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Gli effetti della guerra sui trattati: contributo per l'individuazione di elementi condivisi in vista di una codificazione

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

SCUOLA DI DOTTORATO IN SCIENZE GIURIDICHE GIUSTIZIA COSTITUZIONALE E DIRITTI FONDAMENTALI

CURRICULUM DIRITTO INTERNAZIONALE E DELL’UNIONE EUROPEA

GLI EFFETTI DELLA GUERRA SUI TRATTATI: CONTRIBUTO

PER L’INDIVIDUAZIONE DI ELEMENTI CONDIVISI IN VISTA

DI UNA CODIFICAZIONE

Candidato

Tutor

Dott. Luca Minuti

Prof. Simone Marinai

(2)

INDICE

CAPITOLO 1: CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

1. Gli effetti della guerra sui trattati: una questione ancora irrisolta ... 1

2. La guerra nel diritto internazionale: da mezzo lecito di risoluzione delle controversie a condotta oggetto di divieto assoluto ... 4

2.1. Il Patto della Società delle Nazioni ... 10

2.2. Il Patto Kellogg-Briand ... 12

2.3. Le debolezze intrinseche di tali trattati ... 14

2.4. L’evoluzione successiva alla seconda guerra mondiale ... 17

3. La nozione di guerra dal punto di vista del diritto internazionale ... 24

3.1. Guerra de jure e guerra de facto ... 27

3.2. Dalla nozione di guerra a quella di conflitto armato ... 28

3.3. Conflitti internazionali e conflitti interni ... 32

4. L’instaurazione dello stato di guerra ... 36

5. Obiettivi dell’indagine e piano di sviluppo ... 44

CAPITOLO 2: LE CONSEGUENZE GIURIDICHE DELLO SCOPPIO DI UN CONFLITTO ARMATO 1. L’applicazione del diritto bellico ... 49

2. L’applicazione del diritto di neutralità ... 53

3. Il trattamento dei cittadini nemici e dei loro beni ... 58

4. Le relazioni diplomatiche ... 65

5. Il rispetto dei diritti umani ... 67

6. I rapporti commerciali ... 69

7. I contratti conclusi dai privati ... 72 CAPITOLO 3: GLI EFFETTI DEI CONFLITTI ARMATI SUI

TRATTATI: UNA PRIMA VALUTAZIONE DELLE TEORIE ELABORATE IN MATERIA ALLA LUCE DELLA PRASSI

(3)

1. Le teorie che distinguono tra estinzione, conservazione e

discriminazione dei trattati ... 77

2. Le teorie che negano l’esistenza di norme consuetudinaria in materia ... 80

3. Le teorie che affermano l’esistenza di una norma consuetudinaria in materia ... 89

4. Una prima valutazione delle teorie sopra esposte, alla luce della prassi esaminata ... 107

CAPITOLO 4: GLI EFFETTI DEI CONFLITTI ARMATI SUI TRATTATI E LA CONVENZIONE DI VIENNA DEL 1969 SUL DIRITTO DEI TRATTATI TRA STATI 1. La difficoltà di ricondurre al diritto dei trattati gli effetti che i conflitti armati producono sugli stessi ... 110

2. L’ipotesi secondo cui gli effetti delle ostilità possono essere distinti a seconda della natura bilaterale o multilaterale dei Trattati presi in considerazione ... 117

3. Le norme della Convenzione di Vienna eventualmente applicabili ... 119

3.1. La clausola rebus sic stantibus ... 120

3.2. L’impossibilità sopravvenuta ... 129

CAPITOLO 5: I LAVORI DELLA COMMISSIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE IN VISTA DELLA CODIFICAZIONE DELLA MATERIA 1. L’iter che ha condotto al progetto di articoli adottato in seconda lettura dalla Commissione del diritto internazionale nel 2011 ... 135

2. Il campo di applicazione del progetto di articoli ... 137

3. La nozione di trattato ... 140

4. La nozione di conflitto armato e le problematiche ad essa connesse ... 144

(4)

6. I criteri necessari per valutare la sorte del diritto

convenzionale preesistente al conflitto armato ... 153 7. La permanenza in vigore di alcuni trattati a causa della loro

materia ... 165 7.1. I Trattati riguardanti il diritto dei conflitti armati, ivi

compresi quelli di diritto umanitario ... 169 7.2. I Trattati che dichiarano, creano o regolano un regime

permanente o uno status o relativi a diritti permanenti, inclusi i trattati che stabiliscono o modificano territori e confini

marittimi ... 170 7.3. I Trattati multilaterali a contenuto normativo ... 172 7.4. I Trattati in materia di diritto internazionale penale ... 176 7.5. I Trattati di amicizia, commercio e navigazione e accordi

concernenti diritti privati ... 178 7.6. I Trattati sui diritti umani ... 183 7.7. I Trattati relativi alla protezione internazionale dell’ambiente ... 184 7.8. I Trattati relativi ai corsi d’acqua internazionali ed ai

relativi impianti e servizi e trattati relativi alle falde acquifere

ed ai relativi impianti e servizi ... 186 7.9. I Trattati istitutivi di organizzazioni internazionali ... 187 7.10. I Trattati riguardanti la risoluzione giudiziale e pacifica

delle controversie internazionali, ivi inclusi il ricorso alla

conciliazione, alla mediazione ed all’arbitrato ... 188 7.11. I Trattati sulle relazioni diplomatiche e consolari ... 188 8. La conclusione di trattati durante un conflitto armato ... 191 9. La notificazione dell’intenzione di terminare, sospendere o

recedere da un trattato ... 194 10. L’adempimento delle obbligazioni imposte dal diritto

internazionale ... 200 11. La separabilità delle disposizioni di un trattato ... 202 12. La perdita del diritto di estinguere, recedere o sospendere

l’operatività di un trattato ... 206 13. Il ripristino e la ripresa delle relazioni tra gli Stati ... 208

(5)

14. Gli effetti dell’esercizio del diritto di legittima difesa sui trattati ... 213 15. Il divieto per lo Stato aggressore di trarre benefici dalla

propria condotta contraria al diritto internazionale ... 216 16. Le decisioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ... 218 17. Il rapporto tra gli effetti dei conflitti armati sui trattati ed il

diritto di neutralità ... 224 18. Altri casi di estinzione, recesso e sospensione ... 226 CAPITOLO 6: CONCLUSIONI

1. Il seguito avuto dal progetto di articoli in questione ... 229 2. Individuazione degli elementi di codificazione e degli

elementi di sviluppo progressivo e valutazione delle

prospettive di successo del tentativo di codificazione ... 232 3. Valutazione dei risultati conseguiti dal progetto di

codificazione elaborato dalla Commissione del diritto

internazionale alla luce dell’indagine svolta ... 237 BIBLIOGRAFIA ... 243

(6)
(7)

CAPITOLO 1

CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

SOMMARIO: 1. Gli effetti della guerra sui trattati: una questione ancora irrisolta. 2. La guerra nel diritto internazionale: da mezzo lecito di risoluzione delle controversie a condotta oggetto di divieto assoluto. 2.1. Il Patto della Società delle Nazioni. 2.2. Il Patto Kellogg – Briand. 2.3. Le debolezze intrinseche di tali trattati. 2.4. L’evoluzione successiva alla seconda guerra mondiale. 3. La nozione di guerra dal punto di vista del diritto internazionale. 3.1. Guerra de jure e guerra de facto. 3.2. Dalla nozione di guerra a quella di conflitto armato. 3.3. Conflitti internazionali e conflitti interni. 4. L’instaurazione dello stato di guerra. 5. Obiettivi dell’indagine e piano di sviluppo.

