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4. PERSONAGGI UMANI

4.2 Personaggi non finzionali

L’oscillazione tra scrittura di memoria e scrittura di finzione attraversa l’intera opera di Levi e si manifesta nelle raccolte di racconti a partire dalla prima sezione di Lilít. In questo volume e nei racconti confluiti nell’Ultimo Natale di guerra oltre alle narrazioni fantastiche e fantascientifiche compaiono scritti di impianto saggistico su figure realmente esistite, come Joel König e Chaim Rumkowski, memorie dell’autore precedenti alla deportazione o successive al suo ritorno ed episodi relativi al Lager non presenti nei primi due libri. Dopo la pubblicazione della Tregua Levi sente di essersi «compiutamente bruciato come testimone»,101

99 Levi, Pieno impiego, in Tutti i racconti, cit., p. 135.

100 Gordon, Primo Levi: le virtù dell’uomo normale, cit., p. 167.

129 ma scoprirà col passare degli anni che la sua esperienza ad Auschwitz è «ben lontana dall’essere esaurita».102 Nella prefazione all’edizione americana di Lilít, che

raccoglie anche altri scritti compresi in Racconti e saggi, intitolata Moments of Reprieve (1986), Levi spiega perché a distanza di decenni da Se questo è un uomo sia tornato a raccontare del Lager:

I suoi lineamenti fondamentali, che sono oggi di pertinenza della storia, li avevo descritti nei miei primi due libri, ma continuava ad affiorarmi alla memoria una folla di particolari che mi dispiaceva lasciar estinguere. In specie, un gran numero di figure umane stagliate su quello sfondo tragico: di amici, compagni di strada, anche di avversari, che a loro volta mi chiedevano di sopravvivere, di fruire dell’ambigua perennità dei personaggi letterari.103

Ognuno di questi racconti scritti in «epoche e occasioni diverse», prosegue Levi, si «accentra su uno ed un solo personaggio», che non è il perseguitato o l’uomo prostrato, di cui nel suo primo libro si domandava se «fosse ancora un uomo»: I protagonisti di queste storie sono “uomini” al di là di ogni dubbio, anche se la loro virtù, quella che concede loro di sopravvivere e li rende singolari, non è sempre una di quelle che la morale comune approva. Bandi, il mio “discepolo”, trae forza dalla santa gaiezza dei credenti, Wolf dalla musica, Grigo dall’amore e dalla superstizione, il Tischler dal patrimonio leggendario; ma Cesare dall’astuzia spregiudicata, Rumkowski dalla fame di potere, Rappoport da una vitalità ferina.104

Gli scenari in cui si collocano questi racconti sono «momenti di tregua» nei quali l’identità può riacquistare temporaneamente «i suoi lineamenti».105 A distanza di

oltre trent’anni il punto di vista dello scrittore è cambiato: Levi non prova più l’urgenza di testimoniare, pensa di aver detto tutto sulla sociologia del Lager, ma desidera «ristudiare da vicino alcune figure di quel tempo, vittime, superstiti e oppressori» che gli sono rimaste «nitide nella memoria sullo sfondo grigio, collettivo, impersonale, dei “sommersi”».106 Il tono della narrazione, perciò, è

diverso da quello della prima opera testimoniale, che doveva essere un «atto d’accusa», una testimonianza «di taglio quasi giuridico» in cui doveva prevalere l’indignazione, come egli dichiara in un’intervista del 1983.107 Nella stessa

102 Levi, Prefazione a Moments of Reprieve, in Opere complete, II, cit., p. 1654. 103 Ibidem.

104 Ivi, p. 1655. 105 Ibidem.

106 Levi, Itinerario d’uno scrittore ebreo, in Opere complete, II, cit., p. 1582.

107 A. Bravo e F. Cereja, Intervista a Primo Levi ex deportato (27 gennaio 1983), Einaudi, 2011, in

130 intervista, pubblicata postuma, Levi precisa ulteriormente che i racconti di Lilít sono storie di incontri e di personaggi che gli sembrava futile inserire in Se questo è un uomo, episodi che comportano «una certa sottigliezza» di racconto, che nel testo della sua prima opera gli sembravano «un po’ stonati».108 Oltretutto, ammette

che non avrebbe potuto raccontare prima alcune di queste storie, o perché non ne aveva il permesso – è il caso del ritorno di Cesare – o perché credeva che i protagonisti fossero ancora vivi ed «è sempre imprudente parlare di persone viventi, anche se si lodano».109 Nella conclusione della prefazione a Moments of Reprieve,

inoltre, l’autore si sofferma su una caratteristica insita nella scrittura narrativa, che differenzia il racconto dalla cronaca e dal resoconto, ossia la tendenza ad «arrotondare i fatti»:

