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Come anticipato, l’instaurazione dello stato di guerra ha come fondamentale conseguenza la disapplicazione – nei rapporti tra i belligeranti – di principi e norme applicabili in tempo di pace, nonché la modificazione di un sistema di relazioni. Da tale momento, infatti, si applica il diritto di guerra (nei rapporti tra i belligeranti) ed il diritto di neutralità (nei rapporti con i terzi). Il problema che ha sempre riguardato sia la dottrina che gli Stati è quello afferente al momento a partire dal quale possa dirsi instaurato lo stato di guerra, con le conseguenze sopra descritte.

Sino al XIX secolo era dominante l’idea che non si potesse parlare di guerra se non vi fosse un uso effettivo della forza armata. Il fatto di ricorrere alla forza armata, infatti, comportava automaticamente l’instaurarsi dello stato di guerra, essendo del tutto irrilevante qualsivoglia dichiarazione in tal senso. Di conseguenza, lo stato di guerra non poteva instaurarsi in presenza di una mera dichiarazione di

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105 La maggior parte delle disposizioni contenute nel II Protocollo addizionale sono

state ritenute – dalla giurisprudenza – come facenti parte del diritto internazionale consuetudinario (v. caso Tadic, cit.). Per una più ampia analisi di tale strumento v. N. RONZITTI, Diritto internazionale dei conflitti armati, cit., p. 322 ss.

106 V. International Committee of the Red Cross, How is the Term “Armed Conflict” Defined in International Humanitarian Law?, Opinion Paper, March

uno Stato: era necessario, appunto, che vi fosse stato quantomeno l’inizio delle ostilità.

Una simile concezione aveva certamente il pregio di individuare con certezza il momento nel quale si instaurasse lo stato di guerra, andando a beneficio delle relazioni tra gli Stati, ma una sua totale ed indiscriminata applicazione poteva ritorcersi contro le sopra dette relazioni. Come constatato nei precedenti paragrafi, l’evoluzione storica della guerra ha messo in evidenza che questa, col passare del tempo, ha finito per riguardare molteplici relazioni intercorrenti tra gli Stati belligeranti, ma anche con gli Stati terzi. L’instaurarsi dello stato di guerra, quindi, comportando una rottura netta con lo stato di pace, finiva per avere effetti pericolosi ed interruttivi anche sulle relazioni degli Stati coinvolti e, per questo, gli stessi Stati, mossi da considerazioni di natura politica, economica e sociale, si sono sempre dimostrati poco propensi a considerarsi ed a dichiararsi “in guerra”. È per tale ragione, dunque, che si sentì la necessità di individuare criteri alternativi, magari anche meno idonei a garantire uno stato di certezza, ma sicuramente meglio accettati dagli Stati della comunità internazionale. Pertanto, ribaltando il principio fino a quel tempo ritenuto risolutivo circa l’individuazione del momento iniziale dello stato di guerra, si andò affermando l’idea che il ricorso alla forza armata non fosse di per sé idoneo a provocare l’instaurazione dello stato di guerra. La vigenza di quest’ultimo, infatti, dipendeva dalla manifestazione di almeno una delle parti belligeranti del c.d. animus

bellandi, ossia della volontà di considerarsi assoggettati alle norme di

diritto bellico107. Dunque, si giunse alla conclusione che il criterio

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107 Sostenitore di tale corrente di pensiero è stato BALLADORE PALLIERI,

secondo il quale “affinché si abbia guerra, nel senso internazionale della parola, […] è necessaria la volontà almeno di uno Stato di farla”. “La condizione richiesta dal diritto internazionale [continua l’A.], e sufficiente secondo il diritto internazionale per il subentrare di quel particolare status che rende possibile e lecita la guerra, è la volontà anche di un solo Stato di muoverla”. Così G. BALLADORE PALLIERI, Il problema della guerra lecita nel diritto internazionale comune, cit., pp. 512-513.

distintivo tra stato di pace e stato di guerra fosse rappresentato dalla volontà della parte facente ricorso alla forza armata. Per questo, se lo Stato che usava la forza intendeva ricorrere alla guerra allora si instaurava lo stato di guerra; altrimenti, in assenza dell’animus

bellandi, vi era un mero ricorso alla forza armata, il quale non era

idoneo a far sorgere lo stato di guerra.