1. Gli effetti della guerra sui trattati: una questione ancora irrisolta.

Autorevole dottrina, negli anni ’30 del secolo scorso, affermava che il problema maggiore cui la guerra dà origine è costituito dagli effetti giuridici che essa produce.

Ancora oggi, peraltro, la questione degli effetti giuridici dei conflitti armati sui trattati risulta un punto critico del diritto internazionale pubblico, una questione ancora irrisolta. Pertanto, si può affermare che questo è il problema maggiore a cui la guerra dà origine1. Il motivo di tale situazione è di ordine giuridico, politico e storico. Già dalla locuzione “effetti giuridici dei conflitti armati sui trattati” è facile

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1 In proposito, v. G. BALLADORE PALLIERI, Il problema della guerra lecita nel

diritto internazionale comune, in Rivista di diritto internazionale, 1930, p. 522; A.

CASSESE, Diritto internazionale, Bologna, 2006, p. 263. L’A., infatti, afferma che “nel diritto internazionale tradizionale [non] era chiaro se lo scoppio della guerra fra due parti costituisse una causa di estinzione del trattato, oppure una causa di sospensione. […] Confusa era anche la portata della clausola rebus sic stantibus”.

(8)

intuire come vengano in rilievo diversi aspetti del diritto internazionale pubblico: il diritto dei conflitti armati ed il diritto dei trattati. Mai è stata raggiunta un’idea univoca, infatti, riguardo all’inquadramento di tale questione all’interno dello ius in bello o del diritto dei trattati2. Spesso, pertanto, le Istituzioni che hanno intrapreso opere di codificazione nei seguenti settori hanno preferito non affrontare direttamente il problema, lasciandolo in uno stato di incertezza, protrattosi sino ad oggi.

Ed infatti, già a partire dal secolo scorso, gli studiosi del diritto internazionale pubblico non hanno mancato di ricordare l’incertezza che caratterizza questo argomento. Negli anni ’20 dello scorso secolo, ad esempio, Sir Cecil HURST osservava che “there are few questions upon which people concerned with the practical application of the rules of international law find the textbooks less helpful than that of the effect of war upon treaties in force between belligerents. Both the practice of States, as exemplified in the treaties of peace, and the pronouncements of statesmen appear to conflict with the principles laid down by textbooks”3.

Qualche decennio più tardi, poi, LAUTERPACHT faceva notare che – nonostante pochi studiosi ritenessero ancora che lo scoppio di una guerra provocasse un’estinzione ipso facto dei trattati previgenti tra i belligeranti – la maggior parte della dottrina aveva ormai superato tale linea di pensiero a favore dell’idea che la guerra non causasse indistintamente l’estinzione di ogni trattato: nonostante ciò, però, forse anche a causa dell’inesistenza di una prassi uniforme sull’argomento, non si riusciva ad ottenere una visione unanime o quantomeno

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2 Con riferimento alla discussa riconducibilità della problematica in questione al

diritto bellico o al diritto dei trattati, v. infra Cap. 4, par. 1.

(9)

largamente condivisa. All’Autore, dunque, non restava che prendere atto che la questione risultasse ancora priva di soluzione4.

Tale incertezza circa gli effetti dei conflitti armati sui trattati, pertanto, si è protratta sino ai giorni nostri: nel 2000, AUST evidenziava la mancanza di idee univoche sull’argomento, tenuto conto anche del fatto che – come avremo modo di constatare in maniera più approfondita5 – anche la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati tra gli Stati si è ben guardata dal disciplinare la questione6; dal suo art. 73, infatti, si evince che gli effetti della guerra sui trattati non rientrano nello scopo di tale strumento e, pertanto, non si è provveduto a predisporre una regolamentazione specifica.

Tra l’altro, come verrà chiarito nel prosieguo, quanto emerge dalla giurisprudenza e dalla prassi, stanti le divergenze che ne sono risultate, certamente non aiuta chi si propone l’obiettivo di indagare sull’esistenza o meno di norme consuetudinarie su tale tematica. Anzi,

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4 Cfr. OPPENHEIM L., International Law. A Treatise, (ed. H. LAUTERPACHT),

Londra-New York-Toronto, 1952, pp. 302-303. L’A., infatti, precisa che “the doctrine was formerly held, and is even nowadays held by a few writers, that the outbreak of war ipso facto cancels all treaties previously concluded between the belligerents, excepting only those concluded expecially for war. But the vast majority of modern writers on international law have abandoned this standpoint, and the opinion is pretty general that war by no means annuls every treaty. But unanimity as to what treaties are or are not cancelled by war does not exist. Neither does a uniform practice of the States exist, cases have occorred in which States have expressly declared that they considered all treaties annulled through war. Thus the whole question remains as yet unsettled”.

5 V. infra Cap. 4, par. 1.

6 Cfr. A. AUST, Modern Treaty Law and Practice, Cambridge, 2000, p. 243. L’A.,

infatti, sottolinea che “the legal effect of the outbreak of hostilities between parties to a treaty is still uncertain, and the only comprehensive treatment of the subject is now out of date. The topic is outside the scope of the Convention (art. 73), the International Law Commission having adepte the, perhaps rather high-minded, attitude that ‘in the international law of today [1966] the outbreak of hostilities between States must be considered as an entirely abnormal condition, and that the rules governing its legal consequences should not be regarded as forming part of the general rules of international law applicable in the normal relations between States’”.

(10)

negli ultimi tempi si è assistito ad un aumento del divario già esistente tra dottrina e prassi.

Tenuto conto del fatto che “the effect of war on treaties has always belonged to the problem areas of international law”7, si rendono

sempre più necessarie misure volte a pervenire ad un’opera di codificazione della materia, capace di stabilire punti di riferimento in modo da far convergere la dottrina e la giurisprudenza attorno a punti fermi. Un’attività tesa ad arrivare ad una codificazione, peraltro, è stata portata avanti dalla Commissione del diritto internazionale, la quale, dal 20018 si sta occupando di predisporre regole tese a definire la materia9. Il lavoro della Commissione, inoltre, è giunto sino all’elaborazione – nel 2011 – di una bozza di articoli sugli effetti dei conflitti armati sui trattati10.

2. La guerra nel diritto internazionale: da mezzo lecito di risoluzione delle controversie a condotta oggetto di divieto assoluto.

Un fenomeno come lo scoppio o il protrarsi di una guerra ha sempre avuto notevoli ed importanti conseguenze non solo storiche, ma anche politiche, sociali, economiche e culturali. Dall’esito di un simile conflitto, infatti, potrebbero dipendere le sorti di un intero Paese e della sua popolazione, potrebbe essere posta la parola fine ad un regime dittatoriale, potrebbe essere rovesciato un Governo legittimo, e così via. Quindi, a ben vedere, l’argomento in esame presenta

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7 Così il relatore B. BROMS, Preliminary Report to the Fifth Commission: The Effects of Armed Conflicts on Treaties, in Annuaire de l’Institut de droit international, 1981, p. 224.

