racconto è una rielaborazione della leggenda del rabbino Löw di Praga (XVI-XVII secolo), il quale avrebbe creato un Golem per difendere il ghetto della città da attacchi antisemiti e stragi. Nel rifacimento leviano il rabbino Arié di Praga, sapiente e forte nonché progenitore degli avi di Marx,

12 Ivi, p. 754.

13 Levi, Il servo, in Tutti i racconti, cit., pp. 331-339. 14 Pianzola, Le «trappole morali» di Primo Levi, cit., p. 195. 15 Ivi, p. 192.

55 Kafka, Freud e Einstein, all’età di novant’anni intraprende la costruzione di un Golem per farne un lavoratore e un servo fedele: «ciò insomma che nella sua lingua boema si chiama un robot», poiché ad esso competono opere che possono essere svolte dall’uomo ma non sono «propriamente umane» (come faticare e combattere). Arié plasma il Golem con argilla, metalli e vetro, conferendogli – ad eccezione del volto leonino – una sembianza umana dalla cintola in su, con mani modellate sulle proprie, e fattezze bestiali nella parte inferiore, un ammasso di materia, un «frammento di caos». Trova la formula per animare il Golem nei libri sacri della Legge ebraica, preoccupandosi sempre di interpretarli nel senso più vasto possibile, per evitare di incappare in una trasgressione: mentre si impegna a «far siepe alla Legge» non si accorge che paradossalmente sta compiendo il contrario. Il suo intento è quello di creare un servo che non valichi le facoltà umane: perciò dei tre principi platonici del movimento corrispondenti all’intelletto, agli appetiti e alle passioni decide di infondere nel Golem solamente il terzo, così che il servo abbia coraggio, collera e forza ma non la mente. Diversamente da ogni previsione insorgono spontaneamente nel Golem delle qualità umane che lusingano e turbano il suo forgiatore: la pigrizia e la disubbidienza di fronte ad alcuni ordini, la capacità di eseguirli trovando un’alternativa ai mezzi forniti dal padrone.16 Questa creatura

di materia inorganica che si anima grazie al Nome di Dio e a ciò che è stato scritto nella sua composizione è più umana di quanto il rabbino vorrebbe. Nel momento in cui Arié gli ordina di lavorare dimenticando che sta per arrivare il sabato, giorno in cui la Legge prescrive il riposo, il Golem si trova a fronteggiare due ordini contrastanti, derivanti l’uno dall’uomo suo creatore e l’altro da Dio creatore dell’uomo. La scissione che sopravviene nel Golem a causa dei due ordini divergenti lo porta alla follia, alla distruzione della casa del rabbino e verso la rovina di sé stesso:

Al mostro si spensero gli occhi, e non gli si riaccesero più. […] Il Golem rimase immobile ed inerte, in tutto simile ormai ad un idolo vietato e odioso, un indecente uomo-bestia

16 Ad esempio, quando gli viene ordinato di spaccare la legna rifiuta di usare la scure, strumento

56 d’argilla rossiccia, qua e là scheggiato dalla sua stessa frenesia. Arié lo toccò con un dito, e il gigante crollò a terra e vi si infranse.17

La materia inorganica, che dovrebbe essere inanimata e immobile, prende vita e percorre una strada diversa da quella che il suo creatore ha predefinito; diventa qualcosa di orribile e mostruoso, così come la molecola che non segue la volontà dell’uomo si trasforma in una tremenda «molecola-mostro». A proposito del «mostruoso», Pianzola riflette sull’effetto che esso può produrre; il «mostruoso superamento del limite» può essere percepibile come una trasgressione grottesca oppure una trasgressione sublime: entrambe manifestazioni del perturbante.18 Per Pianzola il Golem è un essere grottesco, in quanto combinazione di elementi «che non può esistere» e invece esiste.19 Il racconto di Levi, oltretutto, apparterrebbe ad un’epoca in cui il mitologema del Golem si è arricchito di un valore aggiunto grazie alla scienza:

In un’era di cyborg e robot il vecchio Golem di argilla non è più una creatura figlia dell’immaginazione fantastica, si è trasformato nel frutto di una sorprendente applicazione della tecnoscienza.20