Del resto, il potere di muover guerra è sempre stato una prerogativa fondamentale inerente alla sovranità degli Stati. La predetta volontà di muover guerra, inoltre, poteva essere manifestata esplicitamente dagli Stati, ovvero essere desunta da comportamenti concludenti, come ad esempio il fatto di rispettare il diritto bellico (nei confronti degli Stati belligeranti) od il diritto di neutralità (nei confronti degli Stati terzi). Dunque, l’esistenza di uno stato di guerra veniva fatta dipendere dall’intenzione degli Stati (sia di quello ricorrente alla forza, sia di quello che subiva l’attacco) e non dalla natura degli atti da loro posti in essere108. È così, pertanto, che un medesimo attacco armato, anche il più brutale, poteva o determinare l’instaurazione dello stato di guerra (qualora fosse stato compiuto animo bellandi) o rappresentare un mero utilizzo della forza armata non idoneo ad intaccare lo stato di pace109.

Sennonché, una simile concezione, se da un lato lasciava agli Stati una pressoché totale discrezionalità circa l’instaurazione dello stato di guerra, dall’altro veniva a creare una situazione confusionaria e di incertezza e, talvolta, addirittura paradossale.

Innanzitutto, come anticipato, un atto armato poteva, in assenza di

animus belligerandi, non comportare l’insorgenza di uno stato di

guerra. Quindi, oltre al procedimento bellico, veniva implicitamente

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108 V. I. BROWNLIE, International Law and the Use of Force by States, cit., p. 38. 109 Ad esempio, gli attacchi armati portati avanti dall’Italia nel 1923 e conclusisi

con l’occupazione dell’isola di Corfù non instaurarono lo stato di guerra con la Grecia in quanto l’intenzione dell’Italia era solamente quella di porre in essere una rappresaglia armata al fine di ottenere le riparazioni dovute a seguito

ammessa l’esistenza di altri procedimenti comportanti l’uso della forza armata ma non costituenti “guerra” (i cc.dd. procedimenti non bellici). Ciò non toglie, comunque, che lo Stato nei cui confronti fosse stato posto in essere un procedimento non bellico potesse, attraverso una propria dichiarazione espressa di volontà, o mediante l’uso su larga scala della forza armata contro lo Stato offensore, determinare il sorgere dello stato di guerra. Al tempo stesso, qualora la volontà di muover guerra non fosse stata manifestata da nessuno dei belligeranti, lo stato di guerra – benché fosse stato fatto anche un largo uso della forza armata – non avrebbe potuto ritenersi instaurato. La volontà di muover guerra, peraltro, poteva essere ritenuta, di per sé, idonea a determinare l’insorgere di quest’ultimo, essendo del tutto irrilevante giuridicamente la volontà contraria delle altre parti o qualsiasi altro comportamento dalle stesse tenuto110. Gli Stati più deboli, inoltre, allo scopo di evitare di pagare le conseguenze, spesso distruttive, della permanenza in un conflitto armato, preferivano certamente non invocare lo stato di guerra.

Inoltre, altra situazione paradossale consisterebbe nella c.d. guerra fittizia, cioè l’instaurazione dello stato di guerra pur in assenza di qualsivoglia tipo di ostilità o azione tra gli Stati coinvolti: uno Stato, infatti, ben potrebbe dichiarare la propria volontà di ritenersi in guerra con un altro benché tra questi due non sia stato adoperato alcun atto implicante l’uso della forza armata111. La guerra, infatti, nella sua concezione attuale presuppone la messa in atto, almeno da parte di un belligerante, di attività concrete nei confronti del nemico.

Per evitare tali situazioni di incertezza, pertanto, spettava al diritto internazionale l’arduo compito di individuare criteri idonei a stabilire

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110 Sul punto v. D. ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale, Roma, 1915, p.

229 ss.

111 È quanto accadde ad alcuni Stati dell’America Latina che, durante la prima

guerra mondiale, dichiararono guerra alle Potenze Centrali senza che vi fosse stato alcun atto di ostilità. Per un’analisi approfondita della questione si veda E. GOLDSTEIN, Wars and Peace Treaties, 1816-1991, London – New York, 1992, p. 213 ss.

