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Metà uomini e metà fantasmi: breve storia della nozione d

2. LA QUESTIONE DEL PERSONAGGIO NE

2.1 Metà uomini e metà fantasmi: breve storia della nozione d

personaggio – positivo o negativo, non importa – soffre sempre un poco».22 Ma prima di esaminare più da vicino le questioni che riguardano i personaggi nei racconti di Levi è necessario fare un passo indietro e soffermarsi brevemente sulla problematicità del concetto di personaggio, questa “strana creatura”:

Veramente i personaggi di un libro sono creature strane. Non hanno pelle né sangue né carne, hanno meno realtà di un dipinto o di un sogno notturno, non hanno sostanza che di parole, ghirigori neri sul foglio di carta bianca, eppure puoi intrattenerti con loro, conversare con loro attraverso i secoli, odiarli amarli, innamorartene.23

2.1 Metà uomini e metà fantasmi: breve storia della nozione di

personaggio

La nozione di personaggio rappresenta una questione insidiosa e molto dibattuta nell’ambito della critica letteraria, un vocabolo pressoché imprescindibile nel repertorio di chiunque si occupi di studi inerenti alla narrativa. È un concetto apparentemente semplice, che si accompagna ad un termine che frequentemente capita di sentire in contesti non letterari e in espressioni quotidiane del parlato; si pensi che perfino un bambino, interrogato su quali siano i personaggi della storia che ha appena letto, ascoltato o visto, non esiterebbe a rispondere alla domanda. Ad uno sguardo più accorto, al contrario, questa nozione si mostra più mutevole di quanto si è abituati a pensare: il personaggio è un’entità difficilmente schedabile sotto una definizione stabile e definitiva. La stessa etimologia della parola italiana “personaggio” racchiude in sé una buona dose di ambiguità: entra nell’uso italiano dal francese personnage, inizialmente con il significato di «persona assai rappresentativa e ragguardevole» (XIII secolo); solo in un secondo momento, circa dal XV secolo, assume l’accezione di «persona che agisce o che è rappresentata in un’opera artistica»; il termine francese è a sua volta un derivato di personne, che proviene dal latino persona. Quest’ultimo deriva probabilmente dall’etrusco phersu, ovvero “maschera teatrale”, e passa successivamente a indicare l’individuo,

22 G. Granà, Incontro con Primo Levi, «Controcampo. Mensile d’attualità culturale», giugno 1981,

in Opere complete, III, cit., p. 214.

38 in senso generico, corporeo, grammaticale, teologico e giuridico.24 La parola che designa il personaggio, dunque, prende le mosse dalla maschera per arrivare alla persona e tornare di nuovo alla maschera. Di questa oscillazione rende conto anche l’etimologia riportata nella corrispondente voce del Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini (XIX secolo):

Uomo di grande affare, Uomo di conto. Ma perché chiamasi così? Eccolo. Gli antichi istrioni andavano in iscena colla maschera sul viso (persona); e come nelle Tragedie si rappresentano tutti fatti eroici, costoro che parlano sono o re o qualche cosa di grosso, così da questa gente che portava la maschera la persona si fece personaggio, e si trovò a significare questi pezzi grossi, e con gran ragione a mio senno […].25

Se, inoltre, si confronta il termine italiano con i corrispettivi del francese, dello spagnolo, dell’inglese, del tedesco e del russo si osserva essenzialmente l’alternanza tra parole che derivano dal latino persona e quelle che discendono dal greco karakter, che vuol dire “traccia, segno” ma anche “tratto caratteristico” e “immagine”. Paragonando questi vocaboli Arrigo Stara nota, nel suo studio sul personaggio, che nelle diverse lingue «mondo reale e mondi di invenzione, persona, personaggio e personaggi» si trovano a condividere le medesime parole; col passare del tempo i significati di “persona”, “personaggio”, “personalità”, “maschera”, “carattere” o “figura” si specializzano, finché arrivano ad occupare nel sistema linguistico una posizione abbastanza definita, non al riparo comunque da possibili confusioni.26

Guardando avanti di un secolo rispetto alla definizione del Tommaseo-Bellini, si può riscontrare che la situazione non cambia molto; la voce “personaggio” del Vocabolario della lingua italiana Treccani riporta come primo significato quello di «persona ragguardevole e importante per l’alto incarico che ricopre, il potere che detiene, la fama e il prestigio che ha conquistato» e al secondo posto «interlocutore di una composizione drammatica […] Per estens., ognuna delle persone che agiscono in un’opera narrativa, cinematografica, televisiva».27 Si palesa, quindi,

24 A. Stara, L’avventura del personaggio, Firenze, Le Monnier Università, 2004, p. 15 e

“Personaggio” nel Vocabolario Treccani on line: https://treccani.it/vocabolario/personaggio/.

