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4.4 Le misure di performance e di rischio 85-

4.4.3 Le Risk Adjusted Performance 92-

Nel valutare un fondo di investimento, alla luce di quanto spiegato, è necessario quindi considerare tanto il rendimento quanto il rischio. La dottrina ha fornito nel tempo diverse metodologie che possono essere utilizzate per il calcolo delle performance di un fondo d’investimento; quelle che verranno analizzate di seguito rientrano tra le misure di performance aggiustate per il rischio, ovvero quelle denominate risk-adjusted performance (RAP). La particolarità di queste misure è che consentono di analizzare se il gestore sia riuscito a raggiungere risultati che sono ottimali nell’ambito del trade-off rischio-rendimento, dato che rettificano la redditività del prodotto gestito in base al suo livello di rischio (rappresentato dalla deviazione standard o dal beta). Attraverso l’utilizzo delle misure RAP il confronto tra i vari prodotti risulta semplificato, dato che tutta l’informazione necessaria a valutare in base al trade-off rendimento-rischio il fondo d‘investimento è racchiusa in un numero; il fondo con la misura RAP più elevata risulta migliore, dato che si è collocato sulla migliore posizione nell’ambito della relazione esistente tra rendimento e rischio.

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In riferimento ad esse si può procedere su due livelli:

1) limitarsi a confrontare il rendimento del fondo rispetto ad un tasso privo di rischio e ponderare il risultato per il rischio;

2) oppure confrontare il rendimento del fondo rispetto ad un benchmark rappresentativo del mercato di riferimento (ad esempio l’indice S&P 500 per il mercato azionario USA). Per quanto riguarda il primo insieme di misure di performance, tre sono quelle che verranno trattate: l’indice di Sharpe, l’indice di Treynor e l’indice di Modigliani. Per quanto riguarda invece il secondo insieme, la misura presa in considerazione sarà l’alfa di Jensen, che deriva direttamente dal Capital Asset Pricing Model (CAPM).

L’INDICE DI SHARPE

Elaborato nel 1966 dal premio Nobel per l’economia William F. Sharpe, è stato modificato più volte fino all’ultima versione del 1994. Introdotto inizialmente con il termine reward to variability ratio, rappresenta la misura RAP più utilizzata dalle società di gestione e dalla stampa. Tale indice è dato da un rapporto, in cui al numeratore troviamo la differenza tra il rendimento di un portafogli di titoli al netto di un tasso privo di rischio, e al denominatore la misura di rischio (volatilità) che caratterizza i rendimenti del portafoglio stesso; la misura di rischio in questo indice è rappresentata dalla deviazione standard, ovvero l‘incertezza complessiva, positiva o negativa che sia, intorno al valore medio dei rendimenti. Il tasso privo di rischio che viene qui considerato coincide o con i tassi interbancari o con i tassi d’interesse corrisposti dai titoli di debito di paesi con rating AAA a breve/brevissima durata, e non è rappresentato quindi dal benchmark con cui si confronta il fondo (per esserlo dovrebbe avere un identico profilo di rischio ma così non è); nell’ambito di questo indicatore il benchmark di un fondo è implicitamente rappresentato dagli altri fondi con cui si confronta, o meglio con i loro indici di Sharpe. Il motivo per cui al numeratore non risulta il solo rendimento del fondo, ma la sua differenza con il tasso privo di rischio, risiede nell’assunzione che il risparmiatore valuti i singoli fondi considerando anche la possibilità di combinarli con un investimento (indebitamento) che rende (costa) il tasso free risk. Questa assunzione permette di separare il problema della identificazione del fondo migliore da quello della scelta del grado di rischio giudicato ottimale dall’investitore.

Questo indice rappresenta l’extra rendimento rispetto al tasso privo di rischio che viene corrisposto all’investitore per ogni unità aggiuntiva di rischio che deve sostenere. Il numeratore viene definito anche come il premio per il rischio del fondo; in questo senso

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l’indice di Sharpe rappresenta una misura del premio per il rischio calcolata su base unitaria, cioè su ogni unità di rischio. Emerge quindi che il fondo con l’indicatore più elevato è quello che è riuscito a creare il maggior valore per unità di rischio e si è dunque collocato nella migliore posizione nell’ambito del trade-off rischio-rendimento.