8 Vedi International Law Commission, Resolution adopted by the General

Assembly, Fifty-fifth session, Report of the International Law Commission on the

work of its fifty-second session, 19 January 2001, A/RES/55/152.

9 Sui lavori condotti dalla Commissione del diritto internazionale in materia, v. infra Cap. 5, par. 1.

(11)

numerosi elementi di contatto con varie materie, tantoché si può parlare di guerra spaziando dal diritto alla storia, alla sociologia, alla psicologia.

Per quanto riguarda il diritto internazionale classico, la guerra11 ha

rappresentato un mezzo di risoluzione delle controversie lecito e molto spesso utilizzato. Si intenda però, almeno per il momento, il termine “guerra” come “un fait international”12, una mera scelta di politica estera ed allo stesso tempo un evento giuridico complesso e portatore di profondi cambiamenti13, che presuppone proprio l’intenzione di fare la guerra, cioè un animus belligerandi, il quale deve essere pertanto inteso come un elemento essenziale ed imprescindibile ai fini dell’effettiva esistenza di una “guerra”.

A partire dalla fine del XVI secolo si andò affermando tra i canonisti spagnoli la c.d. teoria della guerra giusta, secondo la quale la guerra non costituiva né un mero fatto né un incidente, bensì una semplice procedura di risoluzione di contrapposti interessi tra due o più Stati sovrani14. L’idea della guerra giusta, però, venne meno con la fine

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11 Ai fini del presente paragrafo è utile considerare la nozione di guerra in senso

ampio. Per un’analisi approfondita della definizione in questione si veda infra par. 3.

12 Così infatti, nel 1912, è stata definita la “guerra” dalla Corte Permanente di

Arbitrato nella sentenza relativa all’indennità di guerra turca contro la Russia, in

Revue générale de droit international public, 1913, p. 21.

13 Infatti, “on verra dans la guerre un phénomène de pathologie sociale, un facteur de transformation politique, l’expression la plus haute de la volonté de puissance, un attribut extrême de la souveraineté de l’Etat, etc.”. Così, C. ROUSSEAU, Le droit de conflits armés, Paris, 1983, p. 3.

14 Francisco De Vitoria ammetteva che in circostanze eccezionali si potesse

ricorrere alla guerra anche quando la colpa non è attribuibile al nemico, se l’uso della forza si dimostrasse necessario al fine di ottenere il rispetto di un diritto. Secondo tale studioso, infatti, il ricorso alla guerra sarebbe diventato ingiusto se non fosse stato proporzionato allo scopo perseguito, cioè se non vi fosse stato un corretto equilibrio tra l’uso della forza e l’utilità conseguita. Sul punto v. B. CONFORTI, The doctrine of “just war” and contemporary international law, in

Italian Yearbook of International Law, 2002, pp. 5-6. A dire il vero, però, già ai

tempi di Agostino e di Graziano si faceva riferimento al concetto di guerra giusta, nel senso che la guerra non sempre rappresenta un peccato, bensì in certi casi deve essere considerata moralmente giusta. Tale concezione risentiva chiaramente

(12)

della guerra dei trent’anni, e quindi con la Pace di Westfalia, a favore di una più complessa concezione giuridica15, anche se tale teoria, seppur con vari elementi di attenuazione e di evoluzione, verrà riconsiderata anche successivamente16.

Ed infatti, la dottrina maggioritaria ricollega convenzionalmente la nascita della comunità internazionale alla Pace di Westfalia del 1648: da tale momento, infatti, sono mutate le relazioni tra i gruppi armati combattenti, i quali hanno iniziato ad agire in rappresentanza di Stati sovrani. In altre parole, la guerra era diventata una prerogativa del sovrano. È proprio da questo momento, pertanto, che il concetto di guerra ha assunto una valenza anche giuridica, disancorandosi definitivamente da quelle concezioni puramente teologiche tipiche del periodo medievale.

Del resto, anche la dottrina tedesca, in tempi più recenti, riportandosi al pensiero kantiano, in base al quale lo stato di natura coincide con lo

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français, in Revue générale de droit international public, 1950, p. 225 ss.; nonché

J.L. KUNZ, Bellum justum and bellum legale, in American journal of international

law, 1951, p. 528 ss.

15 Cfr. H. McCOUBREY, Jurisprudential aspects of the modern law of armed conflicts, in M.A. MEYER (edited by), Armed Conflict and the new Law: aspects of the 1977 Geneva Protocols and the 1981 Weapons Convention, London, 1989,

pp. 28-33.

16 Al giorno d’oggi, comunque, il concetto di guerra giusta sembra aver perso

importanza. La distinzione tra just and unjust war, infatti, a partire dal XX° secolo è stata rifiutata e classificata come mera curiosità storica. Cfr. R. QUADRI, Diritto

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stato di guerra piuttosto che con quello di pace, essendo la natura umana profondamente viziata, ha ripreso, riadattato e sviluppato il concetto di guerra giusta, arrivando a sostenere che “not kennt kein

gebot”, cioè che la necessità non conosce legge17, offrendo quindi una

concezione decisamente più evoluta dell’argomento.

Tali concetti, inoltre, furono elaborati ulteriormente da Fichte e da Hegel, i quali erano dell’idea che la vera guerra giusta fosse solamente quella tesa a proteggere e difendere gli interessi dello Stato18. In breve, in base a questa impostazione realista, pur mantenendo l’idea di fondo di guerra giusta (rifacendosi quindi, almeno per il fondamento principale della questione, alla concezione del fenomeno bellico tipica della fine del XVI secolo), la guerra veniva intesa non come un fenomeno antigiuridico, né come un’entità al di fuori del diritto, ma proprio come creatrice del diritto stesso, e proprio per questo non suscettibile di essere regolamentata, anche se quest’ultimo postulato risulta chiaramente contraddetto dalla prassi in quanto sono sempre esistite, in ogni epoca ed in ogni luogo, regole di condotta delle ostilità19. La qualificazione di una guerra come “giusta”, quindi, non doveva più essere effettuata facendo ricorso a concetti morali (ad

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17 Già Grozio, nel suo De jure belli ac pacis del 1625 scriveva che la guerra era

quella situazione nella quale ci si confrontava con la forza delle armi.

18 “Dans l’Etat, ce sont les intérêts vitaux, les plus hautement politiques, qui déclenchen les solidarités suprêmes. […] plus on se rapproche des questions vitales […] moins la communauté exerce d’action sur ses membres”. Si veda C.

DE VISSCHER, Théories et réalités en droit internationl public, Paris, 1970, p. 112.

19 Si veda appunto R. KOLB, Ius in bello, le droit international des conflits armés,

Bruxelles, 2003, p. 14 ss. Basti pensare che già dall’epoca feudale alcuni codici militari si preoccupavano di prevedere esemplari punizioni per i membri appartenenti ad uno schieramento, i quali si fossero resi responsabili di quelli che oggi sono comunemente detti crimini contro l’umanità. Molti Stati, inoltre, come l’Inghilterra, la Svizzera e la Germania, già dal XVII secolo si dotarono di codici regolanti appunto il comportamento delle forze armate combattenti, i quali prevedevano espliciti divieti come ad esempio quello di commettere barbarie nei confronti dei nemici catturati o più semplicemente come quello di non intraprendere, in mancanza di autorizzazione di un superiore, azioni individuali contro il nemico.

