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Michelangelo Lerri da Forlì (luglio 1608-settembre 1616)

Nel documento L’Inquisizione a Modena nel primo Seicento (pagine 139-149)

Gli anni del mandato di Michelangelo Lerri da Forlì furono densi di attività, anche se ciò che rese maggiormente noto questo giudice fu una sua opera, redatta proprio negli anni in cui esercitava le sue funzioni presso il tribunale modenese: la Breve

informatione del modo di trattare le cause del S. Officio Per li Molto Reverendi Vicarij della Santa Inquisitione Istituiti nelle Diocesi di Modona, di Carpi, Di Nonantola, e della Garfagnana388.

Va precisato che, se sono a disposizione molte lettere della Sacra Congregazione indirizzate a Lerri, tuttavia, le missive di quest’ultimo non si sono conservate che per i primi anni del suo mandato, essendo presente una lacuna nel volume delle lettere degli inquisitori proprio per gli anni dal 1609 (per cui si hanno lettere solo fino al mese di luglio) al 1616 (la corrispondenza riprende con le lettere dell’inquisitore successivo, frate Massimo Guazzoni).

Anche in questi anni i cardinali tornavano su questioni sempre delicate e cruciali, come il controllo sui libri proibiti o sospetti: una lettera del cardinale d’Ascoli, ad esempio, invitava l’inquisitore a prestare attenzione, come era già stato fatto in passato, ad alcune pratiche cui erano soliti ricorrere autori e stampatori di opere proibite per evitare la censura, come i falsi titoli. Il cardinale insisteva sul controllo di qualsiasi libro proveniente da luoghi sospetti da parte di vescovi e inquisitori, che avrebbero dovuto segnalare ogni trasgressione alla Congregazione dell’Indice389.

Un caso particolarmente interessante, al quale è stato dedicato uno studio - tratto dalla sua tesi di laurea - da Laura Roveri390, riguarda alcuni questuanti, alla testa dei

388

Di questo prezioso opuscolo esiste una edizione curata da A. Biondi nel 1991 per Spazio Libri Editori (in tiratura limitata).

389 ASMo, Inquisizione, b. 251, fasc. VII, lettera del cardinale d’Ascoli, 25 settembre 1608. 390

L. Roveri, Gli stregoni erranti. La cultura popolare nelle carte di un processo dell’Inquisizione

modenese, in Il piacere del testo. Saggi e studi per Albano Biondi, cit., vol. I, pp. 119-139. L’autrice

dà conto della vicenda, che considera evidentemente emblematica di una cultura popolare forte, che difficilmente i tentativi di controllo dell’età della Controriforma riuscivano a gestire. Si tratta in questo caso di falsi pellegrini, che nel loro vagabondare persuadevano le persone «che i propri guai e difficoltà dipendevano da due “pianeti” che si trovavano sopra la casa: uno era un’anima senza pace, l’altro un peccato compiuto da un membro vivente della famiglia, taciuto in confessione». Soltanto Lucido Bianchini e i suoi compagni avrebbero potuto, con il loro intervento (e dietro pagamento), scongiurare pericoli, ivi, pp. 119-120.

quali era tale Lucido Bianchini del castello di Acera, nella diocesi di Spoleto, segnalato sin dal novembre 1608 in una lettera del cardinale Arrigoni, che invitava l’inquisitore di Modena a prendere tutte le informazioni necessarie su costoro, ma di attendere prima di terminare il processo offensivo e difensivo e trasmettere la causa ai cardinali: se non fosse emerso nulla, si sarebbe comunque potuto spedire il processo senza aspettare la soluzione da Roma391.

Diverse lettere riguardano il caso già segnalato negli anni precedenti dall’inquisitore Calbetti, ovvero quello di David Norsa e della sinagoga di Soliera, che verrà approfondito più avanti.

In questa fase il cuore dell’attività inquisitoriale era costituito pressoché in tutte le sedi dei tribunali da casi di magia e “superstizione”. Non stupisce quindi di trovare frequenti riferimenti a questa tipologia di reato e segnalazioni riguardo alcuni accorgimenti da seguire durante lo svolgimento dei processi, come quello indicato dal cardinale Arrigoni, che ordinava di custodire con attenzione gli scritti di sortilegi e magie durante le cause e di farli bruciare subito dopo la fine dei processi, in maniera tale da impedirne la lettura da parte di altre «persone incarcerate, et poco timorose di Dio»: una volta bruciati, il provvedimento sarebbe stato debitamente annotato nel processo392. Il fatto che si precisasse questo aspetto è assai significativo, poiché da un lato è lecito pensare che in alcuni casi quelle annotazioni rappresentino le sole tracce dell’esistenza di opere non più in circolazione e dall’altro testimonia di quella che sopra si è definita “mentalità archivistica”, volta a certificare ogni azione, anche con lo scopo di agevolare il lavoro dei successori.

