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L’«autore-protagonista»: tra finzione narrativa ed

4. PERSONAGGI UMANI

4.3 L’«autore-protagonista»: tra finzione narrativa ed

La problematicità di trasporre sulla pagina scritta una persona reale è insita tanto nella trasformazione in personaggi delle figure umane con cui l’autore si trova ad interagire nel corso della propria esistenza quanto nella rappresentazione che lo scrittore fa di sé stesso: il rischio di una sfasatura tra l’immagine reale dello scrittore e quella che delinea nelle sue opere è, ancora una volta, inevitabile. A proposito di questa divergenza tra la persona e il personaggio dello scrittore, nell’intervista a Roberto Di Caro, Levi ammette di non essere esattamente come si è rappresentato nei suoi libri e che, a giudicare dalle lettere che riceve, i lettori lo immaginano «diversissimo» da come è in realtà: gli attribuiscono una saggezza che lui sente di non avere e che, secondo lui, non è altro che «misura».221 Poco prima, infatti, ha spiegato all’intervistatore che sono rari i casi in cui uno scrittore si rappresenti com’è, «senza nessuna operazione di cosmesi»:

Per lo più, all’atto stesso in cui si accinge a scrivere, l’autore elegge una parte di sé, quella che lui ritiene migliore. Io mi sono rappresentato volta a volta nei miei libri come coraggioso e come codardo, come preveggente e come sprovveduto; ma sempre, credo, come un uomo equilibrato.222

E al giornalista, che gli chiede se non lo è, risponde di esserlo «abbastanza poco», di non aver mai scritto di far fronte «abbastanza male» alle difficoltà. È questa una delle ultime interviste rilasciate da Levi, da cui affiora lo stato d’animo dello scrittore nelle settimane precedenti alla sua scomparsa. Quanto ai diversi modi in cui si è rappresentato nei suoi libri, vale la pena soffermarsi su un’opera eterogenea e ibrida, nella quale il mestiere di chimico si intreccia più vistosamente con quello di scrittore, i confini tra esperienza e finzione si fanno talvolta labili, e alcuni

221 R. Di Caro, Il necessario e il superfluo, «Piemonte vivo», 1987, in Opere complete, III, cit., p.

689.

161 racconti fantastici si affiancano agli episodi di un’«autobiografia chimica»223 che

ha per protagonista proprio l’autore.

Il sistema periodico224 si apre, come è noto, con un racconto sugli antenati dello scrittore, quasi un saggio linguistico sul loro gergo, che mescola ebraico e piemontese, nonché l’unico racconto del libro in cui l’elemento chimico sia metaforico. Il chimico, precisamente «un chimico di buona volontà», entra in scena nel capoverso iniziale insieme all’argon e all’anidride carbonica, mentre l’io narrante, dapprima come auctor e infine come agens compare successivamente. Al secondo capoverso, dunque, si legge un verbo alla prima persona singolare – «so» – e l’aggettivo possessivo «miei». Nel resto del racconto prevale la prima persona plurale, fino a quando l’autore non sposta la narrazione da un passato più lontano, leggendario, ad un passato più vicino con la figura di Barbaricô. A partire da questo punto, che è separato graficamente dalla rassegna dei «mitici personaggi»225 descritti nella parte iniziale del racconto, la presenza dell’io narrante diventa man mano più percettibile, con l’intensificarsi delle voci verbali alla prima persona singolare e parimenti degli aggettivi possessivi ad essa corrispondenti: «mio zio», «mia nonna paterna», «mio padre».226 Solo dopo aver introdotto la figura del padre, il narratore si manifesta apertamente in quanto agens, chiudendo il racconto con un ricordo d’infanzia, al termine del quale finalmente dice «io».227 Fin qui, ciò che si

evince sul personaggio principale del libro, è davvero poco: che abbia radici ebraiche è chiaro e che è il primo della classe lo sappiamo dalle parole del padre, ma ancora nulla è espresso sul suo futuro mestiere di chimico.

L’«autobiografia chimica», effettivamente, comincia con il racconto successivo, Idrogeno, in cui l’autore sedicenne ha un primo confronto con gli elementi chimici insieme all’amico Enrico, identificabile con Mario Piacenza.228 La

223 M. Mengoni, Elementi inattesi. Come nacque Il sistema periodico, in Cucire parole, cucire

molecole. Primo Levi e Il sistema periodico, Accademia delle Scienze di Torino, Quaderni, n. 32,

2019, p. 67.