confini decisamente più certi della materia. Si è accennato, infatti, che l’animus bellandi poteva essere dichiarato espressamente o poteva essere desunto da comportamenti concludenti da parte degli Stati belligeranti. Orbene, uno Stato che faceva un uso completo su larga scala della forza armata nei confronti di un altro Stato, pur non volendo nel caso concreto instaurare lo stato di guerra, dava effettivamente inizio alle ostilità, e dunque ad una guerra. Pertanto, un tale uso generale della forza armata poteva essere ritenuto idoneo a denotare la volontà dello Stato offensore di muover guerra nei confronti dello Stato contro cui tale forza veniva esercitata. Lo stesso ragionamento, del pari, vale per lo Stato nei confronti del quale la guerra è stata solamente dichiarata: se quest’ultimo, infatti, compie atti bellici nei confronti del dichiarante, si ha instaurazione dello stato di guerra. Viceversa, un uso parziale e circoscritto della forza armata non è idoneo a costituire un “fatto concludente” e, di conseguenza, a denotare l’intenzione dello Stato che lo ha posto in essere di muover guerra allo Stato offeso. Inoltre, qualora entrambi i belligeranti negassero di trovarsi in stato di guerra, nonostante la presenza di ostilità, quest’ultimo ben potrebbe essere riconosciuto anche da uno Stato terzo, con la conseguenza che questo manifesterebbe la volontà di osservare il diritto di neutralità nei rapporti con gli Stati belligeranti112.

Come anticipato, la manifestazione esplicita di uno Stato tendente a riconoscere lo stato di guerra era rappresentata dalla c.d. dichiarazione di guerra113, cioè una dichiarazione formale unilaterale, posta in essere dalle competenti autorità di uno Stato, idonea a determinare esattamente il momento a partire dal quale possa dirsi iniziata una guerra. Di tale argomento si era occupata la Terza Convenzione

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112 Nella prassi, comunque, gli Stati terzi si guardavano bene dal riconoscere

l’esistenza di uno stato di guerra tra due o più Stati belligeranti.

113 Sulla dichiarazione di guerra si veda C. EAGLETON, The Form and Function

dell’Aja del 1907 (entrata in vigore nel 1910 e mai ratificata dall’Italia)114, la quale – dando per scontata la libertà degli Stati di ricorrere alla guerra – da un lato stabiliva la necessità, per poter iniziare le ostilità, di una dichiarazione di guerra motivata115 o di un

ultimatum (art. 1), e dall’altro prevedeva per gli Stati belligeranti un obbligo di notificazione dello stato di guerra ai neutrali (art. 2)116. Gli Stati erano dispensati da tale ultimo obbligo soltanto qualora fosse provato che i terzi fossero a conoscenza dello stato di guerra esistente: in assenza di notifica, perciò, la dichiarazione di guerra non produceva effetti nei confronti di tali Stati. Lo scopo, dunque, era quello di garantire certezza circa le intenzioni degli Stati e di eliminare, grazie alla dichiarazione motivata di guerra, l’effetto sorpresa per lo Stato aggredito. Si voleva, pertanto, rimarcare il carattere eccezionale della guerra e non lasciare spazio alla possibilità di individuare situazioni intermedie – nelle quali fosse legittimato l’uso della forza – tra la pace e la guerra. Se, nonostante ciò, uno Stato parte della Convenzione violasse tali obblighi commetterebbe certamente un illecito internazionale, ma questo non sarebbe idoneo ad escludere l’instaurazione dello stato di guerra. Come ha avuto modo di far notare un insigne giurista, gli Stati che hanno ratificato tale Convenzione sono obbligati a dichiarare lo stato di guerra, ed una sua mancanza rappresenterebbe certamente una violazione del diritto internazionale, ma non sarebbe idonea ad escludere l’esistenza di una guerra tra gli Stati coinvolti117.

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114 A dire il vero, l’Institut de droit international, nella sessione di Gand del 1906,

aveva adottato tre risoluzioni su tale materia con le quali metteva in luce che, ai fini di eventuali successive convenzioni, dovesse ritenersi conforme al diritto internazionale il fatto che la guerra dovesse iniziare dopo un avvertimento non equivoco.

115 V. G. BALLADORE PALLIERI, La guerra, cit., p. 152. L’A. sottolinea, infatti,

che “la convenzione […] si contenta di una motivazione qualsiasi che gli Stati non saranno mai imbarazzati a trovare”.

116 V. C. FENWICK, War without a Declaration, in American Journal of

Internationl Law, 1937, p. 694 ss.