Se con Calbetti - per il quale, insieme a Lerri e a Reghezza, si dispone della maggior quantità di lettere, inviate e ricevute - si era percepito un rapporto di sostanziale equilibrio con l’autorità ducale, con frate Michelangelo si verificarono alcune frizioni. Sebbene anche in passato il duca e i suoi ministri avessero spesso rivendicato la prerogativa di giudicare i membri della corte e i nobili del ducato o quanto meno di essere informati dall’inquisitore prima dell’inizio di un processo, in

391

ASMo, Inquisizione, b. 251, fasc. VII, lettera del cardinale Arrigoni, 12 novembre 1608. Sulla vicenda si veda anche A. Prosperi, Croci nei campi, anime alla porta. Religione popolare e disciplina

tridentina nelle campagne padane del ‘500, in Il piacere del testo, vol. I, cit., pp. 83-117.

questo caso si trattò di una vera e propria controversia, che coinvolse da una parte inquisitore e cardinali della Sacra Congregazione, dall’altra il duca e il suo principale segretario, Giovanni Battista Laderchi. In una lettera di Lerri, cancellata con linee oblique, ma ugualmente leggibile e senza data (ma molto probabilmente del 1609)393, il giudice di fede dava conto al cardinale Arrigoni della questione nata dall’opposizione del duca per il fatto che si citassero i suoi stipendiati come testimoni nei processi senza dargliene previo avviso. Ne era nato un fraintendimento, poiché, da parte sua, l’inquisitore si diceva convinto che la rivendicazione del duca si riferisse soltanto ai casi dei rei394 e non dei semplici testimoni. Comprendere anche i testimoni infatti, rilevava Lerri, avrebbe apportato un notevole impedimento alle cause del Sant’Ufficio. Nel prosieguo della lettera l’inquisitore forniva dettagli sulla causa scatenante la controversia, ovvero la convocazione in tribunale del capitano Curzio Saracinello da Ferrara come testimone e spiegava che, pur volendo ammettere l’obiezione del duca, si trattava di un personaggio con dei precedenti, in quanto «reo nel santo offitio per più capi»: per aver colpito con un pugno allo stomaco ed aver minacciato l’ufficiale del tribunale mandato a citarlo, per essere sospettato di aver indotto un testimone a dichiarare il falso contro un’altra persona (accusandola di aver tenuto e letto un libro proibito), per aver proferito “bestemmie ereticali”, come avevano dichiarato altri testimoni e come dimostrava una precedente citazione, trovata tra le scritture del Sant’Ufficio.

Della permanenza di una certa tensione danno conto altre lettere di quei mesi e anche in quelle più succinte è possibile percepire la fermezza della posizione della Sacra Congregazione nel ribadire che, delle cause dell’Inquisizione, non si era tenuti a dare avviso al duca, nemmeno nei casi in cui erano coinvolti nobili o suoi familiares, in linea con quanto era stato già ordinato dal cardinale di Santa Severina diversi anni prima395.

La questione sembrava trovare una momentanea soluzione nel mese di luglio, quando il cardinale Arrigoni riferiva all’inquisitore che

393 ASMo, Inquisizione, b. 295, “Lettere de Padri Inquisitori”, cit. In chiusura la lettera riporta una

nota, in cui si dichiara che era stata cancellata perché se ne era inviata una scritta in forma diversa.

394 Ibidem: «[...] ch’io non dovessi procedere contra alcuno della sua famiglia ò suo stipendiato [il

duca] intendesse solo quanto al constituirli rei, et far cause contra di loro [...]».

395 Da notare sempre il richiamo ai precedenti, a conferma del valore normativo delle lettere della

Sacra Congregazione. In questo caso si fa esplicito riferimento alle direttive che il cardinale di Santa Severina aveva dato con lettera del 1° luglio 1600.

L’Altezza del Signor Duca di cotesta Città con lettera de X del passato avisa che si rimette circa il mutar l’uso di procedere in cotesta Inquisitione nelle cause dei suoi famigliari, scusandosi, se in ciò nascerà qualche disordine, per non conoscere l’Inquisitori la qualità de’ sudditi396.