224 Levi, Il sistema periodico, in Tutti i racconti, cit., pp. 361-577. 225 Ivi, p. 373.

226 Ivi, pp. 372, 377, 378, 379. 227 Ivi, p. 379.

228 Indice dei nomi di persona e personaggio, a cura di D. Muraca, in Opere complete, III, cit., p.

162 caratterizzazione dell’«autore-protagonista»229 si interseca con quella dell’amico,

nel primo degli autoritratti che Martina Mengoni definisce «duali»:

definisco qui “autoritratti duali” quelli dove l’autore descrive sé stesso come membro di una coppia amicale, per similitudine o per contrasto. I quattro più importanti autoritratti duali de Il sistema periodico si trovano in Zinco, Ferro, Cerio, Idrogeno.230

Enrico non è molto attivo e il suo rendimento scolastico è scarso ma ha delle virtù che affascinano l’autore: «un coraggio tranquillo e testardo, una capacità precoce di sentire il proprio avvenire e di dargli peso e figura»; non è volgare, non mente, non si perde d’animo di fronte ai propri limiti, è di fantasia «pedestre e lenta» e vive di sogni «possibili». Già in questo si distingue dal narratore, che mostra di vivere la scuola, lo sport, le relazioni affettive in modo più tormentato:

Non conosceva il mio tormentoso oscillare dal cielo (di un successo scolastico o sportivo, di una nuova amicizia, di un amore rudimentale e fugace) all’inferno (di un quattro, di un rimorso, di una brutale rivelazione d’inferiorità che pareva ogni volta eterna, definitiva).231

Sia Enrico che l’autore aspirano a diventare dei chimici, ma vivono in modo diverso aspettative e speranze: il primo chiede alla chimica gli strumenti per un guadagno e una vita sicura, il secondo chiede ben altro. Di conseguenza, la prima persona plurale – «Non avevamo dubbi: saremmo stati chimici» – si scinde in due punti di vista divergenti, quello di Enrico da una parte e dell’io narrante dall’altra:

Io chiedevo tutt’altro: per me la chimica rappresentava una nuvola indefinita di potenze future, che avvolgeva il mio avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco, simile a quella che occultava il monte Sinai. Come Mosè, da quella nuvola attendevo la mia legge, l’ordine in me, attorno a me e nel mondo. Ero sazio di libri, che pure continuavo a ingoiare con voracità indiscreta, e cercavo un’altra chiave per i sommi veri: una chiave ci doveva pur essere, ed ero sicuro che, per una qualche mostruosa congiura ai danni miei e del mondo non l’avrei avuta dalla scuola. […] Guardavo gonfiare le gemme in primavera, luccicare la mica nel granito, le mie stesse mani, e dicevo dentro di me: «Capirò anche questo, capirò tutto, ma non come loro vogliono. Troverò una scorciatoia, mi farò un grimaldello, forzerò le porte».232

229 Del Giudice, Introduzione, cit. in Opere complete, I, cit., p. XI (riprende una definizione di Levi

stesso).

230 M. Mengoni, Primo Levi, autoritratti periodici, «Allegoria», n. 71-72, gennaio-dicembre 2015,

p. 157.

231 Levi, Il sistema periodico, in Tutti i racconti, cit., p. 381. 232 Ivi, pp. 381-382.

163 La personalità del narratore-protagonista è decisamente più complessa rispetto a quella di Enrico ed è la sola di cui l’autore possa esplorare ed esplicitare a fondo i pensieri, riformulandoli e mettendoli su carta con maggiore libertà. Levi, dunque, utilizza un’immagine biblica per rappresentare il suo rapporto di allora con la chimica, paragonando il sé sedicenne a Mosè in attesa di una legge ordinatrice; si rappresenta sazio di libri ma al contempo avido di risposte, in leggera polemica con l’impianto idealista assunto dalla scuola in quegli anni. Subito dopo questo autoritratto, che costituisce una sorta di digressione, una premessa sul narratore- protagonista lecita e necessaria, torna la prima persona plurale e Levi riprende la narrazione proprio dalla frase con cui l’aveva lasciata momentaneamente in sospeso: «Saremmo stati chimici, Enrico ed io». Da questo momento, la prima persona plurale sarà dominante fino agli ultimi capoversi del racconto, quando di nuovo l’autore ricorrerà alla prima persona singolare per raccontare come ha eseguito l’esperimento dell’elettrolisi dell’acqua e, soprattutto, come ha reagito alle obiezioni dell’amico:

