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L’intervento del Peninsula Shield Forces e l’importanza del Bahrein nello scacchiere

4. LO SCIISMO POLITICO E LA STORICITÀ DELL’OPPOSIZIONE IN BAHREIN: TRA COOPTAZIONE E

5.3 La risposta del regime e l’escalation della tensione: tra repressione, stallo e

5.3.4 L’intervento del Peninsula Shield Forces e l’importanza del Bahrein nello scacchiere

Come si è visto in precedenza, in occasione del terzo summit del CCG tenutosi in Bahrein nel 1982 venne sia inaugurata Pearl Roundabout – che in brevissimo tempo divenne il simbolo della coesione tra gli stati del Golfo – sia negoziata la creazione di una partnership militare tra i membri del CCG, nota come Peninsula Shield Force (PSF, in arabo Dr’a Al Jazeera). La destabilizzazione degli equilibri regionali sopraggiunta con l’imporsi della Rivoluzione iraniana del 1979 spinse il CCG a rivedere la propria politica militare, affermando, pertanto, la necessità di dar vita ad una piattaforma coordinata di difesa basata sull’idea di sicurezza collettiva.398 Un quadro di coordinamento che trovò efficacia concreta il 14 marzo del 2011, sotto l’egida del Peninsula Shield Force, quando più di mille soldati della Guardia Nazionale dell’Arabia Saudita e cinquecento poliziotti emiratini furono autorizzati ad entrare in Bahrein tramite il ponte di Re Fahd.399 Per molti cittadini sciiti, la presenza, per quanto non massiva, di forze militari saudite in territorio nazionale contribuì a rafforzare la percezione di essere sotto una vera e propria occupazione perpetuata da una coalizione sunnita. Questa prospettiva venne rinforzata dalla presenza estremamente diffusa di bandiere dell’Arabia Saudita e di manifesti inneggianti al sovrano saudita Abdullah bin Abdulaziz Al Saud posti al di fuori del parlamento del Bahrein da parte delle forze di sicurezza saudite.400

Riprendendo l’analisi di Marc Lynch, in tutto ciò «l’Arabia Saudita emerse come il centro della controrivoluzione»401 ed il suo intervento congiunto con gli Emirati Arabi Uniti, e lateralmente anche con il Kuwait, in Bahrein fornì la copertura necessaria alla monarchia degli Al Khalifa per implementare un «hard security approach»,402 basato su arresti di massa e sulla legge marziale nei confronti dei manifestanti. Come osservato criticamente da Toby Matthiesen:

«I social media, alle volte, sono un buon modo per organizzare rivoluzioni. Ma armi e carri armati sono strumenti molti efficaci per fermare le rivoluzioni, in particolar modo se, diversamente dalla Libia e dall’Egitto, i soldati sono leali al regime e la pressione internazionale sul regime resta limitata.»403

398 Khalaf, A., op. cit., pp. 265-280. 399 Ulrichsen, K. C., op. cit., pp. 1-12. 400 Matthiesen, T. (2013) op. cit., pp. 50-71.

401 Lynch, M. (2012) The Arab Uprising: The Unfinished Revolution of the New Middle East, PublicAffairs, p. 9. 402 Kinninmont, J., op. cit., p. 5.

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In questo contesto, l’intervento del PSF pose fine al tavolo negoziale avviato tra il Principe Ereditario e l’ala più dialogante dei manifestanti; in tal modo si finì non solo per arginare i moderati all’interno di ciascuno schieramento, ma anche per arrestare sostanziali capovolgimenti nella struttura politica interna del Bahrein. La profondità del coinvolgimento saudita deve esser letta tenendo a mente la rilevanza strategia che il paese ricopre all’interno della visione di politica estera regionale definita dalla monarchia degli Al Sa’ud. Nello specifico, il Bahrein, a causa della sua composizione demografica marcatamente sciita e della sua storica tradizione di attivismo politico, rappresenta «l’anello debole»404 del Golfo capace di offrire margini di intervento all’influenza iraniana.405

Le ragioni alla base dell’intervento a guida saudita sono riconducibili ad una pluralità di fattori che coinvolgono trasversalmente aspetti politici, economici e securitari. Il comune denominatore viene indentificato da Mohammed Nuruzzaman nella «necessità di autoconservazione»406 , ovvero la determinazione da parte del regime saudita di garantire la salvaguardia del proprio status quo in ciascuno degli aspetti sovra citati.