Il cardinale precisava che Lerri

come Inquisitore per obligo non deve notificare al signor Duca quando procede contra alcun suo familiare per essere l’officio libero, et non ridurlo in soggettione, ma per urbanità et civiltà può farne parola con Sua Altezza [...]397.

Questa vicenda, a ben vedere, mostra la posizione di sostanziale debolezza del duca rispetto all’inquisitore: nonostante i tentativi di rivendicare le proprie prerogative - che erano comunque quelle di un sovrano - spesso Cesare si trovava a subire la linea dettata da Roma, che, anche quando mostrava di essere disponibile a cedere, lo faceva in realtà in forma di concessioni.

D’altra parte, lo si è detto, i due poteri cittadini non avevano interesse ad inasprire i conflitti e anche gli inquisitori non potevano non tener conto del contesto in cui operavano, dal momento che il braccio secolare risultava di fondamentale importanza nella gestione dei processi398. In effetti, al di là delle direttive romane, una dimostrazione concreta del modo di operare a livello locale in questa e in altre situazioni si trova leggendo un documento conservato nel fondo Inquisizione dell’Archivio di Stato di Modena. Si tratta del “Modo, et ordine, che osserva il Reverendo Padre Inquisitore nell’essercitare il suo Officio nella Città di Modena”399

. Il documento, distinguendo le varie fasi dei processi contro stipendiati o nobili vicini alla corte - dalla denuncia alla comminazione delle pene - precisa i momenti in cui l’inquisitore avrebbe dovuto procedere autonomamente e quelli in cui avrebbe invece

396 ASMo, Inquisizione, b. 252, fasc. I, lettera del cardinale Arrigoni, 4 luglio 1609. 397 Ibidem.

398 Alle controversie di cui si è dato conto fa cenno anche G. Biondi, Le lettere della Sacra

Congregazione, cit. p. 104.

399 ASMo, Inquisizione, b. 295, Miscellanea, fasc. III-6, “Modo et ordine che osserva il Reverendo

Padre Inquisitore nell’essercitare il suo Officio nella Città di Modena”, s. d., cc. non numerate. Il testo si trova trascritto infra, Appendice documentaria, documento 2.

dovuto dare avviso al duca (o ai suoi ministri) e chiederne il braccio. Volendo fare qualche esempio, nella fase iniziale l’inquisitore avrebbe dovuto procedere solo col suo notaio, «senza l’assistenza ò licenza d’alcun ministro di Sua Altezza»; ugualmente, si sarebbe mosso senza tener conto dell’autorità laica nei casi ritenuti più gravi (eresia in primis). Avrebbe invece dovuto avvisare il duca o i suoi ministri principali sia nella citazione dei testimoni400, sia nelle fasi di cattura e arresto di suoi stipendiati401.

È verosimile che il documento fosse scaturito, se non dalla controversia intorno al capitano Curzio Azzi Saracinello, da un caso simile e comunque dello stesso periodo. Il fatto che nella corrispondenza non se ne faccia mai menzione in situazioni analoghe è significativo: si può supporre che, trattandosi di un “prodotto” locale, non necessariamente gli inquisitori successivi avrebbero voluto tenerne conto.

Come per gli inquisitori precedenti, durante il mandato di Michelangelo Lerri non mancarono di emergere le difficoltà legate alla povertà del tribunale modenese, che venivano puntualmente richiamate dai giudici di fede ogni volta che da Roma giungesse qualche direttiva volta a disciplinare materie come le multe e altri tipi di entrate, di cui solitamente si avvalevano gli inquisitori locali. Per esempio, riguardo le “mercedi” ricevute dagli ufficiali del Sant’Ufficio, Lerri si impegnava a rispettare le direttive ricevute, facendo tuttavia notare che il frate notaio e il frate custode delle carceri non avevano alcun sussidio e che, in quelle condizioni, sarebbe stato difficile trovare degli sbirri disposti a servire il Sant’Ufficio senza ricevere uno stipendio402.

Questioni relative alla presenza ebraica nella giurisdizione tornavano anche in questi anni, così come erano frequenti gli ordini rivolti agli ebrei di tenere espurgati i loro libri, dal momento che l’Inquisizione non riteneva fosse suo compito quello di

400 Ibidem: «Ma se siano stipendiati da S. Altezza, non li farà chiamare nè citare senza prima farne

parola à sua Altezza, notificandole essergli di bisogno essaminare la tale, et la tal persona: et ella impone à tai persone, che venghino à presentarsi, et ad ubidire».