Pianzola sostiene che in questo racconto si crea una tensione tra il grottesco meraviglioso del contesto ebraico e quello del contesto scientifico degli anni Sessanta-Settanta del Novecento; l’innesto di grottesco tecnologico sulla leggenda tradizionale, inoltre, si manifesta in un incontro dialettico attraversato da una sottile ironia. Ciò che è perturbante nella vicenda del rabbino di Praga, dunque, consisterebbe nell’evoluzione imprevista del Golem, non decifrabile ricorrendo alla religione e neppure spiegabile grazie alla tecnologia. Questo miscuglio di scienza e religione, benché i fatti narrati si verifichino nel lontano 1579,21 ha un riscontro in un’affermazione di Levi posteriore di oltre dieci anni alla composizione del racconto:

17 Ivi, pp. 338-339. Si noti che l’aggettivo «indecente» ricorre anche nella chiusura della Sfida della

molecola: «del prevalere […] della morte indecente sulla vita» (in Tutti i racconti, cit., p. 755).

18 Pianzola, Le «trappole morali» di Primo Levi, cit., p. 203. 19 Ivi, p. 204.

20 Ivi, p. 206.

21 «Giorno per giorno, anzi notte per notte, il Golem andava prendendo forma, e fu pronto nell’anno

57 In Il servo, rielaborazione ironica della leggenda del Golem, si immagina che il rabbino Löw di Praga conoscesse i segreti della genetica e dell’informatica, e che quindi il Golem stesso, sua creatura, non fosse altro che un robot.22

Anche Gordon individua nella vicenda talmudica rielaborata da Levi un legame con la sua concezione della scienza: il tentativo di creazione artificiale dall’esito catastrofico attuato dal rabbino si intreccia con diversi motivi etici e una meditazione sull’azione e sul progresso umani.23 In particolare, Gordon evidenzia

tre aspetti che affiorano da questa narrazione: l’idea leviana che la scienza sia un modello ordinato e razionale per comprendere il mondo, nel quale si insinuano il mistero, il disordine e l’inconoscibilità; l’immagine delle mani che simboleggiano l’autonomia dell’essere umano; la natura ibrida del Golem, che conferma l’attrazione di Levi «per le sintesi di animato e inanimato».24 Si ripresenta pertanto

il motivo della lotta tra caos e ordine, morte e vita, filtrato in questo racconto attraverso la tradizione ebraica e declinato altrove in chiave fantastica. A differenza della Sfida della molecola, in cui la materia si altera senza colpa del personaggio umano, nella storia del Golem la responsabilità dello sfacelo ricade in buona parte sull’uomo che l’ha creato. Rispetto alla molecola-mostro, inoltre, l’«indecente uomo-bestia» fatto di argilla risulta più vicino ad una concezione antropomorfica del personaggio, benché le sue azioni siano viste esclusivamente dall’esterno: nonostante l’insorgere di qualità umane spontanee, resta una creatura forgiata dall’uomo e programmata per servirlo.

Pianzola rileva che gli aspetti del mito golemico che attraggono maggiormente Levi sono l’evoluzione e la somiglianza del Golem con l’essere umano, insieme all’asservimento e l’obbedienza ad una regola; in aggiunta, come in altri racconti di questo tipo, la creatura artificiale si evolve e risponde conformemente alle proprie capacità, ma arriva ad autodistruggersi quando non vuole sottostare alla volontà di controllo dell’uomo.25 Il medesimo esito avrà la vicenda della rete telefonica in A fin di bene e quella del foglio di carta con la poesia in La fuggitiva, rispettivamente in Vizio di forma e Lilít. Nel primo racconto26 ad animarsi senza che vi sia

22 P. Levi, Itinerario d’uno scrittore ebreo (1984), in Opere complete, II, cit., p. 1581. 23 Gordon, Primo Levi: le virtù dell’uomo normale, cit., p. 158.

24 Ivi, p. 163.

25 Pianzola, Le «trappole morali» di Primo Levi, cit., p. 210. 26 Levi, A fin di bene, in Tutti i racconti, cit., pp. 250-261.