Da un punto di vista matematico abbiamo che:

𝑆𝑅 =

𝑅−𝑅𝑓 𝜎(𝑅𝑡)

=

𝐸𝑅 𝜎(𝑅𝑡)

dove:

𝑅𝑓: rendimento medio dell’attività free risk nel periodo considerato

𝑅: rendimento medio del fondo nel periodo considerato

𝜎(𝑅𝑡): deviazione standard o volatilità del fondo durante il periodo considerato

𝐸𝑅: excess return o premio per il rischio medio

Attraverso questo indice è possibile confrontare tra loro e quindi classificare diversi fondi di investimenti omogenei per benchmark; essendo infatti un indice che si basa sulla relazione che esiste tra rischio e rendimento, risulta che il fondo con il più alto indice di Sharpe è quello che ha prodotto il rendimento più elevato in base al proprio livello di rischiosità. Naturalmente questo indice può essere calcolato anche con riferimento ad uno specifico benchmark, basterà solamente sostituire le informazioni relative al fondo con quelle del parametro oggettivo di riferimento. Confrontando quindi l’indice di Sharpe di un fondo con quello del benchmark si otterrà la qualità del fondo stesso: se l’indice risulta superiore a quello del benchmark, vuol dire che il gestore ha ottenuto risultati superiori nell’ambito del trade-off rischio-rendimento, ovvero che ha prodotto maggior rendimento per unità di rischio rispetto al benchmark; in altre parole, il fondo con l’indice più alto è quello che permette di ottenere un maggiore rendimento a parità di rischio o un minore rischio a parità di rendimento, visto che l’indice cresce al crescere del rendimento o al diminuire della deviazione standard.

Da quanto precede emerge che questa misura di performance si basa su due ipotesi: - che l’investitore non diversifichi la propria ricchezza, destinandone gran parte all’acquisto di un solo fondo, e che pertanto sia sensibile al rischio complessivo rappresentato dalla deviazione standard

- che l’investitore possa dare o prendere in prestito al tasso privo di rischio un qualsiasi ammontare

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L’indice perde di significato quando il rendimento del fondo è minore del tasso privo di rischio; in questo caso non è sempre vero che il migliore fra i due fondi sia quello con l’indice più elevato, cioè meno negativo: per esempio, un indice pari a -0,2 rispetto ad un indice pari a -0,3, potrebbe derivare sia da una redditività più vicina al tasso privo di rischio, sia da una maggiore deviazione standard, e solo nella prima ipotesi sarebbe corretto ritenere il primo fondo preferibile al secondo.

Geometricamente, l’Indice di Sharpe rappresenta l’inclinazione della capital market line passante per P, ovvero il portafoglio titoli in questione.

Figura 4.6) Rappresentazione grafica indice di Sharpe

Fonte: www.Assogestioni.it

Tale indice deriva direttamente dalla capital market line (CML), ossia la retta che individua tutte le combinazioni rischio-rendimento tra il tasso risk free e il portafoglio di mercato. La figura 4.6 mostra la rappresentazione grafica dello spazio cartesiano rischio- rendimento, dove vengono confrontati tre diversi fondi, e sono evidenziate anche le collocazioni del benchmark e quella dell’attività priva di rischio. I tre fondi si trovano su diverse semirette caratterizzate da diversa pendenza, e quindi ognuno ha un proprio indice

di Sharpe; in particolare 𝑆𝑅𝐵 > 𝑆𝑅𝐴 > 𝑆𝑅𝐵𝐸𝑁𝐶𝐻> 𝑆𝑅𝐶. Risulta quindi che il fondo B ha

raggiunto risultati in termini di rischio-rendimento superiori rispetto agli altri fondi e al benchmark stesso. Fondamentale da notare è che se avessimo classificato i diversi fondi

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sulla base del solo rendimento realizzato il fondo C sarebbe risultato il migliore, e quindi avremmo avuto una classificazione errata; i rendimenti sono stati superiori perché il gestore ha assunto rischi maggiori rispetto agli altri. In un confronto quindi, vincerà il fondo caratterizzato da una inclinazione maggiore.