È possibile che la distanza nel tempo abbia accentuato la tendenza ad arrotondare i fatti, a caricare i colori: questa tendenza, o tentazione, fa parte integrante dello scrivere, senza di essa non si scrivono racconti ma cronache. Tuttavia, gli episodi su cui ho costruito ognuna di queste storie sono realmente avvenuti, e ne sono esistiti i personaggi, anche se, per evidenti motivi, spesso ne ho alterato il nome.110

Le storie sul Lager riunite in Lilít, dunque, sono veri e propri racconti, non sono «cronache» benché portino sulla pagina persone e avvenimenti reali. Sempre nell’intervista del 1983, Levi si dimostra consapevole di aver ceduto nei racconti alla tentazione di fare di una persona un “personaggio”, diversamente da quanto ha cercato di fare in Se questo è un uomo:

Chiaro, anche non volendolo, un ritratto scritto non riproduce la persona, e interviene… intervengono fattori complessi di memoria insufficiente, di inconsapevole idealizzazione nel bene o nel male, di consapevole idealizzazione, qualche volta uno prende la persona e ne vuole fare un personaggio, no? […] Per quanto io ricordo ho cercato di non farlo in Se

questo è un uomo. Invece a questa tentazione ho ceduto abbondantemente in racconti di Lilìt: ero diventato uno scrittore.111

Quanto ai motivi «evidenti» del cambio del nome del personaggio, a cui Levi accenna nella prefazione a Moments of Reprieve, certamente uno di essi risiede nel riguardo che lo scrittore ha per i compagni sopravvissuti, per le persone che sono ancora in vita. Che l’autore mostri i pregi o i difetti del personaggio che ritrae, che

108 Ibidem. 109 Ibidem.

110 Levi, Prefazione a Moments of Reprieve, in Opere complete, II, cit., p. 1655.

131 ne parli con ammirazione oppure no, il nome proprio è un elemento di identificazione della persona, che potrebbe in ogni caso restare delusa dalla propria rappresentazione. Allo stesso tempo la presenza del nome, come osserva Belpoliti a proposito di Se questo è un uomo, è anche una «salvazione della memoria», un modo per «far rivivere almeno sulla pagina i nomi di coloro che non sono più».112

Nei racconti, ad esempio, Levi non altera il nome di Alberto ed Elias,113 già comparsi nella sua prima opera, e menziona con il nome completo Endre Szántó, nella speranza che il suo testo lo raggiunga e vi si possa ritrovare, e Leon Rappoport, che ha ragione di ritenere non sia sopravvissuto all’evacuazione del campo di concentramento. Indubbiamente i personaggi di questi racconti sono persone reali, anche se nell’opinione dell’autore, come tutti i personaggi letterari, «si distribuiscono su vari livelli di realtà».114 A tale diversificazione nei livelli di realtà Levi fa riferimento nella già citata intervista del 1985, in cui sostiene che sia impossibile trasformare una persona in un personaggio senza distorcerla e altrettanto difficile creare un personaggio dal nulla senza che l’autore vi apporti elementi del proprio vissuto. Nella stessa occasione, a proposito dei personaggi di Lilít emerge che alcuni ritratti sono più fedeli di altri:

Nei racconti di cui Lei mi chiede, sono «reali», per quanto mi è stato possibile, ad esempio Lorenzo e Cesare, di cui ho raccontato i ritorni, e che del resto ho frequentato a lungo: ho veramente cercato di farne i ritratti fedeli. È invece fortemente manomesso il «Tischler» del racconto di Lilít; è esistito, ma le leggende mi sono state raccontate dopo e da altri.115 E poco dopo, ad una domanda sul personaggio di Endre Szántó, del racconto Un discepolo, Levi risponde annoverandolo tra i personaggi «che sono persone, cioè reali, almeno per il 95 per cento»:116

quello che non è reale non è dovuto ad uno sforzo di trasfigurazione letteraria, ma semplicemente a qualche vuoto della mia memoria.117

112 Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, cit., p. 85.