401 Ibidem: «Quanto alle persone, che per necessità delle cause si devono imprigionare, il Padre

Inquisitore hà il medesimo riguardo, che circa il chiamare i testimonij perche se tai persone sono stipendiate da S. Altezza, non dovrà farle prendere, et carcerare, se prima non ne havrà fatto parola à sua Altezza, significandole il nome delle persone; ò vero dovrà trattarne prima col Signor Imola, ò con altro ministro principale, il quale habbia tale auttorità da S.A. che da loro sarà commessa l’essecutione di quanto sarà di bisogno».

provvedere alla correzione dei testi ebraici403. Le lettere, in questo senso, non mancano di fare riferimento alla formazione di appositi editti sull’espurgazione dei libri404. Il ripresentarsi della questione non deve sorprendere poiché, soprattutto in considerazione della difficoltà di reperimento di denaro - aggravata, come si è appena detto, dalle restrizioni decise dai cardinali - le commutazioni delle pene inflitte agli ebrei in pene pecuniarie diventavano cruciali e i casi collegati al possesso e alla correzione dei loro libri offrivano continue occasioni per agire in questo senso.

Le lettere circolari di questi anni, che servivano a comunicare direttive generali a tutti gli inquisitori delle diverse sedi locali, si riferivano a questioni come quella, nota ma comunque ribadita il 24 dicembre 1611, di osservare il segreto: agli inquisitori si imponeva di prestare il giuramento, facendo un rogito davanti ad un notaio405. Che la questione fosse particolarmente sentita dall’inquisitore di Modena è dimostrato da una sua minuta conservata all’interno dello stesso fascicolo (ma in una carta sciolta), datata 14 aprile 1612: egli non solo si mostrava d’accordo con la direttiva, ma aveva ritenuto di dover estendere l’obbligo anche ai vicari vescovili e agli altri ordinari, dal momento che spesso i laici premevano per avere informazioni e notizie sulle cause: per questo, contestualmente, rammentò il rischio di scomunica per chi avesse rivelato il contenuto delle cause e dei “negotij”406

.

L’invio di editti e decreti che apportavano modifiche e aggiornavano le norme e le prassi sulle varie materie aveva lo scopo sia di «mettere buon ordine» sia di rendere il sistema di controllo e di gestione il più uniforme possibile in tutti i tribunali periferici. All’inquisitore veniva sempre chiesto di avere cura di conservare i documenti e non solo di provvedere alla loro pubblicazione. Ciò si traduceva nell’impegno a fare almeno una copia di ogni documento: questa formazione guidata degli archivi è certamente un elemento di grande rilevanza e importanza, poiché, oltre a garantire uniformità nella prassi archivistica inquisitoriale, rende possibile avere un’idea generale di come dovessero essere formati e tenuti gli archivi dei vari

403 ASMo, Inquisizione, b. 252, fasc. II, lettera del cardinale Millini, 12 giugno 1610: «[...] non

havendo mai risoluto il Santo Officio ingerirsi nella corretione, et revisione de libri hebrei».

404

Probabilmente il più delle volte gli editti venivano separati dalle lettere cui erano allegati per essere collocati altrove, magari in raccolte ad essi espressamente dedicate.

405 ASMo, Inquisizione, b. 252, fasc. III, lettera del cardinale Arrigoni, 24 dicembre 1611. 406 Ivi, minuta di fra Michelangelo Lerri, 14 aprile 1612.

tribunali, la maggior parte dei quali non hanno avuto la stessa sorte di quello modenese, conservato - se non integralmente - certamente in buona parte e corrispondente alle descrizioni che si possono evincere dalla corrispondenza.

Alcune lettere di questi anni alludono a minacce subite dall’inquisitore: il cardinale Arrigoni, in una lettera del 1611, avendo appreso quanto il cardinale d’Este aveva riferito a Lerri riguardo ai pericoli che correva nell’esercizio del suo ufficio, aveva ordinato che egli continuasse comunque a svolgere le sue funzioni. Allo stesso tempo, però, ordinava che il vicario generale facesse rimuovere dal convento il frate da cui si sospettava che provenissero le minacce: tale misura, raccomandava, doveva essere attuata in segreto407. Anche l’anno successivo si faceva riferimento a minacce subite da Lerri, ma, con gli elementi a disposizione, non è possibile stabilire se i due episodi fossero collegati. Il cardinale Arrigoni, in quel caso, rimetteva la decisione sul da farsi all’inquisitore stesso:

Si rimette all’arbitrio, et prudenza di lei di avvisar la persona che minacciò Vostra Reverentia di farla ammazzare proseguendo con processo, in cui si dubita venir nominata una persona nobile per non sapere da chi procedano le minaccie, et farci la debita provisione408.