Al giorno d’oggi, infatti, alla luce dei notevoli progressi compiuti dal diritto internazionale, lo stato di guerra deve essere considerato in un’ottica certamente più evoluta ed al passo con i tempi118: bisogna chiedersi, infatti, in che modo l’art. 2 par. 4 CNU abbia inciso sull’obbligo stabilito dall’art. 1 Convenzione dell’Aja del 1907. Innanzitutto, la sopra richiamata Convenzione dell’Aja del 1907 – tutt’oggi in vigore – subordina l’inizio delle ostilità alla dichiarazione di guerra. Tale disposizione, però, non rappresenta certamente – al giorno d’oggi – una consuetudine119. Questo obbligo, dunque, pur restando vincolante per gli Stati parti della Convenzione, necessita di essere considerato alla luce della Carta delle Nazioni Unite, e più precisamente del suo art. 2 par. 4, il quale, come già anticipato in precedenza, vieta la minaccia o l’uso della forza nelle relazioni tra gli Stati120.

Dunque, l’instaurazione dello stato di guerra – nel diritto internazionale contemporaneo – deve confrontarsi con l’art. 2 par. 4 CNU. Una dichiarazione di guerra, pertanto, qualora fosse diretta ad aggredire un altro Stato, ben potrebbe rappresentare una violazione del divieto dell’uso della forza: sull’art. 1 della Convenzione dell’Aja del 1907 prevale gerarchicamente, ovviamente, l’art. 2 par. 4 CNU121. Tale ultimo articolo, comunque, in virtù dell’art. 103 CNU, prevarrebbe in ogni caso. Viceversa, una dichiarazione di guerra potrebbe essere anche conforme alla Carta ONU: si pensi al caso in

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118 Cfr. A. PRONTO, The Effect of War on Law – What happens to their treaties

when states go to war, in Cambridge Journal of International and Comparative Law, 2013, p. 232.

119 Cfr. G. SCHWARZENBERGER, The Law of Armed Conflict, International

Law as Applied by International Courts and Tribunals, II, London, 1968, pp. 65-

67. Sulla prassi in materia di dichiarazione di guerra si veda M. MANCINI, La

dichiarazione di guerra nel diritto internazionale e la Costituzione italiana, in N.

RONZITTI (a cura di), Nato, conflitto in Kosovo e Costituzione, Milano, 2000, p. 119 ss.

120 Vedi C. GREENWOOD, The Concept of War in Modern International Law, in

International and Comparative Law Quarterly, 1987, p. 302.

cui uno Stato, dopo aver subito un attacco armato, decida di reagire in legittima difesa122. Tale reazione, però, qualora lo Stato che la pone in essere sia parte della Convenzione dell’Aja del 1907, dovrà essere preceduta da una dichiarazione di guerra.

Sotto la vigenza dell’art. 2 par. 4, tra l’altro, gli Stati, tranne rare eccezioni123, non si sono dimostrati molto propensi a riconoscere lo stato di guerra, anche quando è stato fatto ricorso all’uso della forza su larga scala, né hanno mai posto in essere una dichiarazione di guerra, né si sono mai considerati di fatto in guerra124: ciò risulta agevolato anche dal fatto che le Costituzioni moderne non attribuiscono più ai Governi il potere di porre in essere una dichiarazione di guerra, ma prevedono anche l’intervento dei Parlamenti. La maggior parte delle volte, infatti, lo stato di guerra è stato negato adducendo il fatto che l’azione militare posta in essere fosse avvenuta a seguito di autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Del resto, non essendo mai venuto ad esistenza – a causa della mancata attuazione dell’art. 43 della Carta – un esercito comune, lo stesso Consiglio di Sicurezza, al fine di garantire la sicurezza collettiva, si trova nell’impossibilità di agire direttamente e, per questo, è costretto a servirsi degli eserciti degli Stati membri, autorizzandoli ad usare la forza.

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122 Ed infatti, “since a declaration of war implies a threat of force, it will generally

be a violation of the prohibition in Article 2(4) even if unaccompained by any actual violence. The only possible exception would be if the declaration of war could be regarded as a legitimate measure of self-defence”: C. GREENWOOD,

The Concept of War in Modern International Law, cit., p. 302.

123 Per un esame della prassi si veda M. MANCINI, Stato di guerra e conflitto armato nel diritto internazionale, Torino, 2009, p. 193 ss.

124 Vedi Y. DINSTEIN, War, Aggression and Self-Defence, cit., p. 33. Gli Stati in

questione, infatti, o si limitano a riconoscere di essere impegnati in un conflitto armato e non in una guerra, o cercando di qualificare le operazioni militari intraprese come esercizio di mezzi coercitivi al di fuori della guerra. Tutto ciò al fine di evitare di venire accusati di aver violato l’art. 2 par. 4 CNU. Ad esempio, in epoca coloniale, l’Italia – fino al maggio del 1936 – aveva sempre negato di trovarsi in stato di guerra con l’Etiopia.