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esempio il fatto che il conflitto fosse teso a ristabilire la pace20) ma, possedendo ogni Stato sovrano la prerogativa di ricorrere alla guerra per regolare i propri interessi, si doveva badare esclusivamente agli interessi stessi dello Stato: se questi ultimi, infatti, avessero rappresentato la causa scatenante l’entrata in guerra di uno Stato, allora la guerra avrebbe dovuto essere ritenuta sempre giusta.

A fronte di simili concezioni della guerra, tendenti quindi ad affermare e considerare proprio gli effetti distruttivi, cioè quelli che tendono a mutare con la forza, in nome della sovranità statale, lo

status quo ante, di un conflitto armato, è necessario prendere in

considerazione i numerosi eventi innovativi che hanno riguardato il XVIII ed il XIX secolo e che hanno certamente finito per influire sul modo di intendere la guerra all’interno della comunità internazionale. È ovvio, del resto, che qualsiasi concetto è destinato a mutare in conseguenza dell’evolversi della storia, del progresso tecnico e dei cambiamenti socio-culturali. Senza dubbio, infatti, eventi importanti come la Rivoluzione francese del 1789, la quale provocò forti mutamenti politici, sociali e culturali, il susseguente avvento del periodo illuminista, e quindi il pensiero kantiano sopra riportato, nonché la rivoluzione industriale, hanno finito, anche se non a breve termine, per incidere notevolmente sul modo di concepire il ricorso alla guerra ed i suoi effetti, non solo verso gli Stati sovrani ma anche verso i sudditi, cioè gli individui: con il passare del tempo, infatti, si è assistito anche al conseguente miglioramento ed ammodernamento ad esempio degli armamenti, delle strategie, dell’estensione dei conflitti, etc. Pertanto, in uno scenario del genere è ovvio che siano mutati, di pari passo, anche il diritto di guerra e il modo di concepire la guerra stessa. Nella seconda metà dell’800 – benché la teoria giusnaturalistica della guerra giusta fosse venuta progressivamente

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20 Sant’Agostino, ad esempio, riteneva che il fine principale della guerra fosse la

pace. Sul punto si veda V. HRABAR, La doctrine de droit international chez Saint

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meno21 – si iniziò a comprendere realmente gli effetti deleteri e talvolta distruttivi dei conflitti armati tantoché, a partire da tale momento, “le terme guerre est devenu suspect à cause du

développement d’un droit international contre la guerre (ius contra

bellum) cherchant à proscrire toute utilisation de la force par des

Etats dans les relations internationales”22. Del resto, questo è il periodo in cui si svilupparono le prime codificazioni23, in cui è nato il c.d. diritto dei conflitti armati moderno, nonché il diritto umanitario (a dimostrazione del fatto che non si considera l’impatto e gli effetti di una guerra solo nei confronti dei partecipanti al conflitto, ma anche della popolazione civile): quindi, il XIX secolo è stata un’epoca di forte cambiamento del modo di concepire il conflitto armato e i suoi effetti.

Con il passare del tempo, si rendeva pertanto sempre più necessaria un’opera tesa a garantire regole certe per scongiurare gli effetti negativi del ricorso alla guerra come metodo di risoluzione delle controversie: il fine ultimo era appunto il mantenimento della pace nelle relazioni tra Stati. A tale scopo, su iniziativa dello Zar Nicola II di Russia, nel 1899 si svolse la prima Conferenza dell’Aja, alla quale parteciparono 26 Stati, che portò all’adozione di tre convenzioni (una sul regolamento pacifico delle controversie, una sulla guerra terrestre e una sulla guerra marittima). Nel 1907, peraltro, si svolse una conferenza di revisione delle suddette convenzioni (in questo caso gli

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21 Il ricorso alla guerra, infatti, era considerato lecito a prescindere dalla giustezza

in termini di bellum justum. Del resto, “il diritto internazionale applicabile ai conflitti armati non discriminava il belligerante <giusto> da quello <ingiusto> e si imponeva ugualmente ad entrambi quale che fosse la causa, più o meno legittima, del ricorso alle armi”. Così C. FOCARELLI, Introduzione storica al diritto

internazionale, Milano, 2012, p. 261.

22 Così R. KOLB, Ius in bello, le droit international des conflits armés, cit., pp.

9-10.

23 La prima convenzione, in questo senso, è la Convenzione di Ginevra del 22

agosto 1864 per il miglioramento della sorte dei feriti in campagna, atto tra l’altro adottato a seguito della battaglia di Solferino del 1859 ed istitutivo del movimento della Croce Rossa.

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Stati partecipanti furono 44) che sfociò nell’adozione di 10 nuovi strumenti, i quali rappresentavano la prima codificazione generale del diritto dei conflitti armati. Tali Conferenze, peraltro, hanno giocato un ruolo importante nello sviluppo del moderno ius in bello24.

Le debolezze di un simile assetto, comunque, non si fecero certo attendere: pochi anni più tardi, infatti, scoppiò la prima guerra mondiale, la quale, a confronto dei precedenti conflitti armati, aventi un’estensione se non locale, quantomeno limitata25, ha avuto effetti devastanti: i morti, infatti, raggiunsero la drammatica cifra di 13 milioni.

2.1. Il Patto della Società delle Nazioni.

La “grande guerra” ha sicuramente rappresentato un punto di rottura rispetto al passato: le profonde innovazioni tecnologiche, accompagnate dall’invenzione di nuove armi e dall’utilizzo degli aerei da guerra hanno finito per rendere il diritto dei conflitti armati fino a quel momento esistente troppo debole ed incapace di svolgere la propria funzione precipua, cioè il mantenimento della pace. Il concetto di “guerra” subì, di conseguenza, una fondamentale evoluzione a tal punto che si iniziò a parlare della c.d. guerra totale26, cioè di un conflitto con un campo di estensione talmente ampio da poter

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24 “The Hague Peace Conferences played an important role in the development of

the modern jus in bello and much of their work remains relevant today”. Così H.

McCOUBREY, N.D. WHITE, International law and armed conflict, Aldershot, 1992, p. 220.

25 “Many nineteenth-century wars were limited in scope and, at most, of marginal ideological significance”. H. McCOUBREY, N.D. WHITE, International law and armed conflict, cit., p. 216.

26 Sul punto si veda J.G. CASTEL, International Law – Effect of War on Bilateral Treaties – Comparative Study, in Michigan Law Review, 1953, p. 566 ss. L’A.

sottolinea che sarebbe del tutto erroneo considerare il fenomeno della guerra come “only a struggle between organized forces of different States temporarily disturbing the international order without questioning it”; nonché B. SMYRNIADIS, Le sort,

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comprendere anche tutto il globo (si pensi che alla prima guerra mondiale presero parte 38 Stati, cosa che fino a quel tempo non era mai avvenuta). Nonostante ciò, si comprese anche la ormai stringente necessità di prevedere strumenti di diritto positivo idonei ad evitare futuri ricorsi a guerre di questo tipo, tantoché, nel 1919 venne adottato il Patto costitutivo della Società delle Nazioni27, meglio noto come

Covenant, il quale proponeva la creazione di un’organizzazione

intergovernativa con lo scopo di creare un filtro prima di arrivare all’uso della violenza ed al ricorso alla guerra. Anche se non prevedeva un divieto assoluto di ricorrere alla guerra, tale strumento si proponeva, quantomeno di limitare drasticamente i casi in cui essa potesse essere impiegata legittimamente28.