113 In Se questo è un uomo Levi cita con il nome e cognome Elias Lindzin – nano di Varsavia erculeo,

animalesco e matto – ma ha lo scrupolo di cambiarne il nome nella traduzione tedesca non escludendo che sia sopravvissuto (sua dichiarazione, in Opere complete, III, cit., p. 934).

114 Székács, Conversazione con Primo Levi, cit. in Opere complete, III, cit., p. 780. 115 Ibidem.

116 Ivi, p. 781. 117 Ibidem.

132 Levi sa bene quanto sia instabile la memoria umana, soprattutto «sulle lunghe distanze»;118 nel Ritorno di Cesare, in Lilít, dopo aver raccontato il rientro in Italia

del personaggio che porta il nome di Cesare, esterna una considerazione più generale sulla memoria:

È questa la storia di come Cesare sciolse il suo voto, e scrivendola qui ho sciolto un voto anch’io. Può essere imprecisa in qualche particolare, perché si fonda su due memorie (la sua e la mia), e sulle lunghe distanze la memoria umana è uno strumento erratico, specialmente se non è rafforzata da souvenirs materiali, e se invece è drogata dal desiderio (anche questo suo e mio) che la storia narrata sia bella; ma il dettaglio dei dollari falsi è certo […].119

Oltre che uno strumento «erratico» per il deterioramento dovuto al trascorrere del tempo, la memoria è anche ingannevole: è «uno strumento meraviglioso ma fallace»,120 come l’autore la definisce nella frase d’apertura del primo capitolo dei Sommersi e i salvati. I ricordi, infatti, non soltanto tendono a cancellarsi con gli anni, talvolta vengono alterati e modificati dai sottili meccanismi psicologici della mente umana. Nel caso di Levi, tuttavia, quanto alla rievocazione della propria esperienza concentrazionaria, entrano in gioco delle dinamiche involontarie che rendono «meccanica»121 la memoria: lo scrittore non deve faticare molto per richiamare alla memoria i ricordi relativi alla prigionia; senza che lui si sforzi deliberatamente, la memoria gli restituisce «fatti, volti, parole, sensazioni».122 In un racconto del 1986, Un «giallo» del Lager, Levi si sorprende di riconoscere un compagno di prigionia guardando una sua fotografia scattata quasi cinquant’anni prima:

Provai una specie di abbagliamento; a distanza di quasi mezzo secolo, il viso era quello, coincideva perfettamente con quello che io, senza saperlo, recavo stampato nella memoria patologica che serbo di quel periodo.123

In questo tipo di memoria, «patologica» per l’appunto, Levi ha conservato senza saperlo i dettagli dei suoi «due anni di vita fuori legge»,124 quei particolari che

118 Levi, Il ritorno di Cesare, in Tutti i racconti, cit., p. 637. 119 Ivi, pp. 637-638.

120 Levi, I sommersi e i salvati, in Opere complete, II, cit., p. 1155.

121 Della «memoria meccanica» Levi parla in un passo del capitolo «Comunicare» dei Sommersi e i

salvati (ivi, pp. 1207-1208).

122 Levi, Prefazione a Moments of Reprieve, in Opere complete, II, cit., p. 1655. 123 Idem, Un «giallo» del Lager, in Tutti i racconti, cit., p. 876.

133 continuano ad affiorare e che lo inducono a riaprire un capitolo su cui pensava di aver detto tutto.

Nei racconti sul Lager riuniti in Passato prossimo (in Lilít) e nell’Ultimo Natale di guerra la narrazione raramente prende le mosse direttamente da un’azione o un’attitudine di un personaggio, diversamente da quanto è riscontrabile nella maggior parte dei racconti che hanno per protagonisti i personaggi finzionali. In due racconti, Il giocoliere e Un discepolo, i personaggi principali – che sono rispettivamente Eddy ed Endre Szántó – sono introdotti a partire dalla descrizione della categoria di prigionieri a cui appartengono: il primo è uno dei criminali comuni, delle «punte verdi»; il secondo è uno degli ungheresi arrivati ad Auschwitz tra maggio e giugno del 1944. In Lilít, ovvero il racconto che dà il titolo all’intera raccolta, e nello Zingaro, i cui protagonisti oltre al narratore sono da una parte «il Tischler» e dall’altra Grigo, la narrazione prende l’avvio da una circostanza specifica: in un caso è il temporale estivo che impedisce momentaneamente ai prigionieri di lavorare, nell’altro è la comparsa di un avviso che consente ai deportati, in via eccezionale e del tutto sospetta, di scrivere alle proprie famiglie. Nel Nostro sigillo, invece, il racconto comincia con la descrizione delle consuetudini mattutine della vita del Lager, a partire dalla quale è introdotto, tra gli altri personaggi che sono per lo più comparse, il personaggio di Wolf. Similmente nei due racconti di Auschwitz, città tranquilla (1984) e L’ultimo Natale di guerra (1984) la narrazione è messa in moto da alcune considerazioni generali sul Lager, mentre in Pipetta da guerra (1985) il racconto dell’esperienza nel campo ha un’origine orale, nasce da una conversazione tra l’autore e i suoi amici. Sono, quindi, solamente tre i racconti che si aprono subito con l’immagine di un personaggio, per presentarne poco dopo un altro: Capaneo, Il cantore e il veterano e Un «giallo» del Lager.

