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L’Inquisizione a Modena

Il fatto che negli studi complessivi su Modena, ed in particolare in quelli sulla storia di Modena capitale dei domini estensi, si parli poco o per nulla dell’Inquisizione è significativo, ma anche difficilmente comprensibile, considerando che la città, insieme ad altre - tra cui Lucca, Napoli, Venezia - era stata uno dei più vivaci centri di diffusione “ereticale” nel territorio della Penisola. A ben vedere, si tratta di una tendenza piuttosto comune all’interno delle opere generali, che fino a tempi recenti hanno generalmente passato sotto silenzio la storia dell’istituzione che per secoli ha segnato la storia politica, sociale, culturale italiana. Basti pensare che le stesse opere di storia del cristianesimo, fino a non molto tempo fa, non contenevano che brevi cenni all’Inquisizione, mai trattazioni specifiche, che, anche quando arrivarono, costituirono per lo più opere a sé stanti, quasi a voler isolare un fatto e un fenomeno da una storia complessiva, che in tal modo veniva a perdere non un tassello, ma un elemento fondamentale alla generale comprensione di alcune dinamiche sia di breve che di lungo periodo. A favorire tale tendenza contribuì sicuramente anche una oggettiva mancanza di possibilità di condurre ricerche, considerando che non poche delle istituzioni che conservavano i documenti che ne avrebbero potuto consentire una ricostruzione rimasero a lungo precluse agli studiosi che avrebbero desiderato cominciare a scandagliare la storia del tribunale e non solamente alcuni processi “illustri”.

Per restare al caso di Modena, lo spunto per questa riflessione è venuto studiando le ricostruzioni storiche - anche recenti - degli anni dell’istituzione del ducato che, come detto, sono gli stessi dell’istituzione dell’Inquisizione generale nella città, fino a quel momento vicaria dell’Inquisizione di Ferrara. In particolare, prendendo in considerazione l’opera di Luigi Amorth, che continua - giustamente - ad essere citata come uno dei punti di riferimento storiografici generali, si nota immediatamente l’assenza di riferimenti all’istituzione del tribunale nel 1598. Caso ancora più curioso, però, è quello di un’opera che, sin dal titolo, ha l’ambizione di ricostruire la storia dell’Inquisizione e che dedica a quella modenese addirittura il suo primo volume: ebbene, qui in realtà ben poco si trova della sua storia specifica, del suo funzionamento, delle sue dinamiche, del modo in cui si inserì e riuscì effettivamente ad operare, dei suoi rapporti con i territori che facevano parte o che, proprio nei

primi anni dall’istituzione, entrarono a far parte della sua giurisdizione. Nulla dei rapporti con gli altri poteri, non solo con quello del duca, ma anche quelli con il vescovo e i rappresentanti del potere civile nelle periferie (per citare i più complicati: la Garfagnana, Carpi, Nonantola)91.

Fortunatamente, a sopperire a queste lacune troviamo alcuni studi specifici, tra cui, anzitutto, quelli pionieristici di Albano Biondi, di cui si darà conto nel prosieguo della trattazione.

Prima di entrare direttamente in quello che è l’oggetto della presente ricerca, ovvero la storia istituzionale della “nuova” Inquisizione modenese, è bene accennare ad alcune vicende religiose e culturali che servono da una parte a dare un’idea della situazione alla metà del Cinquecento - cioè nel pieno dell’emergenza ereticale che afflisse non solo la città estense, ma tutta la Penisola e l’Europa del tempo - e dall’altra a focalizzare l’attenzione sulla specificità del caso modenese.

Nonostante Modena non fosse tra i centri maggiori della Penisola, fu, se non il principale, certamente uno dei pretesti impellenti che fecero rompere gli indugi a Roma affinché si risolvesse a prendere dei provvedimenti volti ad affrontare una situazione che rischiava di sfuggire di mano da un momento all’altro.