25 Tommaseo-Bellini, 1879, vol. III, parte II. Citato in Stara, L’avventura del personaggio, cit., p.

16.

Cfr. “Personaggio” nel Dizionario della lingua italiana di N. Tommaseo e B. Bellini on line: https://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=personaggio.

26 Stara, L’avventura del personaggio, cit., p. 17.

39 un'altra caratteristica della nozione di personaggio – che non risulta appropriato etichettare come “categoria” – vale a dire la sua trasversalità rispetto ai diversi generi artistici; tale lato della medaglia costituisce, secondo Stara, una prima difficoltà implicita nella nozione di personaggio, in special modo se ci si propone di disporre i personaggi di un determinato genere in un elenco e ci si chiede inevitabilmente con chi questo elenco debba cominciare. Per Stara la nozione di personaggio non sopporta tagli, resiste alle distinzioni di genere troppo marcate: i personaggi si inseguono e ritornano attraverso romanzi e drammi, poemi cavallereschi e

romances, componimenti poetici e raffigurazioni pittoriche, rendendo impossibile stabilire

un ordine rigoroso nelle loro comparse.28

Oltre a ciò, le modalità di costruzione dei personaggi si modificano e si innovano di pari passo con l’evoluzione continua cui ogni arte e ogni genere sono soggetti, nonché con la nascita di forme artistiche che utilizzano nuovi veicoli di trasmissione. Cosa resta in comune allora alla classe dei personaggi? Nulla, risponde Stara, poiché non di classe si tratta ma di «famiglia».29 Non esiste in essa una caratteristica che resti immutata in assoluto; non permane alcun criterio di identificazione che sia univoco e infallibile: i personaggi non condividono un solo tratto onnipresente ma mantengono una somiglianza di famiglia che consente di individuarli «attraverso la modificazione delle varie specie, al di là delle differenze che li rendono fra loro profondamente diversi».30

Anche basarsi sulla verosimiglianza per tentare una classificazione dei personaggi attraverso una distinzione a prima vista lineare come quella tra personaggi completamente inventati, o meglio con denotazione nulla, e personaggi reali, ovvero denotativi, referenziali o storici, può rivelarsi più complicato del previsto: i due gruppi sono passibili di compenetrazioni e sovrapposizioni; in singoli casi può essere problematico arruolare un personaggio in una schiera o nell’altra, ad esempio se la sua figura è sospesa tra l’aura mitica e la realtà storica (criticità che si è già rilevata nel presente lavoro, a proposito dei personaggi che Levi denomina «ambigeni»). Varie sono le ipotesi di categorizzazioni che studiosi di letteratura,

28 Stara, L’avventura del personaggio, cit., pp. 9-10.

29 Ivi, p. 14: Stara prende in prestito la distinzione tra “classe” e “famiglia” da L. Wittgeinstein

(Ricerche filosofiche).

40 esperti di narrativa e semiotica, hanno proposto relativamente a questa eccezionale “famiglia”; tali classificazioni si sono consolidate fondamentalmente intorno a due orientamenti: l’uno, concentratosi sul versante costruttivo del personaggio, si focalizza sulle modalità del discorso di quello che è considerato un mero effetto testuale, un oggetto da scomporre, e ne esamina i procedimenti di rappresentazione, per esempio «nominazione, descrizione, focalizzazione, racconto di parole e/o pensieri, relazione con l’istanza narrativa, ecc.»;31 l’altro analizza la questione

inquadrando la funzione che i personaggi svolgono nel testo e suddividendoli in “tipi”.