L’obiettivo principale, infatti, era proprio quello di salvaguardare la pace tra le Nazioni29, ammettendo il ricorso alla guerra solamente come extrema ratio. Gli Stati Membri, pertanto, erano obbligati non solo a rispettare l’integrità territoriale e l’indipendenza politica degli altri Membri (art. 10), ma anche a risolvere le controversie internazionali in modo pacifico: vi era uno specifico obbligo di sottoporre le controversie a regolamenti arbitrali o giudiziali, o al Consiglio della Società delle Nazioni, e nei tre mesi successivi alla decisione era proibito ricorrere alle armi (c.d. meccanismo del cooling

off)30. Lo stesso ricorso alle armi era vietato nel caso in cui uno Stato si fosse conformato o al lodo arbitrale, o alla decisione giudiziale,

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27 Il Patto istitutivo della Società delle Nazioni venne alla luce nell’ambito della

Conferenza di Pace di Parigi del 1919-1920 (entrato in vigore il 10 gennaio 1920) e fu inserito nella prima parte del Trattato di Versailles del 1919. Per un’analisi approfondita di tale strumento si veda J. RAY, Commentaire du Pacte de la Société

des Nations, Paris, 1930, p. 73 e ss; nonché Q. WRIGHT, Effects of the League of Nations Covenant, in American Political Science Review, 1919, p. 556 ss.

28 In questo senso v. S. NEEF, War and the Law of Nations, Cambridge, 2005, p.

293.

29 Tale Patto riproduce il Capitolo I del Trattato di Versailles, il quale pose fine alla

prima guerra mondiale.

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oppure alla relazione del Consiglio, purché presa all’unanimità (art. 15 par. 6).

Ad ogni modo, per gli Stati membri che, violando quanto disposto dagli articoli 12, 13 e 15, facessero ricorso alla guerra, il Patto della Società delle Nazioni aveva previsto la possibilità di adottare misure sanzionatorie. In base all’art. 16, infatti, tali Stati venivano automaticamente considerati responsabili di un atto di guerra contro tutti gli altri Membri. La conseguenza di ciò, peraltro, era l’interruzione immediata di ogni relazione tra gli Stati membri e lo Stato che aveva posto in essere la predetta violazione. Ciò si risolveva, quindi, nella cessazione delle relazioni commerciali, finanziarie, economiche, anche nei confronti dei cittadini di tale Stato. Oltre a ciò, comunque, era stata prevista la possibilità per il Consiglio di raccomandare agli Stati membri di mettere a disposizione forze armate al fine di far rispettare gli obblighi sanciti nel Patto. I membri di tali forze armate, a tal scopo, avrebbero potuto circolare liberamente in tutto il territorio degli Stati membri.

Quindi, alla luce di quanto esposto, nonostante il Patto avesse spostato l’attenzione della comunità internazionale dallo ius in bello allo ius

contra bellum, il ricorso alla guerra non risultava vietato tout court, né

i procedimenti di autotutela violenta erano banditi (ad esempio le rappresaglie armate erano considerate lecite), ma il tutto era subordinato al rispetto ed all’esistenza delle suddette condizioni.

2.2. Il Patto Kellogg – Briand.

Non ci volle molto tempo, però, per capire che un simile assetto, nonostante il lodevole sforzo degli Stati parti, non era certamente adeguato per i fini che gli Stati si erano preposti e si intuì subito la necessità di porre in essere più incisivi strumenti internazionali volti a limitare il più possibile il ricorso, da parte degli Stati, a conflitti armati di aggressione.

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È proprio per questo motivo, infatti, che nove anni più tardi il Ministro degli affari esteri francese Briand ed il segretario di Stato americano Kellogg avviarono i negoziati che portarono all’adozione di uno strumento che si dimostrasse in grado di prevedere, rispetto ai trattati precedentemente stipulati, un più incisivo divieto di ricorrere alla guerra. È così, infatti, che il 27 agosto 1928 è stato stipulato il c.d. Patto Kellogg-Briand31 o Patto di Parigi.

Con i soli tre articoli nei quali si snodava tale strumento, i 15 Stati firmatari32 si impegnarono dunque a rinunciare alla guerra come strumento di politica nazionale (art. 1) e ne condannarono l’utilizzo al fine della risoluzione delle controversie, ammettendo quindi solamente i mezzi pacifici (art. 2)33. Simili statuizioni, benché rappresentassero un notevole salto di qualità rispetto al precedente

Covenant, lasciavano adito a critiche: il Patto, infatti, proibiva il

ricorso alla guerra, ma niente affermava riguardo alle misure vicine alla guerra, come ad esempio le rappresaglie armate, le quali, pertanto, dovevano essere ritenute lecite.

Del resto, sulla scia di tale strumento, anche la c.d. dottrina Stimson – affermatasi negli anni trenta – ha posto come proprio fondamento il divieto del ricorso alla guerra stabilito dal Patto di Parigi: tale dottrina, infatti, facendo leva sul principio ex injuria jus non oritur, consisteva nel mancato riconoscimento delle situazioni territoriali sostanziatesi in violazione dei principi affermati nel predetto strumento.

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31 Il testo del Trattato si può reperire in Revue générale de droit international public, 1928, pp. 683-684. Si veda, inoltre, F. VANDY, Le pacte Kellogg, in Revue générale de droit international public, 1930, p. 5 ss.

32 Gli Stati firmatari del Patto di Parigi furono: Australia, Belgio, Canada,

Cecoslovacchia, Francia, Germania, Giappone, India, Italia, Nuova Zelanda, Polonia, Regno Unito, Stati Uniti, Stato libero d’Irlanda, Unione del Sudafrica,

33 L’art. 3, invece, riguardava la ratifica di tale Patto da parte degli Stati firmatari,

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2.3. Le debolezze intrinseche di tali trattati.

Nonostante i vari tentativi (peraltro non andati a buon fine) di porre in essere una revisione volta alla reciproca armonizzazione del Covenant e del Patto di Parigi34, si può affermare con certezza che tali strumenti

non si sono rivelati capaci di raggiungere gli obiettivi fissati: si pensi, ad esempio, che nessuno dei due Trattati in questione forniva una definizione di guerra o di aggressione, tantomeno di legittima difesa. Il fatto, quindi, che sia il Patto istitutivo della Società delle Nazioni, che il Patto di Parigi furono stati ripetutamente violati ad opera di alcuni Stati, dimostrò ben presto – e definitivamente – che gli stessi non erano stati in grado di garantire la pace e la sicurezza internazionale.

Per quanto riguarda il Covenant, è opportuno innanzitutto sottolineare che tale strumento da un lato vietava (in maniera non assoluta) il ricorso alla guerra; dall’altro, nulla stabiliva in merito alle misure vicine alla guerra e alla minaccia della guerra.

Ulteriore contraddizione consisteva nel fatto che non era interdetto in maniera assoluta il ricorso alla guerra, ma erano previste eccezioni. In base all’articolo 12 del Patto, infatti, agli Stati membri era vietato ricorrere alla guerra prima che fossero passati tre mesi dall’emanazione del lodo arbitrale che decideva le controversie suscettibili di condurre ad una rottura; una volta trascorsi tre mesi, però, gli Stati erano liberi di muovere guerra senza limitazioni. Un’altra eccezione era rappresentata dal dominio riservato: agli Stati membri, infatti, al fine di risolvere le questioni attinenti, a parere del Consiglio, al domino riservato, non era vietato il ricorso alla guerra (art. 15 par. 8).