L’obiezione mi giunse offensiva: come si permetteva Enrico di dubitare di una mia affermazione? Io ero il teorico, solo io: lui benché titolare (in certa misura, e poi solo per «transfert») del laboratorio, anzi, appunto perché non era in condizione di vantare altri numeri, avrebbe dovuto astenersi dalle critiche. Ora vedremo, dissi […].233

L’«io» si distingue ora in maniera più netta e si contrappone con maggiore enfasi al «lui»: nella coppia Enrico-Primo solo quest’ultimo è la mente, il «teorico». È Idrogeno, perciò, a porre le basi per la narrazione delle avventure del chimico: è questo il racconto in cui Levi introduce non solo la propria passione giovanile verso la chimica, ma anche la necessità di trovare un modo appropriato per indagare le cose, per comprendere il «mistero» che lo circonda.

Procedendo da un racconto all’altro, il lettore si imbatte via via in nuovi elementi che arricchiscono e delineano il ritratto del narratore-protagonista. In Nichel, per esempio, emerge un lato importante del Levi personaggio che è proprio anche del Levi «poliedro»: l’essere un buon ascoltatore, «uno a cui molte cose vengono raccontate».234 In Fosforo, indizi ulteriori sulla figura dell’autore si deducono dall’elenco degli oggetti che egli porta con sé nel momento in cui si trasferisce a

233 Ivi, p. 386. 234 Ivi, p. 425.

164 Milano nel 1942, quando ottiene un impiego presso una fabbrica svizzera di medicinali:

mi trasferii a Milano con le poche cose che sentivo indispensabili: la bicicletta, Rabelais, le Macaroneae, Moby Dick tradotto da Pavese ed altri pochi libri, la piccozza, la corda da roccia, il regolo logaritmico e un flauto dolce.235

Il bagaglio che Levi si porta dietro è, come lo definisce Mattioda, «una congerie di strumenti per l’anima e il corpo, per lo sport e per il calcolo, per l’ironia e per l’epica letteraria»:236 la bicicletta, immancabile mezzo di trasporto, le opere di Folengo e Rabelais, scrittore che Levi apprezza molto e pone tra i maestri del riso nella Ricerca delle radici, la traduzione di Pavese dell’opera di Melville – una «scoperta» per il giovane Levi e una lettura fatta «con delizia»237 – infine la piccozza e la corda da roccia, emblemi della passione dell’autore per la montagna, che insieme alla libertà di sbagliare costituisce un tema centrale del capitolo Ferro.

Uno degli autoritratti più significativi del Sistema periodico, inoltre, si trova in un racconto che è posto esattamente al centro del libro: è Cerio, la narrazione di un momento fondamentale della vita di Levi, in cui la chimica non ha avuto molto spazio ma ha ricoperto un ruolo decisivo. In prima istanza compare l’auctor, il chimico-scrittore che a distanza di trent’anni torna a raccontare un avvenimento che ha già narrato «altrove»:

Che io chimico, intento a scrivere qui le mie cose di chimico, abbia vissuto una stagione diversa, è stato raccontato altrove.238

Subito dopo, compare l’agens, il prigioniero 174517, un esemplare umano che lo scrittore riesce a descrivere con difficoltà:

A distanza di trent’anni, mi riesce difficile ricostruire quale sorta di esemplare umano corrispondesse, nel novembre 1944, al mio nome, o meglio al mio numero 174517. Dovevo aver superato la crisi più dura, quella dell’inserimento nell’ordine del Lager, e dovevo aver sviluppato una strana callosità, se allora riuscivo non solo a sopravvivere, ma anche a pensare, a registrare il mondo intorno a me, e perfino a svolgere un lavoro abbastanza delicato, in un ambiente infettato dalla presenza quotidiana della morte […].239

235 Ivi, p. 463.

236 Mattioda, Levi, cit., p. 15.

237 In questi termini Levi parla della traduzione di Moby Dick fatta da Pavese in alcune interviste:

cfr. Opere complete, III, cit., pp. 803 e 1088.