Capaneo,125 che è il primo racconto di Lilít e altri racconti, è stato pubblicato per

la prima volta su «Il Ponte» nel novembre 1959; Levi lo modifica in occasione della pubblicazione su «La Stampa» nel 1979, per poi inserirlo in Lilít nel 1981. La prima versione presenta un incipit diverso da quello del testo definitivo, più personale,126

125 Levi, Capaneo, in Tutti i racconti, cit., pp. 583-588.

126 È la prima volta che Levi torna a raccontare del Lager dopo Se questo è un uomo e lo fa

134 ed è diverso anche il nome di uno dei protagonisti; Vidal, infatti, diventerà nella versione finale Valerio, ed è proprio con un’affermazione su questo personaggio che si apre il racconto:

Nessuno avrebbe potuto amare né odiare Valerio: la sua scarsità, la sua insufficienza erano tali da relegarlo fin dai primi contatti fuori dei comuni rapporti fra uomini.127

L’introduzione di Valerio prosegue con una breve descrizione fisica, come accade per tutti i protagonisti degli episodi sul Lager presenti in Lilít, diversamente dai personaggi finzionali, sul cui aspetto spesso l’autore sorvola. Alla caratterizzazione fisica si aggiungono poi altre informazioni, ad esempio la predisposizione di Valerio a cadere di continuo nel fango:

Era stato piccolo e grasso; piccolo era rimasto, e della sua pinguedine di un tempo testimoniavano melanconicamente le flaccide pieghe sul viso e sul corpo. Avevamo lavorato a lungo insieme, nel fango polacco. A tutti noi capitava di caderci […]. Invece Valerio cadeva continuamente, più di qualsiasi altro. […] Il fango era il suo rifugio, la sua difesa putativa. Era l’omino di fango, il colore del fango era il suo colore. Lui lo sapeva; col poco di luce che le sofferenze gli avevano lasciato, sapeva di essere risibile.

E ne parlava, perché era loquace.128

Uno spazio bianco separa la presentazione del personaggio, che si estende per due capoversi, dalla narrazione della vicenda che è il fulcro del racconto; analogamente nel racconto successivo il personaggio principale è introdotto nella sequenza iniziale, che è separata graficamente dalla vicenda di cui egli è protagonista insieme al narratore. L’autore e Valerio si incontrano in una specie di scantinato dove si sono rifugiati, l’uno all’insaputa dell’altro, per ripararsi da un bombardamento aereo. Presto li raggiunge un terzo personaggio, che è il vero protagonista del racconto: Rappoport. Dapprima si disegna in cima alla scala il suo «contorno nero e vasto» con un secchio in mano, poi lascia cadere il secchio – di cui gli altri due si affrettano a raschiare il fondo per ricavarne qualche residuo di zuppa – e scende «maestosamente» tra loro. Da un’osservazione del narratore riguardo al fatto che

laggiù, in quegli stracci da zebra, colla barba ancora peggio rasa che d’abitudine, e i capelli tosati, avessi un aspetto molto diverso da oggi; ma la cosa non ha importanza, il fondo non è cambiato». In P. Levi, Auschwitz, città tranquilla. Dieci racconti, a cura di F. Levi e D. Scarpa, Torino, Einaudi, 2021, p. 7.