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34 Su tali tentativi si veda, su tutti, C.P. ANDERSON, Harmonizing the League Covenant with the Peace Pact, in American Journal of International Law, 1933, p.

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I predetti aspetti problematici di tale Patto, tra l’altro, sono stati aggravati sia dalla mancata partecipazione degli Stati Uniti, benché fossero stati promotori, sia dal recesso di vari Stati, tra i quali la Spagna, la Germania, il Giappone ed il Brasile35.

I rilievi mossi con riguardo al Patto istitutivo della Società delle Nazioni possono essere in gran parte ripetuti anche con riferimento al Patto Briand-Kellogg. Anche da quest’ultimo, infatti, risultava possibile desumere circostanze in presenza delle quali il ricorso alla violenza bellica restava lecito. Da un lato, già dal preambolo emergeva la liceità della guerra nei confronti dello Stato membro che avesse posto in essere una violazione del Patto stesso36; dall’altro, tale accordo niente stabiliva riguardo alle misure vicine alla guerra e alla minaccia di ricorrere al conflitto armato, le quali, di conseguenza, dovevano considerarsi lecite.

Tra l’altro, il divieto dell’uso della forza riguardava solamente le relazioni intercorrenti tra gli Stati contraenti, mentre non erano citati i rapporti con i Paesi non contraenti. Da ciò, pertanto, si desume che gli Stati membri fossero liberi di gestire, senza venir meno agli impegni assunti con la sottoscrizione del predetto strumento, le proprie relazioni con quelli non contraenti, anche ricorrendo alla violenza bellica. Del pari, le norme del Patto di Parigi lasciavano aperta la possibilità per gli Stati di ricorrere, lecitamente, ad una c.d. guerra di sanzione: cioè un’azione collettiva tesa all’imposizione del rispetto degli obblighi derivanti dalla sottoscrizione di trattati internazionali37. Del resto, il ricorso alla guerra risultava essere lecito anche nel caso in cui uno Stato facesse ricorso all’uso della forza in legittima difesa. Il

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35 Sul punto si veda C. FENWICK, The Fulfilment of Obligations as a Condition of Withdrawal from the League of Nations, in American Journal of International Law,

1933, p. 516 ss.

36 In tal senso si veda I. BROWNLIE, International law and the Use of Force by

States, Oxford, 1963, p. 90 ss.

37 Vedi G. BALLADORE PALLIERI, La guerra, Padova, 1935, p. 102 ss; nonché

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diritto a reagire in legittima difesa, infatti, costituiva (e costituisce ancor’oggi) un’eccezione al divieto dell’uso della forza38. Per questo, ogni Stato è libero – in presenza delle condizioni previste dall’art. 51 CNU – di difendere il proprio territorio da aggressioni armate da parte di altri Paesi.

Un esempio lampante della concreta inefficacia ed incapacità della Società delle Nazioni di prevenire le aggressioni delle Potenze aderenti può essere rinvenuto nella guerra tra Italia ed Etiopia39. L’attacco italiano del 1935 all’Etiopia, infatti, costituiva una violazione dell’art. 16 dello Statuto della Società delle Nazioni40. Nell’ottobre dello stesso anno, il Consiglio della Società delle Nazioni condannò tale attacco e venne istituito un comitato di 18 membri al fine di individuare le sanzioni da adottare nei confronti dell’Italia, le quali entrarono in vigore nel mese successivo. Le sanzioni, approvate da 50 Stati41, consistevano in un embargo economico e delle armi e in un boicottaggio dell’esportazione all’estero di prodotti italiani42. Benché la partecipazione a tali sanzioni fosse obbligatoria per gli Stati parti della Società delle Nazioni, le stesse si rivelarono totalmente inefficaci in quanto molti Stati, pur avendo votato a favore delle stesse, di fatto – continuando ad intrattenere rapporti con l’Italia – non ne rispettarono il contenuto. Nonostante l’inefficacia di tali sanzioni, è

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38 Così L. OPPENHEIM, International Law. A Treatise, cit., p. 187.

39 Per un’approfondita analisi della questione si veda J.H. SPENCER, The Italian-Ethiopian Dispute and the League of Nations, in American Journal of International Law, 1937, pp. 614 ss.

40 L’art. 16 disponeva che “se un membro della Lega ricorre alla guerra,

infrangendo quanto stipulato negli articoli XII, XIII e XV, sarà giudicato ipso facto come se avesse commesso un atto di guerra contro tutti i membri della Lega, che qui prendono impegno di sottoporlo alla rottura immediata di tutte le relazioni commerciali e finanziarie, alla proibizioni di relazioni tra i cittadini propri e quelli della nazione che infrange il patto, e all'astensione di ogni relazione finanziaria, commerciale o personale tra i cittadini della nazione violatrice del patto e i cittadini di qualsiasi altro paese, membro della Lega o no”.

41 Si astennero Austria, Ungheria ed Albania.

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opportuno mettere in luce anche il ritardo con cui l’azione della Società delle Nazioni fu portata avanti: tale ritardo, infatti, non fu dovuto alla complessità delle procedure, bensì all’incapacità di porre in essere tentativi di risoluzione della controversia43.

La presa di coscienza dell’incapacità effettiva di tali strumenti internazionali, per concludere, avvenne a seguito dello scoppio della seconda guerra mondiale, la quale si dimostrò molto più sanguinosa e catastrofica della prima: questa era la prova evidente che i due trattati avevano fallito44.

2.4. L’evoluzione successiva alla seconda guerra mondiale.

Il progresso tecnologico si era certamente sviluppato nel corso degli anni e gli effetti politici, sociali, economici e culturali del secondo conflitto mondiale rappresentarono un motivo di allarme, nonché un impulso ai fini dell’adozione di uno strumento veramente capace di promuovere la soluzione pacifica delle controversie45. Se, nei secoli precedenti, la libertà di muover guerra rappresentava una prerogativa per gli Stati, ed era dunque la regola46, lo stesso non può dirsi per il

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43 Cfr. J.H. SPENCER, The Italian-Ethiopian Dispute and the League of Nations,

cit., pp. 640-641.

44 Si pensi che, vista l’incapacità di questi strumenti di assicurare effettivamente la

pace e la sicurezza tra gli Stati, alcuni Paesi percorsero una via più sicura, e cioè il ricorso ad accordi bilaterali o multilaterali regolanti appunto le relazioni tra Stati nonché il diritto di ricorrere alle armi. A mero titolo esemplificativo, basti pensare al Patto di Locarno del 1925 concluso tra Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna ed Italia. A tal proposito si veda C. FENWICK, The Legal Significance of

the Locarno Agreements, in American Journal of International Law, 1926, p. 108

ss.

45 Cfr. B. CONFORTI, The doctrine of “just war” and contemporary international

law, cit., p. 8.