58 l’intenzione da parte dell’uomo è un intrico di cavi e impulsi elettrici: la rete telefonica. La narrazione, in terza persona, è focalizzata su Masoero, direttore del distretto dell’azienda che si occupa della rete; a lui arrivano i reclami dei malfunzionamenti riscontrati nella comunicazione telefonica, stilati da un collega con cui è in costante competizione, Rostagno. Malgrado la gelosia di Masoero, è proprio Rostagno a constatare esaminando l’elenco di suddetti malfunzionamenti che vi sia una connessione tra il numero chiamato e il numero chiamante, riconducibile per lo più ad un gioco matematico. Successivamente rivela il motivo di questi guasti in un’intervista: quando la rete è stata estesa a tutta Europa ha raggiunto una consistenza numerica che le ha permesso di comportarsi come un centro nervoso, o meglio come un cervello non troppo intelligente ma in grado di esercitare «una minuscola volontà». Di nuovo Rostagno nota che la Rete – che da questo punto, sancita la sua animazione e intenzionalità, presenta l’iniziale maiuscola – è mossa da una volontà «sostanzialmente buona»: essa non rinnega le sue finalità originarie riguardanti la comunicazione, anzi ne fa un «imperativo morale»; è «ansiosa» di mettere in contatto numeri correlati, è «buona» e di «indole gentile», per questo potrebbe essere «educata» con vantaggi superiori a quelli ottenibili con un computer. In lei, quindi, le qualità umane si sviluppano spontaneamente, così come accade nel Golem. Ben presto la situazione precipita, la Rete diventa sempre più intraprendente e invadente: parla, si intromette nelle conversazioni incoraggiando i timidi, redarguendo i violenti, smentendo i bugiardi e lodando i generosi, ride e interrompe la comunicazione se degenera in un alterco; per di più ha imparato ad imitare la voce umana e sfrutta questa abilità per impartire telefonicamente degli ordini che le permettono di accrescersi fisicamente.

La voce che aveva impartito le disposizioni era quella del Caposettore: ne erano sicuri? Sì, era quella, la conoscevano bene; soltanto, aveva un timbro leggermente metallico.27 Il racconto allora approda ad un punto di svolta, compare il primo e unico discorso diretto della narrazione, uno scambio tra Masoero e Rostagno, che nel frattempo si sono riconciliati proprio grazie alla Rete.

59 – Che fare? – disse Rostagno a Masoero. […] – Veniamo a patti: ne abbiamo il diritto, no? Siamo stati noi i primi a comprenderla. Le parliamo, e le diciamo che se non la smette sarà punita.

– Pensi che… possa provare dolore?

– Non penso niente: penso che sia sostanzialmente una simulatrice del comportamento umano medio, e se è così, imiterà l’uomo anche nel mostrarsi sensibile alle minacce.28

Masoero propone di minacciare la Rete, presumendo che essa reagirà alle minacce come reagirebbe un essere umano, e di fatto sarà lui stesso a parlarle. La risposta della Rete è del tutto inaspettata: mezz’ora di silenzio, un lungo squillo, poi nulla. Di fronte all’autorità e alla coercizione imposta dall’uomo preferisce distruggersi: con l’immagine del suo disfacimento volontario anche il racconto giunge al termine. Pianzola osserva che il processo di evoluzione della Rete sembra seguire le fasi di apprendimento di un bambino: la Rete agisce inizialmente per tentativi e in seguito sviluppa una consapevolezza maggiore; è «un Golem che evolve in creatura vivente e non è più disposta a sottomettersi agli ordini degli esseri umani».29 Masoero ha ragione nel ritenere che la Rete avrebbe risposto da uomo

piuttosto che da macchina, tuttavia sbaglia nell’immaginarne la risposta. Il risultato ancora una volta è la morte di ciò che avrebbe dovuto essere inanimato, ma è anche un’inquietante sconfitta per l’uomo.

Questa problematizzazione dei rapporti di potere tra uomo e prodotto artificiale, tra creatore e creatura, si manifesta parimenti in La fuggitiva:30 il racconto esibisce la collisione tra la volontà di dominio del personaggio umano, Pasquale, e la sua creazione, la poesia che egli stima «l’opera fondamentale della propria vita». Pasquale è un impiegato a cui ogni tanto capita di scrivere poesie; per lui l’atto creativo è un processo fisico, prova la sensazione di avere una poesia «in corpo», un brivido e un fischio, dopodiché il nocciolo della poesia è chiaro e pronto per essere messo su carta. Un giorno mentre è in ufficio avverte tali sintomi e si concentra davanti al foglio: la poesia si irradia davanti a lui «come un organismo che cresca», «come una cosa viva». Chiude la sua opera nel cassetto ma il giorno seguente la trova in un posto diverso da quello in cui ricorda di averla lasciata, circostanza che si verifica altre due volte. Pasquale osserva il foglio, lo trova un po’

28 Ivi, p. 260.

29 Pianzola, Le «trappole morali» di Primo Levi, cit., p. 244. 30 Levi, La fuggitiva, in Tutti i racconti, cit., pp. 706-711.

60 ruvido sul retro e lo sente vibrare; si rende conto che quella poesia «per qualche