Le vicende del Cinquecento modenese e dei suoi fermenti religiosi sono stati magistralmente ricostruiti da Susanna Peyronel Rambaldi92 in un saggio di qualche anno fa, che rimane un cardine e punto di partenza per molti aspetti ancora imprescindibile per chiunque voglia addentrarsi ed affrontare questioni religiose non solo cinquecentesche, ma anche del periodo successivo, come quello in esame. Altri studi relativi al Cinquecento religioso modenese sono concentrati su aspetti più specifici, come quelli sull’Inquisizione di Albano Biondi e Romano Canosa, o quello di Matteo Al Kalak su un tema che qui verrà ripreso brevemente per fornire un’idea precisa dei fermenti - non tanto riformatori, quanto però sicuramente innovatori - che caratterizzarono la futura capitale del ducato estense: ci si riferisce a quella che è

91

Ci si riferisce a R. Canosa, Storia dell’Inquisizione in Italia: dalla metà del Cinquecento alla fine

del Settecento, vol. I, “Modena”, Roma, Sapere 2000, 1986.

92 S. Peyronel Rambaldi, Speranze e crisi nel Cinquecento modenese. Tensioni religiose e vita

nota come Accademia modenese93. È opportuno parlare brevemente delle vicende relative a questo gruppo di intellettuali e letterati perché in esse è stata vista l’origine e la maturazione dei più originali caratteri eterodossi dell’ambiente modenese. Come mette in luce, tra gli altri, Susanna Peyronel Rambaldi, la peculiarità dell’Accademia modenese stette nel suo carattere non elitario, nella sua volontà di creare canali di comunicazione con la popolazione, sebbene i suoi componenti appartenessero alle più importanti famiglie cittadine - Valentini, Castelvetro, Machella, etc. - ben inserite nel governo della città. A permettere tale connessione contribuì certamente la mancanza di un potere signorile forte, ragion per cui proprio nella cittadina emiliana poterono proliferare fermenti riformatori, oltre naturalmente al fatto che vescovo della città era in quel tempo Giovanni Morone, aperto alle nuove idee, sebbene col tempo dovette affrontare quella che stava diventando una situazione allarmante e difficile da gestire. Gli “accademici” leggevano e discutevano opere latine e greche e si riunivano in botteghe e spezierie; disprezzavano l’ignoranza di un clero ozioso allo stesso modo in cui mal tolleravano le superstizioni irrazionali; parlavano di predestinazione e dell’inefficacia del battesimo94. Il gruppo fu il fulcro della cultura modenese per un decennio (1535-1545), fino a quando i suoi membri non furono convinti a sottoscrivere, «dopo vari rifiuti e resistenze quanto mai imbarazzanti», un formulario di fede messo a punto dal cardinale Gaspare Contarini, d’accordo con il vescovo Morone e con la firma dei Conservatori e di altri cittadini modenesi (settembre 1542)95: a partire da quel momento, quanti non avevano già prudentemente optato per un’opera di autocensura scelsero la via della clandestinità -

93 Per un quadro d’insieme cfr. M. Al Kalak, Modena, Accademia, in DSI, vol. II, pp. 1055-1056. 94

Cfr. S. Peyronel Rambaldi, Speranze e crisi, cit., p. 224: «Modena apparirà dunque come un “focolaio di luterani”, in cui le discussioni sulle questioni di fede, così come la fortuna di certi argomenti teologici, erano sorprendentemente diffuse. Non solo: anche il processo di approfondimento delle idee eterodosse era molto avanzato, tanto che, qualche decennio più tardi, inquisitori più avveduti e decisi di quelli che agivano sotto Morone, sveleranno la presenza nella città di una delle più vaste ed organizzate comunità eterodosse di cui si abbia notizia in tutta Italia [...]».