Numerose sono state le critiche che sono state mosse nei confronti di questo indice. In primo luogo non è stato definito in maniera oggettiva il tasso privo di rischio e quindi il confronto del portafoglio con un tasso d’interesse privo di rischio rappresenta più una prassi consolidata che un fondamento teorico. In secondo luogo, la misura di rischio utilizzata in questo caso non è detto che consenta al meglio di rappresentare la rischiosità del portafoglio. Critiche che, successivamente con l’introduzione degli indici elencati di seguito, sono state con il tempo eliminate.

L’INDICE DI TREYNOR

Introdotto per la prima volta nel 1965 ad opera di Jack Treynor, rappresenta una variante dell’indice di Sharpe. Lo scopo di questo indice è di confrontare sempre il rendimento di un portafoglio con un tasso privo di rischio, ma il denominatore in questo caso è però rappresentato solamente dal rischio sistematico o di mercato (beta) e non dal rischio complessivo che caratterizza il portafoglio. Il motivo di questa differenza è dato dal fatto che da un punto di vista teorico, qualora venga effettuata una sufficiente diversificazione del portafoglio (principio che sta alla base della politica di gestione di un fondo di investimento), il rischio idiosincratico viene eliminato, sottoponendo quindi il portafoglio al solo rischio di mercato che è per sua natura ineliminabile.

Matematicamente abbiamo che:

𝑇𝑅 =

𝑅−𝑅𝑓

𝛽𝑝

=

𝐸𝑅 𝛽𝑝

dove:

𝑅𝑓: rendimento medio dell’attività free risk nel periodo considerato

𝑅: rendimento medio del fondo nel periodo considerato 𝐸𝑅: excess return o premio per il rischio medio

𝛽𝑝: componente di rischio sistematico che rappresenta quanto il portafoglio è sensibile

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Anche in questo caso, come nell’indice di Sharpe, l’indice perde di significato qualora sia negativo. Se ciò è dovuto al numeratore, valgono le considerazioni svolte nel paragrafo precedente. Nel caso in cui il segno negativo sia imputabile al beta, si può esprimere una valutazione positiva sulla performance visto che un certo rendimento differenziale positivo è stato ottenuto investendo in titoli poco rischiosi.

Graficamente questo indice ci fornisce l’inclinazione della security market line (SML) passante per P, ovvero il portafoglio titoli in questione e, come accadeva nell’indice di Sharpe, anche qui in un confronto vince il fondo con un’inclinazione maggiore.

La differenza che consiste tra questi due indici appena analizzati fa sì che il primo venga utilizzato dai soggetti che non hanno ancora effettuato alcun investimento e che quindi vogliano calcolare il rischio generale; il secondo invece è più utile per chi ha già sostenuto l’investimento ed è intenzionato a diversificare ulteriormente il proprio portafoglio.

L’INDICE DI MODIGLIANI

Nel 1977, Modigliani e Modigliani hanno introdotto questo indice, con l’obiettivo di costruire una misura alternativa e di facile comprensione all’indice di Sharpe, dato che questo potrebbe risultare di difficile comprensione per l’investitore meno esperto. Da sottolineare come le ipotesi che stanno alla base di questo indice sono le stesse che stanno alla base di quello di Sharpe: l’investitore deve allocare interamente il suo patrimonio in un unico fondo, utilizzando la leva finanziaria per raggiungere una combinazione di rischio-rendimento compatibile con la propria tolleranza al rischio.

L’idea che sta alla base della costruzione dell’indice di Modigliani, è quella di voler confrontare i fondi che abbiano il medesimo obiettivo di investimento (quindi stesso benchmark), portandoli ad un uguale livello di rischio, cioè variare la loro rischiosità fino a farla coincidere con quella del benchmark ed in seguito misurare il rendimento di questi fondi “modificati”. Possiamo considerare questo indice come la risposta alla domanda: “Quanto avrebbe reso il fondo se fosse stato diluito con liquidità fino ad avere la stessa rischiosità del benchmark”? Per ciascun fondo di investimento con un dato rendimento e rischio, quindi l’indice di Modigliani determina il rendimento che il fondo avrebbe ottenuto se avesse assunto lo stesso livello di rischio del benchmark. La caratteristica fondamentale di questa misura, risiede nel fatto che viene espressa, coerentemente al rendimento prodotto dal fondo, in termini percentuali e quindi risulta di facile e immediata comprensione e interpretazione. Inoltre, potendo l’investitore confrontare il rendimento “modificato” del fondo con quello offerto dal benchmark o da altri fondi, può