238 Levi, Il sistema periodico, in Tutti i racconti, cit., p. 489. 239 Ibidem.

165 Il ritratto che Levi fa di sé in quanto chimico-schiavo è tracciato, per il momento, in base a una serie di supposizioni; il tono ipotetico, tuttavia, sarà abbandonato non appena lo scrittore avrà precisato le condizioni di vita degli Häftling nel campo di concentramento, includendosi ancora una volta in un gruppo di individui: «noi non eravamo normali perché avevamo fame».240 Come l’autore ha fatto e farà per altri

personaggi, sia fuori che dentro il Lager, compara il sé stesso di allora ad un animale, in una similitudine che è dapprima letteraria – si paragona a Buck del Richiamo della foresta – e poi diventa più generale, con il confronto con le volpi: Ero chimico in uno stabilimento chimico, in un laboratorio chimico (anche questo è già stato raccontato), e rubavo per mangiare. Se non si comincia da bambini, imparare a rubare non è facile; mi erano occorsi diversi mesi per reprimere i comandamenti morali e per acquisire le tecniche necessarie, e ad un certo punto mi ero accorto (con un balenio di riso, e un pizzico di ambizione soddisfatta) di stare rivivendo, io dottorino per bene, l’involuzione-evoluzione di un famoso cane per bene, […] il grande Buck del Richiamo

della Foresta. Rubavo come lui e come le volpi: ad ogni occasione favorevole, ma con

astuzia sorniona e senza espormi. Rubavo tutto, salvo il pane dei miei compagni.241 Vari sono i punti di contatto del prigioniero 174517 con il cane dell’opera di London: il viaggio in treno, la segregazione e la violenza all’arrivo, l’adattarsi alla nuova vita e la centralità che il lavoro ricopre in essa, infine l’involuzione- evoluzione che porta «il cane per bene» a diventare un animale selvaggio, nello stesso modo in cui «il dottorino per bene» regredisce al rango di animale che impara a rubare per sopravvivere. Eppure, l’involuzione è anche un’evoluzione e il paragone con Buck, o meglio con il «grande Buck», è ambivalente: Levi pensa alla somiglianza tra la propria condizione e quella del celebre cane di London con un «balenio di riso» e «un pizzico di ambizione soddisfatta». Oltre che da questo paragone zoomorfico, in Cerio l’immagine dell’autore-protagonista trae sostanza da un'altra comparazione, questa volta tutta umana: quella con l’amico Alberto, «un uomo di volontà buona e forte», «miracolosamente rimasto libero» e scampato all’“inquinamento” dell’universo concentrazionario.242 Il confronto tra lo scrittore

e l’amico è implicito ma costante. Ad Alberto l’autore mostra i cilindretti di cerio che è riuscito a rubare dal laboratorio chimico, con l’intenzione di scoprirne

240 Ibidem. 241 Ivi, p. 490. 242 Ivi, p. 492.

166 un’utilità e barattarli. Di fronte allo scetticismo di Primo sulle possibilità commerciali del bottino Alberto non si lascia scoraggiare, anzi lo redarguisce perché la rinuncia, il pessimismo e lo sconforto sono «abominevoli e colpevoli». Dopo un capoverso dedicato interamente alla caratterizzazione di Alberto, Levi torna alla narrazione dell’episodio riguardante i cilindretti. Anche in questo caso può essere interessante osservare l’uso dei pronomi personali, e in particolare il passaggio dalla prima persona plurale a due soggetti distinti; la coppia simbiotica formata da due entità che appaiono intercambiabili nella logica del Lager243 è

costituita, in realtà, da due individui non del tutto uguali:

Noi dovevamo essere più astuti. Questo discorso, della necessità di essere astuti, non era

nuovo fra noi: Alberto me lo aveva svolto sovente, e prima di lui altri nel mondo libero, e moltissimi altri ancora me lo ripeterono poi, infinite volte fino ad oggi, con modesto risultato; anzi col risultato paradosso di sviluppare in me una pericolosa tendenza alla simbiosi con un autentico astuto, il quale ricavasse (o ritenesse di ricavare) dalla convivenza con me vantaggi temporali o spirituali. Alberto era un simbionte ideale, perché si asteneva dall’esercitare la sua astuzia ai miei danni. Io non sapevo, ma lui sì (sapeva sempre tutto di tutti, eppure non conosceva il tedesco né il polacco, e poco il francese), che nel cantiere esisteva un’industria clandestina di accendini […]. «Non fare difficoltà, mi disse: ci penso io. Tu pensa a rubare il resto».244