95 M. Al Kalak, Modena, Accademia, cit. p. 1056. La vicenda del formulario di fede del 1542 è stata

attentamente ricostruita ed analizzata da M. Firpo, Gli «Spirituali», l’Accademia di Modena e il

formulario di fede del 1542: controllo del dissenso religioso e nicodemismo, in “Rivista di storia e

letteratura religiosa”, 20, 1984, pp. 40-111, ora in Inquisizione Romana e Controriforma. Studi sul

cardinal Giovanni Morone e il suo processo d’eresia, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 29-118. Firpo

pone l’attenzione sugli sviluppi locali della vicenda, ma la colloca anche all’interno di un quadro decisamente più ampio: il 1542, infatti, fu una data periodizzante non soltanto per gli accademici modenesi, per i quali rappresentò il passaggio verso la scelta nicodemitica, ma anche, naturalmente, per l’intero gruppo degli “spirituali”, segnando, con l’istituzione della Sacra Congregazione del Sant’Uffizio, il momento della definitiva affermazione dell’ala intransigente.

che portò all’esperienza della cosiddetta “comunità dei fratelli” - o di un più marcato nicodemismo, quando non dell’esilio, opzione preferita, in un primo momento, da Ludovico Castelvetro96. «[...] La vicenda, secondo l’erudito Girolamo Tiraboschi, - scrive Al Kalak - parve giungere a un suo epilogo solo tre anni più tardi, quando il bando ducale del 24 maggio 1545 vietò espressamente il possesso di libri eretici e sospetti e ogni discussione in materia di religione»97.

Ad aver promosso - involontariamente - il gruppo dei “fratelli” era stato lo stesso vescovo Morone, il quale, dopo la sottoscrizione del formulario, aveva chiamato a predicare in città il francescano Bartolomeo della Pergola98. I luoghi di ritrovo dei “fratelli” erano rimasti sostanzialmente immutati (botteghe artigiane e di mercanti), ma le figure di riferimento non erano più le stesse99, così come diversa era la composizione del gruppo che, a differenza della precedente esperienza, stavolta contava una più netta componente laica nonché una composizione sociale più variegata100. Anche i “fratelli” si riunivano periodicamente per «ragionare» di vari argomenti - giustificazione per fede, predestinazione, inesistenza del purgatorio, negazione del culto dei santi e delle immagini, contestazione della liturgia ufficiale, negazione dell’autorità del papa - e testi quali la Sacra Scrittura (in volgare per lo più), il Beneficio di Cristo, il Dialogo di Mercurio e Caronte, il Sommario della

Sacra Scrittura, la Tragedia del libero arbitrio, etc.101 Come già per gli accademici - e come in generale per le esperienze eterodosse e radicali italiane - anche in questo caso si aveva una commistione di motivi e istanze tratte da diverse esperienze, che non bastarono a costituire comunità definite dottrinalmente in maniera chiara102 per cui, accanto a influssi anabattistici e spiritualisti, si trovava una prevalenza di

96 Si veda per esempio D. Weber, Sanare e maleficiare, cit., p. 123. La studiosa pone tra l’altro

l’attenzione su un’opera di Ludovico Castelvetro, il Racconto delle vite d’alcuni letterati del suo

tempo scritte per suo piacere, fonte fondamentale di informazioni su alcuni membri dell’Accademia,

scritto durante il periodo dell’esilio oltralpe del filologo, dopo il 1568.

97 M. Al Kalak, Modena, Accademia, cit. p. 1056. Per una trattazione sistematica cfr. M. Firpo, Gli

spirituali, l’Accademia di Modena e il formulario di fede del 1542, cit.

98

Cfr. Al Kalak, Gli eretici di Modena, cit. p. 17. Si veda anche Id., Fratelli modenesi, in DSI, vol. II, pp. 626-627.

99 I capi riconosciuti dei “fratelli” erano Piergiovanni Biancolini, Marco Caula, Giovanni Bergomozzi,

Giacomo Graziani, Giovanni Rangoni e Giovanni Maria Tagliati detto il Maranello. Cfr. Al Kalak, Gli

eretici di Modena, cit. p. 18.