Una delle personalità che più di tutte in ambito anglosassone ha influito sullo studio del personaggio in termini di tipi e funzioni è Edward Morgan Forster, la cui prospettiva sull’arte del narrare è stata esposta in una serie di conferenze tenute a Cambridge nel 1927, confluite nel volume Aspects of the novel (1927). La trattazione di Forster propone sette aspetti imprescindibili del romanzo: il racconto, le persone, la vicenda, la fantasia, la profezia, il disegno e il ritmo. Quanto ai personaggi, che appunto chiama «people», Forster considera essenziale che in un’opera ve ne sia una «giusta miscela»;32 essi, infatti, hanno il compito di

esercitare una funzione di freno l’uno rispetto all’altro e sono distinguibili in due categorie: flat characters e round characters, equivalenti in italiano a “personaggi piatti” e “personaggi a tutto tondo”. Quali caratteristiche abbiano i personaggi di questi due tipi è ricavabile in parte dalle espressioni che li designano: gli uni sono personaggi bidimensionali, che rimangono statici nel corso della storia e possono essere sintetizzati in un’unica frase, un’idea o una qualità attorno alla quale sono costruiti; gli altri, al contrario, sono personaggi tridimensionali, dinamici e complessi, composti da numerosi elementi e capaci di evolvere man mano che la trama si svolge e, caratteristica importantissima, di sorprendere il lettore.

La prova che un personaggio è a tutto tondo consiste nella sua capacità di sorprenderci in maniera convincente. Se non ci sorprende mai, egli è piatto; se non ci convince, è piatto e finge d’essere a tutto tondo. L’autentico personaggio a tutto tondo ha in sé l’elemento incalcolabile della vita: la vita delle pagine d’un libro. E usandone ora da solo, più spesso

31 G. Genette, Nuovo discorso del racconto, 1976. Citato in Stara, L’avventura del personaggio, cit.,

p. 166.

41 combinandolo con l’altro tipo, il romanziere porta in fondo il proprio compito di acclimatazione e armonizza la razza umana con gli altri aspetti del proprio lavoro.33 Il romanziere, perciò, traspone la vita sulla pagina, ma non potrebbe farlo efficacemente e fedelmente se non creando innanzitutto la miscela di persone piatte e persone tonde. Prima di Forster una divisione tipologica simile è prospettata da Henry James: da un lato individua dei personaggi primari chiamati a svolgere il ruolo di coscienza centrale dell’opera; dall’altro personaggi secondari che ricoprono mansioni ausiliarie (più «amici del lettore»34 che veri agenti e confidenti del protagonista), i cosiddetti ficelles.35 Come nella bipartizione di Forster, la compresenza di entrambi i tipi di personaggio è indispensabile per l’equilibrio e il buon andamento della storia.

Le categorie di James e Forster offrono spunti per una nuova ripartizione nel 1965, ad opera di W. J. Harvey (in Character and the Novel). In questo caso i raggruppamenti saranno tre invece che due: tra protagonists e background characters (protagonisti e personaggi di sfondo) Harvey colloca una fascia intermedia in cui si trovano i ficelles, figure ausiliarie già presentate da James, e le cards, caratteri convenzionali paragonabili ai flat characters di Forster. I personaggi, secondo Harvey, oscillano continuamente tra funzionalità e non funzionalità, tra un ruolo di sostegno all’intreccio oppure una maggiore autonomia, ma soltanto portando al fallimento il lettore nel suo tentativo di indagare l’ignoto riprodurranno pienamente la vita umana.36 Da questi differenti tentativi di classificazione prende le mosse negli anni Ottanta il lavoro di Baruch Hochman, Character in Literature (1985). Quest’ultimo pensa che personaggi di finzione e individui reali non vadano confusi, ma neanche separati troppo nettamente, in modo che siano possibili integrazioni reciproche. Attraverso la combinazione dei tipi di Harvey e Forster, Hochman stabilisce una tavola di categorie costitutive dei personaggi, create sulla base di otto opposizioni; ogni termine di queste opposizioni entra nella costruzione del personaggio in una misura che può variare da un

33 E. M. Forster, Aspetti del romanzo, Milano, Il Saggiatore, 1968, p. 88.

34 Amici del lettore in quanto con la scomparsa del narratore onnisciente (sostituito dalla

focalizzazione ristretta su un personaggio) sono loro a fornirgli le informazioni necessarie per il proseguimento della narrazione.

35 H. James, Le prefazioni (The Art of the Novel), Roma, Editori Riuniti, 1986. Citato in Stara,

L’avventura del personaggio, cit., p. 164.

42 massimo ad un minimo. Un paradigma, commenta Stara, «giocato sul filo di un precario equilibrio, anche linguistico, fra uno statuto costruttivo oppure imitativo delle rubriche prescelte».37 Pur improntate su un esame funzionale del personaggio, in effetti, queste teorie finiscono per sbilanciarsi quasi impercettibilmente verso una valutazione anche finzionale o illusionistica, cedendo alla tentazione di considerare il personaggio come una persona reale.

