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Capitolo 2 La metodologia e i signifi cati dell’intervento

4.3 L’intervento secondo gli operatori

4.3.1 La costruzione dell’intervento

Secondo gli operatori, laddove appariva evidente una ripartizione disuguale del- l’accesso alla comunicazione, l’intervento promozionale avrebbe dovuto creare si- tuazioni di empowerment, volte a promuovere la destabilizzazione nelle relazioni abituali, incrementando la capacità espressiva dei più deboli. Al contrario, nei gruppi in cui si fosse affermata una partecipazione meno asimmetrica e una forma comu- nicativa meno problematica, l’intervento avrebbe dovuto proporre forme di provo-

cazione, orientate a far emergere visioni diverse e nuove dei contenuti o delle rela-

zioni:

Op 3: “Ad esempio in un caso che ritengo molto interessante che è stato il grup- petto di San Martino in Rio abbiamo iniziato nella classe con una bimba in un grup- petto in particolare che faceva tutto lei, faceva tutto la bimba e il primo giorno ho detto agli altri partecipanti al gruppetto: ‘Ma a voi va bene che decida tutto lei?’ e nessuno ha detto niente, sì, sì a noi va bene, anzi prima ha risposto lei, sì, sì a loro va bene, poi loro rispondono, sì a noi va bene. Siamo arrivati al secondo incontro che è scoppiato il confl itto perché gli altri (…) poi chissà cos’è successo, forse hanno capito che anche loro potevano (.) il secondo giorno è scoppiato il confl itto perché gli altri si son rotti le scatole che facesse tutto lei per loro”.

Entrambe queste modalità (empowerment e provocazione) erano mirate a far emergere la diversità dei punti di vista allo scopo di favorire la costruzione, all’in- terno dei gruppi, dei signifi cati del confl itto e delle sue modalità di gestione.

Gli operatori hanno osservato i confl itti in due modi: principalmente come con-

fl itti sui contenuti, cioè come contraddizione tra modi diversi di costruire i conte-

nuti delle storie o di operare sui materiali messi a disposizione, secondariamente come confl itti relazionali che hanno riprodotto idiosincrasie consolidate tra indivi- dui in contrapposizione o sono stati il risultato della propensione ad escludere in- dividui marginali nell’ambito di rapporti asimmetrici, espressione di forme di po- tere consolidate.

Casi di confl itto etnocentrico sono stati osservati frequentemente dagli opera- tori, che hanno riferito di una generale diffi coltà ad adottare azioni dialogiche tra coetanei, all’interno di gruppi scelti arbitrariamente e dunque spesso implicanti re- lazioni eterogenee. La disponibilità a mediazioni e di tipo dialogico è stata rilevata in alcuni sottogruppi di lavoro o in riferimento a singole persone, ma con una fre- quenza e un’intensità limitate. Gli operatori hanno avanzato l’ipotesi di una man- canza di abitudine all’osservazione di forme di trattamento della diversità come fat- tore che disincentiva azioni dialogiche. L’insegnante ha osservato un comporta- mento preminentemente egocentrico dei bambini come loro caratteristica intrin- seca, legata all’età e alla mancanza di competenze di ascolto e di valorizzazione del- l’altro.

Per quanto concerne la considerazione dell’interlocutore, sono state osservate azioni ambivalenti di rispetto dei punti di vista e di svalutazione e deprezzamento delle opinioni non condivise. Gli operatori hanno osservato uno slittamento da una mancanza di rispetto per un punto di vista, ad un deprezzamento che giungeva sino all’aggressività. In alcuni contesti, dei singoli partecipanti sono stati assimilati al loro comportamento e quindi stigmatizzati, soprattutto in relazione ad un mecca- nismo di contrapposizione interno al gruppo tra soggetti riconosciuti e valorizzati dagli altri membri (che godono di particolare considerazione) e soggetti stigmatiz- zati per alcuni loro comportamenti o modi di essere (che hanno maggiori diffi coltà a vedere riconosciute le proprie posizioni):

Op 2: “Ci sono classi in cui alcuni bambini vengono etichettati come disagiati, devianti, disturbatori, che non capiscono e quindi in questi casi la profezia si auto- adempie, questi non vengono ascoltati proprio perché sono già stati etichettati in questo modo (…) in un’altra classe a causa dell’insegnante addirittura non vole- vano fargli fare l’attività, lo volevano escludere completamente (.) ‘no lui non può fare l’attività con noi’, ci sono situazioni in cui chi gode di più celebrità, che è più stimato dai compagni e quando dice le cose viene ascoltato, altri addirittura ven- gono defenestrati e neanche hanno la possibilità di parlare o di partecipare”.