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anche valutare i risultati del gestore attraverso la determinazione della redditività differenziale, ovvero calcolando la differenza tra rendimento “modificato” e rendimento del benchmark. Chiaramente nell’effettuare un confronto, il fondo che presenta l’indice di Modigliani maggiore, sarà il migliore. Il calcolo dell’indice deriva dall’utilizzo di una leva finanziaria positiva (prendere a prestito al tasso risk free) o negativa (prestare al tasso risk free) in funzione del livello di rischio del fondo rispetto a quello del benchmark. Nel caso in cui il rischio del fondo è maggiore rispetto a quello del benchmark si applica la leva negativa, e viceversa se il rischio è inferiore.

Per calcolare tale indice, la formula utilizzata è la seguente:

𝑅𝐴𝑃𝑀𝑀 = (𝑅 − 𝑅𝑓) ∗𝜎𝐵

𝜎𝐹 + 𝑅𝑓

Dove:

𝑅𝐴𝑃𝑀𝑀: indice di Modigliani

𝑅: rendimento medio del fondo nel periodo considerato

𝑅𝑓: rendimento medio dell’attività free risk nel periodo considerato

𝜎𝐵: deviazione standard del benchmark nel periodo considerato

𝜎𝐹: deviazione standard del fondo nel periodo considerato

Figura 4.7) Rappresentazione grafica indice di Modigliani

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Per un’analisi da un punto di vista grafico, utilizziamo un piano cartesiano rischio- rendimento (figura 4.7), dove collochiamo due diversi fondi A e B (simboleggiati dai cerchi), ed il benchmark (quadrato chiaro); le linee continue individuano il profilo di rischio/rendimento degli infiniti portafogli che si possono comporre combinando, in varie proporzioni, il titolo privo di rischio e ciascuno dei due fondi. I quadrati scuri (ovvero i fondi A e B “modificati” con l’attività risk free) sono stati individuati trascinando sulle semirette i due fondi A e B, finno all’intersezione in cui i rispettivi rischi erano uguali a quello del benchmark; così facendo abbiamo ottenuto sull’asse delle ordinate in

corrispondenza di tali punti i rendimenti modificati. L’indice di Modigliani 𝑅𝐴𝑃𝑀𝑀(𝐴)

e 𝑅𝐴𝑃𝑀𝑀(𝐵), è dato dalla distanza verticale che separa il rendimento di questi portafogli

particolari e il taso free risk. Facendo un rapido confronto notiamo come il fondo A abbia un rendimento aggiustato maggiore di quello del fondo B, e risulta quindi preferibile. Importante sottolineare come se l’analisi si fosse basata solamente sul rendimento, senza quindi considerare la componente di rischio, il fondo migliore sarebbe stato B.

Risulta interessante sottolineare come una classifica stilata sulla base dell’indice di Modigliani o dell’indice di Sharpe risulta identica. Utilizzando infatti lo stesso benchmark e derivando entrambe dalla capital market line, le due misure non possono che fornire le medesime risposte dato che la misura di Modigliani non è altro che l’indice di Sharpe moltiplicato per la deviazione standard del benchmark; tuttavia la misura di Modigliani è rappresentata da un valore percentuale e ci fornisce l’altezza della retta in un punto specifico, mentre quella di Sharpe da un coefficiente angolare.

L’ALFA DI JENSEN

Nel 1968 Michael Jensen ha sviluppato tale misura al fine di analizzare l’abilità del gestore del fondo di prevedere i prezzi futuri delle attività finanziarie in modo tale che questo consentisse di determinare le capacità di scegliere i titoli sottovalutati. Tale indice, definito comunemente alfa di Jensen, è definito come il rendimento incrementale o extra- rendimento che un fondo di investimento ha prodotto rispetto alla redditività che avrebbe dovuto offrire sulla base del suo livello di rischio sistematico.