Questo atteggiamento è emblematico di una biforcazione soggiacente all’intera storia della nozione di personaggio: quella tra opacità e trasparenza, tra fronte segnico e versante illusionistico, tra approccio funzionale e implicazioni antropomorfiche. Le due direzioni verso cui fluttua lo statuto del personaggio, quello della costruzione del testo e quello dell’illusione mimetica, tuttavia, non sono da intendere secondo Stara come due principi eccessivamente rigidi e reciprocamente esclusivi; sono da giudicare, piuttosto, come due principi oppositivi che coesistono: il principio della natura segnica del personaggio e il principio della natura illusionistica.38 Il primo verte sul dato che un elemento comune ad ogni tipo di personaggio, in ogni arte, è la sua natura segnica, cioè il fatto che esso sia rappresentato attraverso un sistema di segni; stando a questo principio, è il codice della singola arte a costituire la base della nozione di personaggio, non un legame di referenzialità con gli individui del mondo reale. Il secondo principio punta sulla constatazione che l’elaborazione in termini di segni non esaurisca del tutto la nozione di personaggio; asserisce la non arbitrarietà degli elementi costitutivi del personaggio e soprattutto pone l’accento sul suo potenziale mimetico. La capacità mimetica o illusionistica è il fulcro di ogni arte che aspiri al coinvolgimento emotivo del pubblico, consentendogli di immedesimarsi nei personaggi che ha sotto gli occhi. Questi, d’altro canto, partecipano di un’essenza “ibrida”, risultato della commistione di realtà e finzione, sono uomini e fantasmi: quando avranno esaurito completamente la loro facoltà illusionistica continueranno ad esistere ma saranno confinati pienamente nella finzione.

Ogni linguaggio artistico, secondo Stara, segue una parabola che va da una primordiale non credibilità ad un’acquisita credibilità, per poi proseguire nel senso

37 Ivi, p. 175. 38 Ivi, p. 23.

43 opposto, mettendo in discussione la raggiunta realizzazione del potenziale mimetico in virtù dell’inadeguatezza delle figure di cui a lungo si è servito.39 Non a caso, successivamente al processo a Gustave Flaubert (1857) e alla protagonista del suo celebre romanzo, Emma Bovary, che segna il culmine della capacità mimetica del personaggio letterario, si aprirà una crisi della credibilità del personaggio, specialmente di quello romanzesco. Oltretutto, la componente mimetica ha rappresentato un elemento di riflessione fin dalle lontane origini della storia del personaggio, a partire dalle speculazioni dei due pilastri del pensiero occidentale, Platone e Aristotele. Nella Repubblica Platone pronuncia attraverso la figura di Socrate un’aspra condanna della poesia, bandendola dall’educazione del cittadino ideale. Tale severo giudizio scaturisce dalla presunta pericolosità della componente imitativa dell’arte, tre volte lontana dal vero essendo imitazione del mondo sensibile che è a sua volta riproduzione del mondo delle idee. Essa è biasimevole agli occhi di Platone anche per un altro motivo: rappresentando le passioni degli uomini ha il potere di corromperne gli animi. Il primario fattore di rischio della poesia risiederebbe, precisamente, nel modo di dizione che Socrate chiama “mimetico”: tra i tre modi del discorso individuati da Socrate – mimetico, narrativo e misto – il mimetico è il più pericoloso poiché fondato interamente sull’imitazione; questo modo, a differenza degli altri due, affida la parola diretta ai personaggi ed è proprio della commedia e della tragedia.

Se Platone bandisce dallo stato ideale la poesia in quanto mimesis, Aristotele nella Poetica ne ristabilisce l’utilità e la liceità. Per Aristotele la capacità mimetica è un istinto naturale dell’uomo e l’arte è depositaria di una funzione conoscitiva dal momento che riproduce l’essenza delle cose del mondo sensibile, di cui egli rivaluta l’importanza. Per di più, lo stagirita ritiene che l’azione drammatica – la forma di corruzione più deprecata da Platone – eserciti una funzione purificatrice sull’anima dello spettatore, la cosiddetta “catarsi”, liberandolo dalle passioni portate sulla scena. Riguardo alle modalità del discorso, invece, riprende la distinzione di Platone introducendovi una differenza: il modo mimetico è esclusivamente quello legato alla poesia drammatica, laddove il modo narrativo include sia il “narrativo semplice”, in cui è il poeta a parlare senza trasposizioni, sia il “narrativo trasposto”,

44 quello che per Platone sarebbe misto. In quest’ultima modalità del discorso il poeta assume più voci, proprio come fa Omero: di lui Aristotele elogia la capacità di eclissarsi per dare la parola ai personaggi e l’aver creato figure tutte diverse, ognuna con le proprie peculiarità e il proprio carattere.