Questa percezione è stata confermata dall’osservazione di una tendenza genera- lizzata ad emettere giudizi in caso di mancato accordo. Sebbene un operatore ab- bia osservato l’atteggiamento giudicante come fi nalizzato a garantire una maggiore valorizzazione di sé, piuttosto che un deprezzamento dell’altro, in generale la pra- tica è stata osservata come forma di comunicazione che si stabilizza e rende quindi diffi cile l’emergere di nuove azioni positive.

Op 3: “C’è forse anche una grossa parte che si sente in diritto di giudicare (..) nel senso che ci sono alcuni casi che uno dice tu sei sempre la solita, fai sempre così, cioè si è un po’ costruita una storia, ma questo è un po’ un problema generale della vita sociale, quando uno si è costruito un’immagine di un altro è diffi cile anche se tu dimostri di voler cambiare, se fai una cosa diversa è diffi cile che gli altri la osser- vino”.

Si è ipotizzato un condizionamento del contesto educativo sia sulle modalità di partecipazione, sia sull’inibizione di una piena espressione dell’autonomia: la rile- vanza del contesto non è stata osservata soltanto nella riproduzione di certe dina- miche relazionali consolidate all’interno della classe, ma anche negli ostacoli al coin- volgimento dei bambini in situazioni diverse rispetto a quelle vissute quotidiana- mente nel rapporto con i compagni e con gli adulti.

Nel caso di confl itti sui contenuti, gli operatori hanno affermato di aver reagito cercando di attuare una testimonianza volta a: 1) stimolare una rifl essione sul con- fl itto; 2) manifestare una forma di disagio dell’operatore in grado di innescare, tra i bambini/preadolescenti, una reazione in merito alla gestione del confl itto; 3) pro-

muovere la formulazione di proposte e soluzioni attraverso proprie segnalazioni. L’attivazione della testimonianza aveva l’obiettivo di facilitare la realizzazione di forme dialogiche di comunicazione, stimolando un’equa ripartizione delle possibi- lità di intervento, il rispetto reciproco nell’espressione delle differenze, modalità di ascolto intenso e prolungato, nonché il recupero di situazioni degenerate nello scon- tro fi sico:

Op 1: “Io ho cercato di, innanzitutto, non intervenire in maniera autoritaria, ho cercato di testimoniare il mio disagio di fronte a quel confl itto, contando di stimo- lare la sensibilità e la partecipazione delle varie persone che partecipavano, ho cer- cato di portare sul piano della comunicazione quello che era magari uno scontro fi - sico, con delle domande, con degli interventi che in qualche modo permettessero alle persone di parlare, di esprimersi verbalmente”.

Op 3: “Ho cercato di promuovere la gestione dialogica del confl itto non so se ci sono riuscita, ho cercato di ascoltare un po’ tutti, di dare la parola un po’ a tutti, ho cercato di favorire l’ascolto reciproco dei bimbi, ho cercato anche magari di por- tare delle osservazioni mie, questo è quello che credo di aver cercato di fare”.

Op 2: “Io ho cercato di lavorare in quasi tutti i sottogruppi e poi a livello di gruppo generale. In questo modo ho cercato di evidenziare o che un confl itto era in atto e di risolverlo oppure di far vedere ai bambini che loro avevano vissuto un confl itto tra di loro e capire come poi l’avevano risolto”.

La gestione dei confl itti si è sviluppata in tre direzioni principali. La prima forma ha consistito nel lasciar agire bambini e preadolescenti in modo autonomo, metten- doli nelle condizioni di elaborare proprie forme di trattamento del confl itto: in que- sti casi, da un lato, si è osservato l’abbandono del confl itto da parte di una delle parti in causa, portata a recedere per debolezza o stanchezza, dall’altro, l’uso della votazione per maggioranza, che gli operatori ritengono poco effi cace in quanto crea una dinamica di vincenti e perdenti che mina l’effettivo interesse alla partecipazione della minoranza.