100

Ivi, p. 19.

101 Ivi, pp. 19-20.

102 Su questo si veda l’imprescindibile studio di Salvatore Caponetto, La Riforma Protestante

simbolismo zwingliano in materia di eucarestia. Il tutto, comunque, celato in un atteggiamento tipicamente nicodemitico e di dissimulazione, in linea con quanto avveniva altrove nella Penisola103. L’esperienza, così come quella dell’Accademia, si concluse con diversi processi (1566-1568), nei quali tuttavia gli imputati godettero di un trattamento “speciale”, dal momento che Pio V aveva eccezionalmente concesso a Morone la facoltà di assolvere eretici e sospetti con penitenze leggere. Anche questa volta vi furono quanti preferirono la via della dissimulazione o dell’esilio, fino ad una pressoché totale dispersione della comunità dall’inizio degli anni Settanta104

.

L’attività dell’Inquisizione a Modena105

è ovviamente anteriore alla data del 1598, l’anno della cosiddetta “nuova” Inquisizione generale. Albano Biondi attestava - servendosi dell’antica cronaca Morano - la presenza dei domenicani sin dal 1232 e l’edificazione della chiesa di san Domenico nel 1243, mentre la residua ed esigua documentazione pervenuta dà notizia delle pratiche inquisitoriali nel periodo 1292- 1323, i cui atti erano contenuti in un «liber A», ora perduto106. Esiste anche un «liber B», conservato presso la Biblioteca dell’Archivio di Stato di Modena, che contiene documentazione inquisitoriale del secolo XIV e che attesta l’esistenza di un archivio che già documentava l’attività dell’istituzione107

. La documentazione tace poi fino al 1497 (a parte un processo del 1489, relativo però all’Inquisizione di Mantova), anno a partire dal quale si raccolgono i fascicoli processuali attualmente conservati presso la sede dell’Archivio di Stato cittadino: i fascicoli di questo periodo (1497-1600) sono i più conosciuti, quelli su cui si sono concentrati i principali studi sinora condotti sul fondo Inquisizione108.

È abbastanza ovvio e comprensibile che il salto di qualità nell’attività inquisitoriale modenese si registri a partire dal 1598 e trovi nel secolo XVII la sua punta massima,

103 M. Al Kalak, Gli eretici di Modena, cit. p. 20. Lo studioso, nella presentazione di questa “comunità

di fratelli”, riprende le linee tracciate da Cesare Bianco trent’anni prima, salvo poi proseguire la sua ricostruzione servendosi direttamente dei fascicoli processuali relativi ad alcuni dei protagonisti della vicenda.

104

Id., Fratelli modenesi, cit. pp. 626-627.

105

Per una breve presentazione dell’Inquisizione a Modena cfr. F. Francesconi, Modena, in DSI, vol. II, pp. 1054-1055.

106 A. Biondi, Lunga durata e microarticolazione, cit. pp. 74-75. Biondi cita la documentazione

conservata presso la Biblioteca Comunale di Bologna, che fornisce le indicazioni relative all’attività inquisitoriale modenese del primo periodo, in cui si parla di una «domus Inquisitionis» a Modena tra XIII e XIV secolo.

107 Ivi, pp. 75-76. 108 Ivi, p. 78.

in piena Controriforma, ed è sui primi tre decenni di questo secolo che si concentrerà l’attenzione in questo studio.

