• Non ci sono risultati.

Prima di introdurre l’indice in questione, è opportuno soffermarci sull’importanza del ruolo che benchmark ricopre nei fondi di investimento. L’introduzione del benchmark è stata sancita nel 1998 dalla Consob che ha imposto alle SGR l’utilizzo di un parametro oggettivo di riferimento, costituito da uno o più indici finanziari, che abbia valore segnaletico dei rischi connessi alla gestione del fondo comune, e con il quale confrontare il rendimento del fondo, facilitandone la corretta valutazione da parte del sottoscrittore. L’uso del benchmark ha introdotto numerosi vantaggi:

 L’identificazione dell’investimento: il benchmark esplicita la rischiosità ex-ante di un’asset class e quindi della tipologia d’investimento, assistendo il risparmiatore nella ricerca della soluzione coerente con i propri obiettivi.

 La Valutazione dei risultati del fondo: il benchmark permette di misurare, su un orizzonte temporale coerente con le caratteristiche dell’investimento, la qualità della gestione.

 La rappresentatività di un mercato: ogni indice che compone il benchmark è rappresentativo di uno specifico mercato.

 La Trasparenza nella costruzione: gli indici sono composti e calcolati con regole chiare e semplici, la cui ricostruzione è accessibile agli investitori.

L’utilizzo del benchmark nell’ambito della gestione è diverso a seconda che ci si riferisca a un fondo a gestione attiva oppure a uno a gestione passiva. La strategia d’investimento nei due casi, infatti, è sostanzialmente differente: la gestione attiva persegue l’obiettivo di battere il benchmark, mentre la gestione passiva tende a replicarlo. Il gestore di un fondo attivo costruisce le posizioni dei titoli in portafoglio discostandosi volutamente dalla composizione del benchmark, attraverso l’utilizzo di leve quali la selezione dei titoli (“stock picking”), dei settori (“sector allocation”) o l’allocazione sui diversi mercati o attività (“asset allocation”). La logica di questa strategia consiste nell’esporre il

74

portafoglio a un rischio superiore rispetto al parametro di riferimento: se la strategia avrà successo, il maggior rischio assunto genererà un maggior rendimento rispetto all’indice rappresentativo del benchmark; in caso di inefficacia della strategia, il risultato della gestione sarà inferiore. Il gestore di un fondo passivo tende a modellare il portafoglio sulla struttura del benchmark, minimizzandone quindi le differenze di composizione e, di conseguenza, di rendimento atteso. Il fondo passivo è solitamente caratterizzato da commissioni più contenute di quelle applicate a un fondo attivo essenzialmente perché minore è l’impegno di risorse richiesto per la sua gestione in relazione alla diversa finalità: non ricercare opportunità di extra rendimento, ma ottenere la performance del mercato di riferimento.

Quando si confrontano tra loro i rendimenti del benchmark e quelli di un fondo comune d’investimento è opportuno tenere presente che il primo è un portafoglio virtuale, quindi differente da un fondo sostanzialmente per due motivi: 1) è improbabile che un fondo possa investire nella pluralità di titoli che compongono il mercato, a causa di vincoli di patrimonio o di accessibilità di alcuni segmenti particolari. Per esempio l’indice MSCI World è composto da oltre 1600 titoli, quindi difficilmente un fondo potrà replicarlo, e include l’investimento in mercati che presentano vincoli normativi imposti dai Governi locali; 2) il benchmark non è soggetto ai costi che deve sostenere un portafoglio reale, per esempio i costi di gestione, di negoziazione o distribuzione, oppure ai costi amministrativi o operativi. Il periodo di analisi, infine, è fondamentale: il raffronto deve essere effettuato su orizzonti temporali coerenti con la tipologia di investimento, altrimenti perde di significatività.