Le altre due forme di gestione hanno previsto l’intervento dell’operatore. In si- tuazioni in cui prevaleva l’aspettativa cognitiva del proseguimento dell’azione e la divergenza di opinioni riguardava aspetti considerati di scarsa importanza, l’opera- tore ha agito in modo direttivo, attribuendosi la responsabilità della decisione per permettere il proseguimento dell’azione. Nei casi in cui si è avvertito il rischio di stallo per confl itti piuttosto intensi o degenerati nello scontro fi sico, l’intervento di- rettivo dell’operatore si è orientato al ripristino della comunicazione attraverso una prima fase di decantazione emotiva e l’attivazione volontaria e strategica di un ri- baltamento del confl itto includendo anche se stesso come partecipante, con l’obiet- tivo dichiarato di trasformare i termini del confl itto e creare possibilità di evolu- zione. Attraverso l’attivazione di una nuova forma confl ittuale, gestita consapevol- mente dall’operatore, è stata operata una svolta decisionale oppure una rifl essione sulle dinamiche che hanno condotto alla degenerazione del confl itto nella vio- lenza.

Op 2: “Poi c’era un bambino che ha dato uno scapaccione a un altro e a questo punto io mi sono messo in una posizione rigida, no così non si fa, ho anche cercato uno scontro con questo bambino. (…) Oppure come il confl itto del bambino che veniva (…) che l’insegnante aveva trattenuto perché doveva fare i compiti, tutta una serie di cose che adesso non ti sto a dire, ad un certo punto io sono andato giù duro, qual è la posizione di un bambino, qual è la posizione di un altro, ecc., e a quel punto però i bambini si sono dileguati dal confl itto, non hanno voluto affrontarlo, allora io li ho ripresi perché questi proprio si sono alzati e sono andati a lavorare, cioè, dovevano decidere se il bambino poteva rimanere a lavorare o no, (…) a un certo punto io mi sono incazzato con loro perché questi non prendevano la deci- sione e allora io ho preso la decisione. Quando in sostanza non si riusciva a trovare una soluzione allora a quel punto io entravo anche di proposito in confl itto con loro affi nché prendessero una decisione e se non la prendevano loro la prendevo io. Esa- geravo un po’ (…)”.

In altri casi, l’operatore ha defi nito il proprio intervento come una forma di me- diazione, o facilitazione, volta a trasformare un confl itto contro in un confl itto per il coordinamento di prospettive divergenti, senza annullare, né negare le diversità espresse attraverso compromessi o condivisioni forzate. L’intenzione di evitare la riduzione delle diversità, o una fusione delle posizioni in causa, ha portato ad os- servare la necessità di intervenire promuovendo una nuova costruzione retorica del confl itto, una descrizione diversa, lontana dai termini originari e arricchita spesso dalla partecipazione di tutti i soggetti coinvolti:

Ins 1: “Quando scoppiava un confl itto, capire quali erano le vere ragioni del con- fl itto e caso mai spostare l’attenzione su un’altra cosa che potesse risolvere poi in qualche modo la situazione (.) che non ci fosse un cedimento dell’una o dell’altra parte, ma che si trovasse una soluzione che potesse accontentare le due parti pro- prio anche spostando quello che poteva essere poi un’attenzione troppo negativa su una cosa (.) che comunque non ci saltavi fuori”.

Op 2: “Cioè, prima si esprimono le diverse posizioni poi si riesce a trovare una soluzione? Se si riesce trovare bene, se non si riesce trovare, va beh rimaniamo ognuno nella propria posizione e vediamo cosa si può fare. Ad esempio c’era (.) non sappiamo come appiccicare una foto, uno voleva appiccicarla a destra uno a sinistra, allora ho detto: ‘va beh, dai, se non siete capaci di trovare una soluzione voi allora ve ne tiro fuori una io che sia la mediazione di queste’, gli ho infi lato una graffetta e questa foto poteva girare e soddisfaceva entrambe le esigenze”.

[Op. 3]: “Io ho cercato di andare oltre questa abitudine, di promuovere un coor- dinamento, di promuovere l’auto-espressione che non portasse per forza a un con- corso di idee e a una votazione fi nale, questo è quello che ho cercato di fare. (…) il coordinamento permette di costruire una realtà diversa da quella che è di fatto le posizioni iniziali, perché prevede proprio la partecipazione (…) propone una cosa altra che è imprevedibile da parte di tutti i partecipanti inizialmente ed è questa la ricchezza fondamentalmente.

Il tentativo di eludere la distinzione tra vittorie e sconfi tte, cedimenti e sopraf- fazioni, ha portato ad attivare una mediazione fi nalizzata alla co-costruzione di una realtà diversa, nella ricerca di una soluzione soddisfacente per tutte le parti in causa. Resta da chiarire se il prodotto di questa costruzione partecipata possa defi nirsi un coordinamento di prospettive diverse, oppure una nuova forma monoculturale nata dalla condivisione dei partecipanti.