Qui di seguito si dà una prima visione d’insieme degli otto inquisitori attivi nell’arco cronologico in esame, prendendo, laddove possibile, alcune delle informazioni dalle relative voci presenti nel Dizionario Storico dell’Inquisizione e da un recente strumento messo a punto da alcuni studiosi, tra cui Herman H. Schwedt: si tratta di liste degli inquisitori per ognuna delle sedi del Sant’Ufficio presenti nel territorio della Penisola italiana che, sebbene riportino solamente gli anni di permanenza nei tribunali locali, possono dare almeno un’idea di massima delle carriere109. Anche Giuseppe Trenti, nell’Appendice al suo Inventario, fornisce una lista degli inquisitori che operarono a Modena e a Reggio, indicando l’anno di inizio di ciascun mandato110. Nel caso dei primi tre inquisitori modenesi, inoltre, disponiamo anche di uno studio di Albano Biondi, che traccia un profilo dell’attività di questi domenicani agli albori della “nuova” Inquisizione modenese111

. Non ci si limita comunque a citare informazioni altrui, ma i periodi dei mandati sono stati accertati direttamente conducendo uno spoglio sistematico dei fascicoli processuali relativi agli anni di transizione da un inquisitore all’altro: ciò, tra l’altro, ha permesso di fornire anche l’indicazione dei mesi, laddove non fosse nota, contribuendo a dare notizie più precise112. Tutte le informazioni sono state integrate utilizzando la corrispondenza tra inquisitori e Sacra Congregazione, nonché altri carteggi (per esempio con inquisitori delle sedi limitrofe) e documenti del fondo “Regolari” dell’Archivio di Stato di Modena.

109 L. Al Sabbagh, D. Santarelli, H. H. Schwedt, D. Weber, I giudici della fede. L’Inquisizione romana

e i suoi tribunali in età moderna, Firenze, Edizioni Clori, 2017.

110 G. Trenti, I processi del Tribunale dell’Inquisizione di Modena, cit. pp. 311-316. Trenti in nota cita

le fonti cui ha attinto per stilare la lista: “Nota degli Inquisitori <che> sono stati in questa

Inquisitione di Modona” (dal 1600 al 1660) del 1661, in calce allo “Inventario delle robbe del S. Officio dell’Inquisitione di Modona...” del 1600-60 (ASMo, Inquisizione, b. 295, III, 2), dal “Registro degli ordini e delle risposte date alle lettere de’ Vicari foranei dal S. Offizio - 1766” (ASMo, Inquisizione, b. 283) e dalle risultanze degli atti processuali, cfr. p. 314n.

111 A. Biondi, La “Nuova Inquisizione” a Modena. Tre inquisitori (1598-1607), in Città italiane del

‘500 tra Riforma e Controriforma, Atti del convegno internazionale di studi (Lucca, 13-15 ottobre

1983), Lucca, Pacini Fazzi, 1988, pp. 61-76.

112

Per esempio, conducendo lo spoglio dei fascicoli processuali dell’anno 1626 per verificare il momento esatto del passaggio dall’inquisitore fra Giovanni Vincenzo Reghezza a fra Giacomo Tinti da Lodi, si è potuto vedere che quest’ultimo era già attivo nel marzo del 1626 e non a partire dal 1627, come riporta Trenti. Corretta invece l’indicazione degli autori delle liste degli inquisitori.

Il primo inquisitore generale di Modena fu il domenicano frate Giovanni da Montefalcone, già priore del convento di san Domenico113, investito nel mese di marzo e operante fino al dicembre dell’anno successivo. Seguendo quanto riportato da Albano Biondi, l’attività di questo primo inquisitore generale non registrò una particolare eco in città114, come confermerebbe il fatto che di lui non si fa praticamente cenno nemmeno nella principale fonte cronachistica del tempo, ovvero la Cronaca di Giovanni Battista Spaccini, al contrario molto puntuale nel riferire fatti e notizie relativi agli inquisitori successivi. Come si vedrà più avanti, quando saranno presentate le lettere da e per la Sacra Congregazione di Roma, il breve mandato del primo inquisitore è documentato dalla corrispondenza con i cardinali della Congregazione, oltre che da fascicoli processuali conservati attualmente in due buste dell’Archivio di Stato di Modena. Per il momento basterà accennare al fatto che frate Giovanni da Montefalcone si trovò a dover gestire una situazione nuova, quella di un tribunale fino a quel momento vicario dell’ufficio ferrarese e che peraltro negli ultimi anni sembrava aver subito una vera e propria paralisi115, il che, unitamente alle difficoltà economiche e logistiche della sede, oltre a quelle politiche e soprattutto giurisdizionali, certamente non rese agevole il suo lavoro.