Se Alberto, quindi, è astuto e sa tutto di tutti pur non conoscendo le lingue dominanti nel Lager e poco il francese, il ritratto dell’autore-protagonista si delinea per contrasto: non è astuto e benché conosca bene il francese e abbastanza il tedesco non è al corrente di molte delle informazioni ricavate dall’amico. Che le vite di Alberto e del prigioniero 174517 si siano differenziate ad un certo punto della loro permanenza nel Lager, Levi lo ha già raccontato in altre sedi; nella conclusione di Cerio, pertanto, l’autore riporta brevemente la triste sorte del compagno, non sopravvissuto alla cosiddetta “marcia della morte”, mentre sorvola sul proprio destino. D’altronde, concluso il capitolo sull’esperienza concentrazionaria, il lettore sa già che la storia del protagonista continua: gli basta voltare pagina per scoprirne il seguito.

Il racconto successivo, Cromo, segna il ritorno all’equilibrio dopo la parentesi di Auschwitz: è la narrazione di un momento positivo nella vita dell’autore, l’inizio

243 Si ricordi che, come Levi racconta in Pipetta da guerra, quando uno dei due veniva chiamato per

nome si presupponeva che rispondesse quello più vicino all’interlocutore.

167 della sua realizzazione sul piano professionale e affettivo, con l’incontro della donna che diventerà sua moglie, ed è anche il punto di partenza del suo itinerario di scrittore. Si presenta qui per la prima volta un altro paragone letterario, che Levi ribadirà in diverse occasioni: il Levi personaggio si sente come il Vecchio Marinaio del poema di Coleridge.

Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi.245

Il clima rigenerativo di questo racconto, però, è ridimensionato dall’autorappresentazione che Levi propone in Azoto, in cui palesa la percezione che l’autore-protagonista ha di sé a distanza di un anno, verso la fine del 1947:

Sarebbe stato molto bello arrivare sul posto in auto, ma già, se tu fossi un chimico con l’auto, invece che un reduce meschino, scrittore a tempo perso, e per giunta appena sposato, non staresti qui ad essudare acido piruvico ed a correre dietro ad ambigui fabbricanti di rossetto.246

A questa altezza cronologica Levi è ancora un chimico che si muove in bicicletta, si è licenziato dalla fabbrica di vernici di Avigliana e ha intrapreso un’esperienza di lavoro autonomo con un amico. La frustrazione del Levi-agens è evidente dalle parole del Levi-auctor, è un chimico senza auto, un reduce meschino e uno scrittore a tempo perso: Se questo è un uomo, infatti, è pubblicato nell’ottobre del 1947 dall’editore De Silva in 2500 copie, dopo essere stato rifiutato da Einaudi. Al senso di umiliazione che prova nel suo lavoro di libero professionista si aggiunge, dunque, la delusione di essere l’autore di un libro che nessuno legge:

Non era quella la via per uscire dalla palude: per quale via ne sarei dunque uscito, io autore sfiduciato di un libro che a me sembrava bello, ma che nessuno leggeva? Meglio ritornare fra gli schemi scoloriti ma sicuri della chimica inorganica.247

Le due anime della chimica e della scrittura, che cominciano a intrecciarsi nella vita dell’autore subito dopo il ritorno dal Lager in un percorso non privo di ostacoli,

245 Ivi, p. 501. Levi riprende la similitudine in diverse interviste, ad esempio in Opere complete, III,

cit., pp. 55, 180, 369; un verso di Coleridge dà il titolo alla raccolta di poesie Ad ora incerta ed è citato nella poesia Il superstite; lo stesso gruppo di versi è posto come epigrafe ai Sommersi e i

Salvati.

246 Ivi, pp. 521-522. 247 Ivi, p. 529.

168 trovano una conciliazione quasi trent’anni dopo, come Levi dimostra icasticamente nel racconto che chiude il Sistema periodico. L’idea di narrare la storia di un atomo di carbonio, come abbiamo già constatato, risale a molto prima che Levi incominciasse ad essere riconosciuto come scrittore, «in un’ora e in un luogo» nei quali la sua vita «non valeva molto»,248 addirittura prima della deportazione.

L’impostazione di Carbonio è singolare, diverse sono le istanze che si presentano