Aristotele riflette di seguito specialmente sul personaggio nell’arte drammatica, facendo dell’eroe tragico il personaggio per eccellenza, seppure il suo ruolo risulti subordinato rispetto all’azione: subordinazione che si ripresenterà in futuro nelle teorie formaliste e strutturaliste del Novecento. Nella Retorica, inoltre, individua specificamente i tipi di discorso che abbiano bisogno di ricorrere alla comparsa dei personaggi: quelli che perseguono uno scopo determinato. La caratterizzazione, infatti, aumenta il potere persuasivo del discorso, in quanto a diversi caratteri corrispondono diversi tipi di azioni, e si serve di «segni noti» apparentemente banali, che lasciano trapelare nel frattempo una serie di informazioni.40 Un principio simile a quello dei segni noti guiderà l’opera di un discepolo di Aristotele, Teofrasto, nella stesura dei suoi Caratteri (fine IV secolo a.C.), un repertorio di modelli morali della vita del suo tempo. Più che ritratti, sono incarnazioni di quelli che possono definirsi “tipi”: personaggi immobili, fissi intorno ad un’attitudine o una frase, privi di dinamismo in modo non dissimile dai flat characters di Forster. L’influsso dell’opera di Teofrasto sull’evoluzione della concezione del personaggio correrà lungo i secoli parallelamente a quello delle teorie di Aristotele, riprese nella cultura latina in particolare da Orazio. Rispetto alla riflessione consolidatasi sugli eroi della poesia epica e drammatica, una novità nella storia della nozione di personaggio si avrà con l’avvento del cristianesimo: la «storia di Cristo, con la sua spregiudicata mescolanza di realtà quotidiana e d’altissima e sublime tragedia» apre la prima breccia nelle leggi stilistiche classiche, come rileva Erich Auerbach in Mimesis (1946).41 In generale, le tecniche di resa verbale della persona sono diverse

nella tradizione greca e in quella giudaico-cristiana: in quest’ultima i personaggi sono latori di una condizione intima problematica che affiora grazie all’alternanza di parti messe in luce e parti lasciate in ombra.

40 Ivi, p. 56.

41 E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946), Torino, Einaudi, 1956, p.

45 Nell’arco di secoli di storia letteraria, dalla letteratura greca e latina alle chanson de geste ai classici della letteratura italiana ed europea, si succedono numerose generazioni di personaggi, le cui caratteristiche cambiano di continuo; altrettanto vari sono gli espedienti di cui gli scrittori si servono in epoche e generi differenti per introdurre i punti di vista dei protagonisti delle loro opere. Tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento, come Stara ribadisce in più punti del suo lavoro, la nozione di personaggio letterario è sconvolta da una rivoluzione di importanza radicale nel dominio estetico. Con Madame Bovary (1856) il personaggio letterario si presenta al massimo del suo potenziale illusionistico, ma da questo momento la parabola della sua capacità di illudere sembra aver iniziato la discesa: i modelli tradizionali di costruzione del personaggio, consolidatisi nell’arco di due secoli, non godono più di credibilità. A proposito della realizzazione formale di questa trasformazione, Stara riporta alcune osservazioni che Gérard Genette espone in Nuovo discorso del racconto (1983). Genette nota che a partire dalla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento si manifesta con frequenza un cambiamento nella caratterizzazione dei personaggi, particolarmente nella loro presentazione iniziale. La presentazione che chiama «di tipo A» viene soppiantata dalla presentazione di «tipo B». La prima procede dall’esterno all’interno del personaggio presupponendo che questo sia ignoto al lettore: dal ritratto, all’attribuzione di una serie di qualità di rilevanza variabile, all’esplicitazione della sua posizione economica e famigliare, per finire con la rivelazione del nome e del cognome. La seconda introduce il personaggio come se fosse già noto, direttamente con il nome, il cognome oppure semplicemente un pronome personale o un articolo; in questo modo il personaggio pare instaurare immediatamente una complicità con il lettore, laddove si fa scudo di essa per non rendersi riconoscibile e potersi modificare.

Il personaggio romanzesco, dunque, va progressivamente incontro ad una