MSCI EMERGING MARKETS

L’indice a cui facciamo riferimento in questo elaborato, MSCI EMERGING MARKETS, è stato creato da Morgan Stanley Capital International (MSCI) nel 1998 allo scopo di misurare la performance dei mercati azionari nei paesi emergenti. Inizialmente rappresentava circa 10 nazioni con una capitalizzazione mondiale di mercato di meno dell’1%. Adesso comprende aziende sia di grande capitalizzazione (circa il 70% dell’indice) che di media/piccola capitalizzazione di 24 mercati emergenti, e a Settembre 2017 ha più di 830 titoli, coprendo circa il 10% della capitalizzazione mondiale del mercato. Le azioni che rientrano nella composizione di tale indice fanno parte dell’universo dei titoli più importanti dei marcati azionari dei paesi emergenti.

Per la sua costruzione è stata utilizzata la metodologia chiamata MSCI’s Global Investable Market Index (GIMI), che è disegnata per tenere in considerazione le

75

variazioni che riflettono le condizioni tra i diversi paesi, il segmento market-cap e i diversi settori. Tale indice è basato su quella che viene definita “capitalizzazione di mercato corretta per il flottante” (free float adjusted market capitalization), ovvero un metodo che calcola la capitalizzazione dell’azienda andando a moltiplicare il numero delle azioni effettivamente disponibili per la negoziazione sul mercato per il valore della singola azione. La composizione di tale indice è raffigurata nella tabella 4.2.

Focalizzandoci adesso sul mercato di riferimento nel suo complesso, potremmo dire che l’attenzione verso i paesi emergenti da parte del sistema finanziario è esplosa con la New Economy degli anni ‘2000 che ha introdotto il concetto di globalizzazione del business con l’aiuto della tecnologia ed in particolare di internet. In materia economico finanziaria, quando si parla di mercati emergenti, o NIC (Nazioni di recente Industrializzazione), si fa riferimento a tutte quelle economie non ancora pienamente sviluppate in possesso però di un grande potenziale di crescita a fronte di investimenti il cui rischio è comunque, dati alla mano, molto elevato. Si tratta di paesi ricchi e autonomi dal punto di vista economico, ma in ritardo se consideriamo la struttura economica stessa rispetto a Paesi già sviluppati. Tipicamente nei mercati emergenti, questa struttura è grezza e necessita di ingenti capitali e investimenti esteri per prendere il via definitivo; a tutto ciò si connettono dei rischi, in quanto si tratta di territori in cui l’instabilità economico-sociale è all’ordine del giorno e dove quindi i risultati ambiti non sono per niente garantiti. La rapida crescita economica in questi mercati dagli anni ’80 ha trasformato quella che era una volta un asset class di nicchia in una asset class importante, che comprende le forze economiche destinate a plasmare la crescita globale nel ventunesimo secolo. Adesso infatti i mercati emergenti dominano la crescita globale come mostra chiaramente la figura sotto riportata.