Per quanto concerne l’ambito politico, l’autoconservazione si concretizza nella volontà di impedire il rischio di innescare degli «spill-over effects»407 delle proteste popolari, in altre parole il rischio di un loro progressivo espandersi all’intera Penisola Arabica con il corrispettivo impatto destabilizzante per le altre monarchie del Golfo. Nello specifico, la prossimità geografica tra il Bahrein e la Provincia Orientale saudita, notoriamente conosciuta per la sua forte componente demografica sciita, creava le condizioni per cui le proteste potessero facilmente estendersi in una regione particolarmente critica agli occhi del regime saudita.408 Tra gli elementi che hanno influito nell’orientare l’intervento del CCG, gli aspetti economici hanno ricoperto un ruolo fondamentale. La stretta interconnettività economica tra Bahrein ed Arabia Saudita trova forza tanto nel settore petrolifero quanto nei settori del turismo, dell’edilizia e dei progetti di sviluppo, il cui valore annuo supera il miliardo di dollari statunitensi. Andando nello specifico, si può evidenziare come più del 70% dei turisti che su

404 Ibid.

405 Ivi., pp. 50-71.

406 Nuruzzaman, M. (2013) Politics, Economics and Saudi Military Intervention in Bahrain, Journal of Contemporary Asia, 43:2, p. 364.

407 Ivi., p. 370.

408 Louër, L. (2014) The State and Sectarian Identities in the Persian Gulf Monarchies, in Sectarian Politics in the Persian Gulf edited by L. G. Potter, Oxford University Press, pp. 117-142.

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base annua si recano in Bahrein siano di nazionalità saudita e come, nel 2008, più dell’85% delle importazioni intra-CCG del Bahrein provenissero dall’Arabia Saudita. Inoltre, il mercato finanziario di Manama rappresenta, insieme a Dubai, uno dei principali hub d’investimento dei capitali sauditi. Ritornando alla cooperazione economica costruita sul settore petrolifero, quest’ultima si realizza sia riguardo i processi di raffinazione, basti pensare che più dell’80% del greggio processato dalla raffineria BAPCO di Sitrah arriva dall’Arabia Saudita,409 sia riguardo la produzione in sé. In merito, il giacimento offshore di Abu Safah, che produce circa il 70% della rendita petrolifera del Bahrein e che costituisce pressoché l’80% della sua produzione totale, è in concessione all’Arabia Saudita che ne detiene inoltre la titolarità al 50%.410 In sintesi:

«La possibilità di perdere il controllo dei giacimenti, dei terminal petroliferi e degli impianti di lavorazione del greggio, la perdita dei progetti di investimento presenti e futuri, la riduzione delle opportunità di business per le ditte d’affari e le società saudite nella sotto-regione del Golfo […] son stati dei fattori veramente decisivi dietro la decisione saudita di inviare le truppe in Bahrein»411

Dal punto di vista della sicurezza, la coniugazione di una monarchia sunnita forte con la presenza della 5° Flotta statunitense a Manama, rappresentava secondo la monarchia Al Sa’ud il miglior deterrente per far fronte alla minaccia, realistica o presunta, dell’espansionismo iraniano. Pertanto, alle ragioni sopra evidenziate, si aggiunge quella di una «Iran-phobia»412 dove i cittadini di fede sciita all’interno di ciascuno stato perdono la loro identità nazionale per essere etichettati come degli agenti esterni, la cui lealtà è rivolta unicamente alla triade sciismo, Iran e velayat-e faqih.413