127 Levi, Capaneo, in Tutti i racconti, cit., p. 583. 128 Ibidem.

135 Rappoport non è un «uomo da regalare zuppa né da chiederla in dono» prende le mosse la caratterizzazione del personaggio:

Rappoport poteva avere allora trentacinque anni. Polacco di origine, si era laureato in medicina a Pisa: di qui la sua simpatia per gli italiani, e la sua dissimmetrica amicizia con Valerio, che a Pisa era nato. Era un uomo mirabilmente armato. Astuto, violento e allegro come i filibustieri di un tempo, gli era riuscito facile lasciarsi dietro in blocco quanto gli risultava superfluo della educazione civile. Viveva in Lager come una tigre nella giungla: abbattendo e taglieggiando i più deboli ed evitando i più forti, pronto a corrompere, a rubare, a fare a pugni, a tirar cinghia, a mentire o a blandire, a seconda delle circostanze. Era dunque un nemico, ma non vile né sgradevole.129

Rappoport è un «bandito prudente»: una delle sue specialità è quella di correre in cucina a rubare qualcosa allo scattare dell’allarme aereo, ma è anche abbastanza scaltro da sapere quando è il momento di restare al suo posto per non rischiare di essere punito. Il suo ritratto – secondo una prassi frequente nella caratterizzazione dei personaggi di Levi, finzionali oppure no – si arricchisce col procedere del dialogo, attraverso le riflessioni del narratore e grazie al racconto che il personaggio stesso fa ai due compagni. Nel momento in cui Rappoport inizia a parlare mentre i due italiani vorrebbero approfittarne per dormire, ad esempio, il narratore aggiunge che Rappoport pur detestando il lavoro è «uno di quei temperamenti sanguigni che non sopportano l’inazione». Il suo atteggiamento spavaldo, di irrisione verso le esplosioni che sono sempre più vicine, ricorda all’autore l’immagine del Capaneo dantesco, che sfida Giove dall’Inferno irridendone le folgori: la sua vitalità, che Levi ammira nel momento in cui scrive il racconto, appariva importuna e insolente nel Lager. Nel frattempo, tale personaggio-persona coglie l’occasione offerta da questo momento di tregua per fare testamento:

Se fossi libero, vorrei scrivere un libro con dentro la mia filosofia: per ora, non posso che raccontarla a voialtri due meschini. Se vi serve, tanto meglio; se no, e se voi ve la cavate e io no, che sarebbe poi strano, potrete ripeterla in giro, e verrà magari a taglio a qualcuno. Non che me ne importi molto, però: non ho la stoffa del benefattore.130

Rappoport ha goduto della vita finché ha potuto e ha accumulato una grande quantità di «bene»; nonostante i venti mesi che ha trascorso nel campo, può reputare il suo bilancio personale ancora in attivo:

129 Ivi, p 585. 130 Ivi, p. 587.

136 Perciò, nel caso deprecabile che uno di voi mi sopravviva, potrete raccontare che Leon Rappoport ha avuto quanto gli spettava, non ha lasciato né debiti né crediti, non ha pianto e non ha chiesto pietà. Se all’altro mondo incontrerò Hitler, gli sputerò in faccia con pieno diritto […] perché non mi ha avuto!131

Uno spazio bianco separa ulteriormente l’episodio del bombardamento dalla conclusione del racconto: il narratore ha rivisto Rappoport soltanto una volta, dalla finestra dell’infermeria del campo due giorni prima dello smantellamento.

Ho rivisto Rappoport una volta sola e per pochi istanti, e la sua immagine è rimasta in me nella forma quasi fotografica di questa sua ultima apparizione. Vidi un giorno due barellieri di cui uno mi colpì per l’alta statura, e per un’obesità perentoria, autorevole, inusitata in quei luoghi. Riconobbi in lui Rappoport, scesi alla finestra e picchiai ai vetri.132

Levi ha ragione di ritenere che Rappoport non sia sopravvissuto, perciò stima doveroso «eseguire al meglio l’incarico» che gli è stato affidato e tramandarne la storia. La narrazione mette insieme una parte più descrittiva, l’introduzione di Valerio, e una sequenza più dinamica e dialogica, l’arrivo di Rappoport seguito dal suo racconto, intervallato dalle esplosioni e dalle considerazioni del narratore. Contemporaneamente, anche la costruzione del personaggio varia leggermente a seconda che prevalga nell’autore il ruolo di osservatore oppure quello di ascoltatore: da una parte una voce narrante più lontana dal personaggio e sarcastica, dall’altra la parola affidata direttamente al personaggio e una maggiore partecipazione del narratore.

Al contrario di Capaneo, il racconto successivo133 manca di discorsi diretti, benché

l’impostazione sia la medesima, con la presentazione del personaggio separata