Figura 4.3) Quota del PIL (Prodotto Interno Lordo) Globale

Fonte: Database World Economic Outlook del FMI 31 % 69 %

1982-1987

40 % 60 %

1992-1997

57 % 43 %

2002-2007

67% 33%

2012-2017

mercati emergenti mercati sviluppati

76

Nel corso degli anni sono stati creati diversi indici con il fine di associare in modo eterogeneo l’ampio bacino dei paesi emergenti. L’idea è stata quella di aggregare per parametri oggettivi indici azionari capaci di subordinare le caratteristiche troppo specifiche del singolo mercato emergente a favore di una maggiore comprensione degli investitori. Frequenti sono le suddivisioni per macro area come quelle dei paesi emergenti di Asia, America latina e EMEA che comprende le regioni di Est Europa, Medio Oriente e Africa. In realtà la lista dei paesi emergenti non è poi così lunga: sono in totale 24 i paesi classificati dai maggiori providers e usati per rappresentare i loro indici. Nel particolare, le NIC principalmente usate nell’ultimo periodo sono presenti in America Latina (Brasile, Colombia, Messico e Perù), in Asia (Cina, India, Taiwan, sud Corea) e qualche paese sud africano. Tra i mercati emergenti particolare attenzione viene riservata ai BRICs, termine inventato dall’ex capo economista di Goldman Sachs, Jim O’Neil, che viene usato per fare riferimento al Brasile, Russia, india Cina e Sud Africa (paese questo aggiunto successivamente alla creazione del termine BRIC). Altro acronimo inventato sempre da O’Neil è MINT (Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia), riferendosi in questo caso ai mercati emergenti che si mettono in evidenza per l’elevato potenziale di crescita. Se fino alla crisi finanziaria del 2008 gli indici azionari emergenti rappresentavano nel loro insieme asset finanziari ciclici, ovvero esclusivamente legati al ciclo economico dei paesi sviluppati, successivamente si sono dimostrati prima difensivi, in grado di sostenere solidi fondamentali, poi pro-ciclici, attaccando con la propria competitività tutti i mercati, e poi ancora anti-ciclici, attuando una loro strategia di sviluppo interna, arrivando addirittura a condizionare la fiducia del mondo sviluppato. I cosiddetti mercati emergenti, o ‘Emerging Markets’ come definiti negli indici internazionali, sono infatti un insieme di mercati finanziari di paesi con variabili di crescita economica, sistemi politico-sociali e modelli di consumo tra loro poco correlati, ma affidati ad un unico ‘paniere’.

Negli ultimi decenni, i paesi emergenti hanno sperimentato una rapida industrializzazione trainando la crescita economica globale (basti pensare che i paesi appartenenti alla sigla BRIC oggi producono quasi 1/3 del reddito mondiale). Superando la fredda analisi quantitativa che viene comunemente utilizzata nell’ambito degli investimenti, ed allargando la visione dei singoli paesi emergenti attraverso gli aspetti più qualitativi e culturali, è possibile osservare come sempre più investitori sono attratti dall’investire nei mercati emergenti a causa dei molteplici punti di forza che questi investimenti presentano:

77

- Demografia favorevole e consumi in aumento: la classe media nei paesi emergenti è

destinata a raggiungere i 3.6 miliardi di individui entro il 2025. Questo mostra come

l’urbanizzazione di massa stia letteralmente trasformando i mercati emergenti.

- Godono di una situazione fiscale solida: il rapporto debito/PIL nelle economie emergenti è notevolmente più basso rispetto a quello delle economie avanzate. In termini numerici al 2017 la percentuale di Debito Pubblico del PIL è del 104.34% per i paesi sviluppati e solamente del 28.71% per quanto riguarda i mercati emergenti (negli anni ‘2000 i valori erano rispettivamente di 76% e 49%).

- Diversificazione di portafoglio ed elevato potenziale di rendimento: molti investitori sostengono che i paesi emergenti siano un terreno fertile per trovare valore rispetto ai mercati sviluppati; inoltre, investire in titoli dei mercati emergenti può aiutare a sfruttare le opportunità e a ridurre i rischi di concentrazione in un unico mercato.

Strettamente connessi a questi punti di forza che quindi portano e elevati rendimenti, sono i maggiori rischi associati a questi paesi. In particolare:

- Rischio Valutario: se un investimento è denominato in valuta locale, i tassi di cambio possono muoversi in direzione non desiderata per gli investitori. Questo può impattare negativamente sui rendimenti.

- Rischi Inflazionistici: un’inflazione a doppie cifre è un problema che si può verificare facilmente nelle economie emergenti. Se fuori controllo, l’inflazione può ulteriormente svalutare le valute, danneggiare i margini di profitto aziendale, e nei peggiori dei casi, condurre alla recessione (come nel caso del Venezuela).

- Rischi Politici: molti paesi emergenti sono storicamente caratterizzati da instabilità e incertezze politiche. Nei peggiori casi questo può condurre a guerre civili, stop alla produzione e caos geopolitici. Tutti fattori che influiscono sulla volatilità degli investimenti.

Nonostante questi rischi, la crescita economica in questi paesi non è destinata ad arrestarsi. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, le stime della crescita del PIL nei paesi emergenti sono vicine al 5% per i prossimi anni. Nello stesso periodo, le previsioni per la crescita dell’economia Italiana sono inferiori all’1%.

Documenti correlati