A succedere al Montefalcone fu frate Angelo Brizio (o Brissio) da Cesena, attivo dal dicembre del 1599 all’ottobre del 1600116

, di cui però non si conservano le lettere che inviò alla Sacra Congregazione, ma soltanto quelle ricevute, oltre alla documentazione processuale: come testimonia l’epilogo del suo mandato - l’inquisitore fu rimosso per volere del principe, secondo quanto riferito dallo Spaccini - furono mesi di densissima attività, caratterizzati da un serrato controllo e da procedure e comminazioni di pene esemplari, dietro le quali i contemporanei - non solo le cronache, ma idee simili circolavano nella stessa corte estense - vedevano

113 Di fra Giovanni Ghermignani da Montefalcone non si ha notizia di attività inquisitoriali svolte in

altri uffici dopo il breve periodo del mandato modenese, cfr. L. Al Sabbagh, D. Santarelli, H. H. Schwedt, D. Weber, I giudici della fede, cit. Si veda inoltre A. Biondi, La “Nuova Inquisizione” a Modena, cit. pp. 62-63.

114 Ivi, p. 66: «La corrispondenza di questo inquisitore, l’assenza di echi della sua attività nella

cronachistica cittadina, il tono di certi richiami da Roma, suggeriscono l’immagine di un uomo piuttosto discreto, scrupoloso, un po’ sottotono rispetto alle esigenze di immagine della nuova istituzione».

115 Ivi, p. 64.

116 Non si trovano attestazioni di inquisitorati svolti presso altre sedi, né prima né dopo il periodo

il perseguimento di una chiara linea politica promossa dal papa117. Ciò che suscitò maggiore opposizione fu certamente la mancanza di riguardo nel procedere contro i membri delle più importanti famiglie modenesi, fino a colpire personaggi gravitanti attorno al duca118.

Degno di nota è sin da questa prima presentazione il terzo inquisitore generale, frate Arcangelo Calbetti da Recanati119. Questo personaggio fu il vero “architetto” della struttura inquisitoriale modenese, attivo dal 10 novembre del 1600 fino al 5 aprile del 1607, quando venne trasferito alla sede di Piacenza. Calbetti provò a prendere seri e concreti provvedimenti per cercare di risollevare le sorti dell’istituzione e lo fece non soltanto in termini di attività processuale, ma anche economico-finanziari, amministrativi e giurisdizionali, come testimonia la cospicua documentazione prodotta negli anni del suo mandato, dai fascicoli processuali, alla corrispondenza - con i cardinali della Sacra Congregazione, ma anche con i colleghi di altre sedi e con la corte - a tutta una serie di materiale miscellaneo: libri di spese, cataloghi, editti, decreti, etc. Fece in modo di conformare il tribunale modenese a quelli limitrofi di Parma e Mantova, cui ricorse per informazioni in merito alla prassi inquisitoriale, ma anche al modo più conveniente di rapportarsi con il potere secolare120. Calbetti riuscì non solo a raggiungere un sostanziale equilibrio con la corte, ma pervenne alla «costruzione nel ducato di Modena del reticolo delle vicarie con cui la città giunge[va] a controllare immaginario, pensiero, rituali e costumi della campagna» e poté farlo attraverso le “congregazioni” o “vicarie foranee” inquisitoriali, realizzando un sistema capillare che venne mantenuto fino alla soppressione del tribunale121. Sul quarto inquisitore non si hanno molte notizie. Si tratta del bresciano frate Serafino Borra, attivo dall’aprile del 1607 al luglio del 1608. Non sembra avesse