46 Gli Stati, infatti, potevano ricorrere alla guerra per una buona ragione, per una

cattiva ragione, o addirittura pur in assenza di qualsiasi ragione. Così H.W. BRIGGS, The Law of Nations, New York, 1952, p. 976. Cfr. inoltre B. BRESCHI,

La guerra nella dottrina positiva del diritto internazionale, in Rivista di diritto internazionale, 1916, p. 196. L’A., infatti, riconosce la facoltà di muover guerra

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periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale ai giorni nostri. Secondo la totalità della dottrina47 e degli strumenti di codificazione che verranno analizzati, infatti, il ricorso alla guerra avrebbe dovuto essere considerato non assoluto, ma derogabile soltanto in ipotesi tassativamente individuate.

Le stragi perpetrate dal regime nazista avevano sicuramente scosso la comunità internazionale tantoché si capirono appieno le conseguenze di un conflitto armato e la necessità, ormai non più rimandabile, di assicurare la pace tra le Nazioni. Subito dopo la fine della guerra, infatti, furono siglati vari trattati tra cui l’Accordo di Londra del 1945, istitutivo del Tribunale di Norimberga, lo Statuto delle Nazioni Unite del 1945, firmato a San Francisco ed istitutivo appunto delle Nazioni Unite, e le c.d. quattro Convenzioni di Ginevra del 1949.

Per quanto riguarda il primo accordo, infatti, il Tribunale Militare Internazionale di Norimberga definì la guerra come “the supreme

international crime […] in that it contains within itself the accumulated evil of the whole”48: si comprese pertanto, e definitivamente, che la guerra rappresentava un male assoluto e che i suoi effetti erano tanto devastanti quanto irreparabili. Si voleva, allora, salvare le generazioni future dal ricorso ad un’altra guerra in quanto i due precedenti conflitti mondiali avevano causato indicibili sofferenze per l’umanità49.

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47 Secondo KELSEN, ad esempio, la guerra era permessa solamente come reazione

ad un atto illegale, un delitto, e poteva essere mossa solo contro lo Stato responsabile di tale delitto. Secondo l’A., infatti, la guerra può dirsi lecita solo quando costituisca una sanzione contro una violazione del diritto internazionale ad opera dello Stato opponente. Cfr. H. KELSEN, General Theory of Law and State, Cambridge, 1945, p. 331.

48 Così International Military Tribunal of Nuremberg, HMSO, Cmd 6964, 1946.

Per un’analisi approfondita su tale pronuncia si veda AA.VV., Le proces de

Nuremberg, Bruxelles, 1988.

49 Si veda a proposito L.C. GREEN, The contemporary law of armed conflict,

Manchester, 2000, pp. 8-9. L’Autore sottolinea, infatti, la necessità di prevenire qualsiasi “scourge of war, which twice in our lifetime has brought untold sorrow to

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A seguito delle Conferenze di Dumbarton Oaks50 (1944) e Yalta51 (1945) prima, e di San Francisco (1945) poi, invece, memori del secondo conflitto mondiale, gli Stati che vi parteciparono - con l’obiettivo di garantire una pace duratura tra i popoli52 - dettero vita ad

una nuova organizzazione internazionale: le Nazioni Unite. Nel preambolo della Carta delle Nazioni Unite53 (lo statuto di tale organizzazione internazionale), infatti, traspare già l’obiettivo principale al quale tende tale strumento: ossia salvare le future generazioni dal flagello della guerra.

La portata innovativa di tale strumento è consistita nel fatto di aver da un lato posto il divieto assoluto di minaccia e uso della forza; dall’altro, di aver creato un sistema di sicurezza collettiva (teoricamente) in grado di stabilire efficaci sanzioni contro gli Stati che violino gli obblighi ivi previsti.

Per quanto riguarda il primo aspetto, nel concetto di forza armata sono comprese, a differenza dei Patti precedentemente posti in essere, la guerra e le misure vicine alla guerra, nonché la minaccia di quest’ultima. Peraltro, il divieto di ricorrere alla forza armata ha carattere assoluto ed impone agli Stati di astenersi dal ricorrere alla

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50 Sulla Conferenza di Dumbarton Oaks si veda E.M. BORCHARD, The

Dumbarton Oaks Conference, in American Journal of International Law, 1945, p.

97 ss; E.R. STETTINIUS, What the Dumbarton Oaks Peace Plan means, Washington, 1945.

51 Sulla Conferenza di Yalta si veda E.R. STETTINIUS, W. JOHNSON, Roosvelt

and the Russians: the Yalta Conference, New York, 1949.

52 Per comprendere i fini delle Nazioni Unite, basti leggere l’art. 1 (parr. 1 - 4)

dello Statuto, il quale mette subito in evidenza che uno dei fini è il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

53 Sulla Carta delle Nazioni Unite si veda B. CONFORTI, C. FOCARELLI, Le Nazioni Unite, Milano, 2012; R. KOLB, Introduction au droit des Nations Unies,

Bale-Bruxelles, 2008; S. MARCHISIO, L’ONU. Il diritto delle Nazioni Unite, Bologna, 2000; R AGO, L’organizzazione internazionale dalla Società delle

Nazioni alle Nazioni Unite, in La Comunità internazionale, 1946, p. 5 ss; R.

RUSSEL, A History of United Nation Charter, Washington, 1958. Successivamente all’entrata in vigore dello Statuto delle Nazioni Unite, il Patto della Società delle Nazioni si estinse, mentre il c.d. Patto Kellogg-Briand è rimasto in vigore e tutt’oggi coesiste con la Carta delle Nazioni Unite.

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violenza non solo nei confronti degli altri Stati membri, ma anche verso quelli non contraenti. Ed infatti, la Carta delle Nazioni Unite contiene una disposizione fondamentale al predetto scopo: l’art. 2 par. 454, il quale impone agli Stati Membri di “astenersi nelle loro

relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini dell'ONU”. Riprendendo, quindi, l’art. 10 del Covenant (nel quale

veniva già citata la sovranità territoriale, cioè l’integrità territoriale e l’indipendenza politica), l’intento di una formula così ampia era quello di sgomberare il campo da qualsiasi tipo di equivoco: “depuis 1945 [infatti] c’est le recours à la violence – ou la simple menace d’y

recourir – qui est condamné, sous quelque modalité qu’il se manifeste”55.

Già nel 1949, infatti, la Corte Internazionale di Giustizia (caso canale di Corfù56), stabilendo che la pretesa di intervento da parte del Regno Unito non trovasse la propria base giuridica all’interno del diritto internazionale, stabilì l’importanza fondamentale del principio del divieto assoluto di ricorrere (o di minacciare) alla guerra. Anni più tardi, peraltro, tale divieto è stato considerato dalla stessa Corte, nel caso Attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua57, un principio appartenente al diritto consuetudinario. Tale tesi, del resto, è stata confermata anche successivamente con il parere sulle

Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nel territorio

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54 Sull’art. 2 par. 4 CNU si veda C. GRAY, International Law and the Use of Force, Oxford, 2008; H. WEHBERG, L’interdiction du recours à la force, in Recueil des Cours de l’Académie de Droit International, 1951, I, p. 59 ss.

55 Così C. ROUSSEAU, Le droit de conflits armés, cit., p. 535.

56 International Court of Justice, Corfu Channel Case, in International Court of Justice Reports, 1949, p. 4 ss.

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palestinese occupato58. Anche la dottrina, tra l’altro, in linea con le predette statuizioni, ritiene il divieto dell’uso della forza una norma consuetudinaria in toto. Non solo, ma vi è anche chi ravvisa all’interno della stessa norma profili di jus cogens: RONZITTI, ad esempio, la reputa, almeno nel suo nucleo fondamentale – individuato nel divieto di aggressione59 – proprio una norma appartenente allo jus

cogens, e quindi sovraordinata60.