Una questione che trova spazio crescente all’interno della corrispondenza tra inquisitore di Modena e cardinali della Sacra Congregazione è quella relativa ad uno dei reati verso cui, sempre più nel corso del Seicento, si mostrava attenzione: la cosiddetta sollicitatio ad turpia. Il problema della perseguibilità di questo reato - e prima ancora l’acquisizione secondo cui si trattava effettivamente di reato - venne sollevata prima in Spagna e in Portogallo, per essere poi estesa al resto del mondo cattolico ufficialmente nel 1622 con la bolla di Gregorio XV Universi Dominici

gregis: non è un caso che proprio negli anni ’20 del XVII secolo si registri

praticamente ovunque un picco delle ricorrenze di questo reato: il caso modenese conferma tale tendenza, come dimostrano sia la corrispondenza, sia gli atti processuali (denunce, spontanee comparizioni, fascicoli processuali). Va da sé che il

407 Ivi, lettera del cardinale Arrigoni, 27 agosto 1611. 408 Ivi, lettera del cardinale Arrigoni, 19 ottobre 1612.

reato di sollicitatio creasse una serie di problemi non eludibili con una azione giuridica e normativa, sia pure in decisa evoluzione. Basti pensare al problema legato alla segretezza e a come mantenerla senza ledere il segreto del confessionale409. Ma si pensi anche alla questione dell’onore e della rispettabilità sia degli ecclesiastici410

che delle penitenti, soprattutto nei casi in cui ad essere coinvolte fossero nobildonne, che rischiavano di macchiare l’onore delle proprie casate. Si vedrà successivamente quali fossero le dinamiche legate ai procedimenti di questo tipo, quando saranno illustrati casi tratti direttamente dai fascicoli processuali del tribunale dell’Inquisizione della capitale estense.

Per Modena vi sono attestazioni che dimostrano che già prima del 1608 l’Inquisizione locale aveva rivendicato la competenza su tale materia411

, mentre, in generale, è molto significativa della nuova tendenza una lettera circolare del cardinale Arrigoni del 1612, poiché, leggendola, si ha la chiara impressione della presa di coscienza di un problema, la cui diffusione era tale da non poterne più sottacere la gravità e posporne le soluzioni:

Vedendosi per esperienza la frequenza dei delitti, che si commettono dai curati, et confessori così secolari, come Regolari in sollecitare le Donne penitenti nell’atto della confessione sacramentale con abusare il sacramento della Penitenza in grave offesa della Maestà Divina, rovina dell’anime de Penitenti, et scandalo delle persone, che hanno notitia de si enormi eccessi la Santità Sua per decreto fatto in questa Sacra Congregatione [...]412

stabiliva che si sarebbero adottati provvedimenti rigorosi contro i colpevoli413. Tale posizione avrebbe dovuto essere notificata o da un sinodo diocesano o in altra maniera, sebbene si raccomandasse di procedere in ogni caso con prudenza e segretezza, affinché la notizia dei crimini non trapelasse all’esterno.

409 Sulle questioni legate al rapporto su inquisitori e confessori resta fondamentale lo studio di A.

Prosperi, Tribunali della coscienza, cit.

410

Su questo interessante tema si veda M. Mancino, G. Romeo, Clero criminale. L’onore della Chiesa

e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della controriforma, Roma-Bari, Laterza, 2013.

411 W. De Boer, Sollecitazione in confessionale, DSI, vol. III, p. 1452.

412 ASMo, Inquisizione, b. 252, fasc. III, lettera del cardinale Arrigoni, 5 maggio 1612. Che si trattasse

di una lettera circolare è dimostrato dal fatto che se ne è conservata copia anche tra le lettere della Sacra Congregazione all’Inquisizione di Siena, cfr. Di Simplicio, Le lettere della Sacra

Congregazione, cit., p. 86.

413 Ibidem: «[...] contro di essi si procederà con ogni rigore nel santo officio come ricerca la gravità di

In una lettera dell’anno successivo il cardinal Millini tornava sulla questione e la

Nel documento L’Inquisizione a Modena nel primo Seicento (pagine 139-149)