Punto di base per il calcolo dell’alfa di Jensen, è il CAPM, Capital Asset Pricing Model. In base a questo modello il rendimento delle attività finanziarie (e quindi anche di un fondo di investimento) viene visto come funzione lineare di un unico fattore di rischio: il rendimento di mercato. In particolare quest’ultimo è rappresentato dall’indice di mercato

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di riferimento, ed è legato al rendimento del titolo tramite il coefficiente di rischiosità beta. Il beta, come già introdotto nel precedente paragrafo, quantifica il rischio di mercato o rischio sistematico di un’attività finanziaria, cioè misura la correlazione esistente tra il rendimento di un fondo d’investimento e il rendimento del benchmark.

I prodotti gestiti che nel tempo presentano valori significativi dell’alfa di Jensen, sono riusciti a battere il mercato, hanno quindi prodotto un rendimento superiore a quello atteso in base al rischio sistematico assunto. Tale extra rendimento è stato determinato dalla capacità del gestore di posizionarsi con maggiore peso sui titoli sottovalutati che compongono il benchmark, e al tempo stesso dalla capacità di ridurre l’esposizione verso le attività sopravvalutate. Al contrario, i fondi di investimento che sono caratterizzati da valori significativamente negativi nel tempo non sono riusciti a battere il mercato, dal momento che i gestori hanno selezionato i titoli meno performanti che hanno prodotto un rendimento inferiore rispetto a quello che avrebbero dovuto produrre sulla base della loro rischiosità.

Dal punto di vista analitico, l’alfa di Jensen viene determinato come segue:

𝛼

𝑝

= 𝑅 − 𝑅

𝐶𝐴𝑃𝑀

In cui:

𝛼𝑝: alfa di Jensen del fondo o extra-rendimento

𝑅: rendimento medio del fondo

𝑅𝐶𝐴𝑃𝑀: rendimento che il fondo avrebbe dovuto offrire sulla base del CAPM ovvero in

base al proprio livello di rischio di mercato (individuato dal beta)

In base al CAPM quindi, il tasso di rendimento può essere ricavato ricorrendo alla classica espressione del modello:

𝑅

𝐶𝐴𝑃𝑀

= 𝑅

𝑓

+ 𝛽

𝑝

∗ (𝑅

𝐵

− 𝑅

𝑓

)

dove:

𝑅𝑐𝑎𝑝𝑚: rendimento medio determinato applicando il CAPM

𝑅𝑓: rendimento medio dell’attività priva di rischio

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𝛽𝑝: misura di rischio sistematico del fondo di investimento

Se tale indice risulta positivo, significa che il gestore del fondo, tramite la sua attività (sovrapesando i titoli sottovalutati/sottopesando i titoli sopravvalutati), è riuscito a produrre quell’extra-rendimento rispetto al mercato accennato in precedenza.

Due aspetti ulteriori devono essere considerati per concludere la panoramica su questo indice. Prima di tutto, l’alfa di Jensen è espresso in termini percentuali, quindi risulta di facile comprensione; in secondo luogo, il periodo che deve essere preso in considerazione ai fini del calcolo deve essere medio-lungo, altrimenti le informazioni fornite dall’indice potrebbero essere errate.

Le misure Risk Adjusted Performance descritte all’interno di questo paragrafo non esauriscono l’intero universo degli strumenti utilizzabili per il confronto delle performance tra fondi comuni d’investimento, ma risultano essere quelle maggiormente significative per l’obiettivo che tale elaborato si pone. Oltre al rendimento e al fattore di rischio, per giudicare la gestione del fondo è necessario prendere in considerazione anche altri fattori come l’andamento dei mercati finanziari e tutte le tipologie di costi presenti. Quando infatti un investitore si trova di fronte ad un rendimento di un fondo, non lo deve considerare sempre in termini assoluti, ma deve necessariamente confrontarlo con l'andamento dei mercati finanziari in cui opera e con i risultati dei fondi appartenenti alla stessa categoria e gestiti da diverse società; ed è proprio a questo proposito che sono stati elaborati e introdotti per obbligo di legge i "benchmark”.

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