Sennonché, dal generale ed assoluto divieto di ricorso (o minaccia) alla guerra residuano due importanti eccezioni. Innanzitutto, ogni Stato resta libero – stante la presenza dei requisiti e condizioni previsti dall’art. 51 CNU61 – di autotutelarsi in legittima difesa, anche collettiva, finché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie al fine di assicurare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. L’altra eccezione, invece, più remota nella prassi, è rappresentata dalla possibilità di porre in essere azioni militari nei confronti degli “Stati nemici” (artt. 53 e 107 CNU).

Per quanto riguarda invece il sistema di sicurezza collettiva, l’impianto normativo delle Nazioni Unite cercava di rendere difficile ed illecito il ricorso unilaterale alla forza da parte dei singoli Stati, istituendo allo stesso tempo il Consiglio di Sicurezza, un organo a composizione ristretta interno alle NU, al quale è stato assegnato l’importante compito di mantenere la pace e la sicurezza

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58 International Court of Justice, Advisory Opinion, Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory, in International Court of Justice Reports, 2004, p. 136 ss.

59 A dire il vero, però, sembra che il divieto di aggressione rappresentasse una

norma di diritto consuetudinario già prima dell’entrata in vigore dello Statuto delle Nazioni Unite: si veda appunto il sopra richiamato Accordo di Londra dell’8 agosto 1945.

60 Sul punto v. N. RONZITTI, Trattati contrari a norme imperative del diritto internazionale?, in Studi in onore di Giuseppe Sperduti, Milano, 1984, p. 220; S.

MARCHISIO, L’ONU. Il diritto delle Nazioni Unite, cit., p. 61.

61 Sull’art. 51 CNU si veda P. LAMBERTI-ZANARDI, La legittima difesa nel diritto internazionale, Milano, 1972; G. ARANGIO-RUIZ, “Difesa legittima (diritto internazionale)”, in Novissimo Digesto Italiano, 1994, p. 631 ss; Y.

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internazionale (art. 24 CNU)62. In breve, l’intento era quello di concentrare esclusivamente nelle mani di questo organo l’utilizzo della forza come mezzo di risoluzione delle controversie, vietando agli Stati non solo l’uso della forza stesso, ma anche la sua minaccia. Infatti, nei casi di violazione dell’art. 39 CNU (ossia in presenza di minaccia alla pace, violazione della pace o atto di aggressione) il Consiglio di Sicurezza ha il potere di porre in essere sanzioni non implicanti l’uso della forza ex art. 41 CNU63 (come ad es. la rottura dei rapporti diplomatici, l’interruzione delle relazioni economiche, delle comunicazioni marittime ecc.), così come adoperare la forza armata in vere e proprie azioni militari, ex art. 42 CNU64, tese a ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Queste ultime operazioni dovrebbero avvenire, come previsto dall’art. 43 CNU65, con l’apporto delle forze armate degli Stati membri. Tale aspetto

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62 Riguardo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si veda H. KELSEN, Organization and Procedure of the Security Council of the United Nations, in Harvard Law Review, 1945-46, p. 1087 ss; R. HATTO, N. LEMAY-HEBERT, Le Conseil de sécurité des Nations Unies: entre représentative et efficacité, in B.

BADIE, G. DEVIN (ed.), Le multilateralisme: nouvelles formes de l’action

internationale, Paris, 2007, p. 129 ss.

63 Sulle misure non implicanti l’uso della forza ex art. 41 CNU si veda, tra i molti,

M. GESTRI, Legal Remedies against Security Council Targeted Sanctions. “De Lege Lata” and “De Lege Ferenda” Options for Enhancing the Protection of the

Individual, in Italian Yearbook of International Law, 2007, p. 25 ss; S. TORSTEN, Too “Smart” for Legal Protection?: UN Security Council’s Targeted Sanctions and a Pladoyer for Another UN Tribunal, in H. HESTERMEYER (ed.), Coexistence, Cooperation and Solidarity: Liber Amicorum Rüdiger Wolfrum,

Leiden, 2012, p. 1527 ss; M.P. DOXEY, Economic Sanctions and International

Enforcement, London-New York, 1971.

64 Sulle sanzioni implicanti la forza armata ex art. 42 CNU si veda L.

CONDORELLI, Le azioni dell’ONU e l’applicazione del diritto internazionale

umanitario: il “Bollettino” del Segretario Generale del 6 agosto 1999, in Rivista di diritto internazionale, 1999, p. 1049 ss; D. W. BOWETT, UN Forces, London,

1964, p. 153 ss.

65 L’art. 43 par. 1 CNU, infatti, dispone che “Al fine di contribuire al

mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, tutti i Membri delle Nazioni Unite si impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza, a sua richiesta ed in conformità ad un accordo o ad accordi speciali, le forze armate, l’assistenza e le facilitazioni, compreso il diritto di passaggio, necessarie per il

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avrebbe dovuto essere meglio regolato da accordi che, peraltro, non hanno mai visto la luce, lasciando di conseguenza l’art. 43 inapplicato e privo di operatività.

Passando invece ad analizzare quanto contenuto nelle c.d. quattro Convenzioni di Ginevra, è necessario sottolineare che i milioni di morti causati dalla seconda guerra mondiale fecero capire che vittime dei conflitti armati non erano soltanto i combattenti, ma anche i c.d. civili: per questo, su iniziativa del Comitato Internazionale della Croce Rossa, vennero adottate nel 1949 le quattro Convenzioni di Ginevra66. Il c.d. diritto di Ginevra, infatti, a differenza delle precedenti convenzioni in materia, “est délibérément axé sur la protection des

personnes potentiellement victimes de la guerre”67, e focalizzava quindi la propria attenzione su tutte le vittime di una guerra, siano esse soldati o civili, tantoché si è soliti dire che il diritto dell’Aja si concentrava su chi agiva, mentre quello di Ginevra su chi subiva gli effetti della guerra. Quindi, il diritto dell’Aja può essere qualificato come il diritto dei conflitti armati, mentre quello di Ginevra ha finito per rappresentare il diritto umanitario68, anche se spesso, oggi, diritto dei conflitti armati e diritto umanitario vengono utilizzati come sinonimi69.

Alla luce di quanto sin qui riportato, dunque, è possibile affermare che soprattutto dopo la seconda guerra mondiale si è andata consolidando una mutata coscienza sociale, realmente consapevole degli effetti distruttivi di una guerra, non solo sulle persone, ma anche sull’economia e sulla politica di una Nazione. La guerra, da allora, è stata considerata un accadimento da evitare, un pericolo da scampare

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66 Per maggiori approfondimenti sulle quattro Convenzioni di Ginevra si veda G.

DRAPER, The Geneva conventions of 1949, in Recueil des Cours, 1965, I, p. 63 ss; J. TOMAN, Index of the Geneva conventions of 1949, Leyden, 1973.

67 Così R. KOLB, Ius in bello, le droit international des conflits armés, cit., p. 33. 68 Cfr. L.C. GREEN, The contemporary law of armed conflict, cit., pp. 43-53.

69 Si veda Y. DINSTEIN, The Conduct of Hostilities under the Law of

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