L’insegnante ha invece osservato la continuità dell’intervento con le attività sco- lastiche e le relazioni educative, dichiarando che la sua motivazione a condurre per- sonalmente l’intervento deriva principalmente dalla volontà di inserire quest’ultimo all’interno di un percorso più articolato di proposte per la classe, con un obiettivo formativo, di educazione alle relazioni:

Ins 1: “Comunque si poneva come obiettivo formativo anche comunque quello di rendere consapevoli i ragazzi di anche come poi tra di loro interagiscono, tra di loro si pongono in relazione, tra loro e l’adulto”.

Ins 2: “Non ho notato differenze da quello che succede normalmente in classe tra lei e i bambini”.

I modi delle relazioni con i bambini vengono osservati come analoghi a quelli generalmente osservati nella classe. La diffi coltà talvolta espressa nel rendere ope- rative le condizioni dialogiche e lo slittamento verso fi nalità strategiche induce ad ipotizzare che queste relazioni assumano nella maggior parte dei casi la forma asim- metrica del rapporto tra ruoli.

4.3.2 I limiti dell’intervento

Gli operatori hanno evidenziato anche i limiti nella sperimentazione delle tec- niche dialogiche di risoluzione dei confl itti, osservando l’esistenza di un divario tra la loro validità teorica e la possibilità di una loro attivazione nel contesto dell’inter- vento.

Un primo limite ha riguardato le condizioni dell’azione propositiva dei destina- tari e l’introduzione dei loro punti di vista personali. Anzitutto, si è osservato che questa azione comporta il rischio di intaccare la struttura dell’intervento. Un ope- ratore e l’insegnante hanno infatti dichiarato che l’espressione propositiva dei de- stinatari dovrebbe comunque rispettare i vincoli strutturali che danno senso all’in- tervento e che permettono di rilevare la sua coerenza con gli obiettivi iniziali:

Op 3: “Quando hanno detto: ‘no, non vogliamo fare la storia’, che non volevano fare la storia perché di fatto erano preoccupati della prestazione, questo era il mo- tivo, soprattutto le bimbe, le ragazze, infatti erano molto preoccupate dell’aspetto della prestazione, però io su questo sono rimasta intransigente perché ritengo che l’approccio promozionale debba avere dei vincoli e dei confi ni all’interno dei quali muoversi, e uno di questi confi ni nel nostro caso era la proposta sulla quale farli la-

vorare che era la costruzione della storia attraverso le foto, poi ognuno ovviamente ha interpretato l’utilizzo delle foto e la costruzione della storia in modo autonomo e personale, io su questo l’ho lasciato”.

Ins 2: “Cioè sicuramente è positivo comunque che loro siano propositivi, che abbiano delle richieste, facciano delle richieste (..) è chiaro che se si supera il limite però diventa forse ingestibile in prospettiva del lavoro”.

In secondo luogo, gli operatori hanno osservato le limitazioni poste dal conte- sto in cui si è proposto l’intervento. La promozione dell’auto-espressione e dell’au- tonomia dei partecipanti è infatti osservata come contraddittoria rispetto al conte- sto educativo: ci si aspetta una tendenza a riprodurre la forma di partecipazione asimmetrica in cui all’allievo è richiesta l’accettazione della proposta dell’adulto, nonostante quest’ultimo sia esterno al contesto.

Op 1: “I bambini non sono abituati a trovarsi in contesti in cui con gli adulti possono esprimere la loro autonomia, questa è una cosa che riescono a fare con più facilità tra coetanei al di fuori di contesti strutturati e istituzionali, con gli adulti normalmente utilizzano delle modalità che sono in parte il riconoscere le aspetta- tive dell’adulto anche se poi l’adulto in quel momento è molto friendly, molto fa- vorevole a riconoscerli, però c’è sempre questa componente, e allora si scontra la partecipazione personale con la partecipazione nel riconoscimento del ruolo, c’è questa ambivalenza che in un qualche modo condiziona l’intervento”.

Op 3: “Se vai in un modello educativo, più i bambini sono piccoli, più hanno li- bertà nel proporre cose, più le propongono, più passa il tempo e più diventano grandi e meno idee ti propongono, è quasi come se l’abitudine ad avere dei no ri- spetto a scelte alternative li abbia in qualche modo abituati e sono conformati al modello, per cui quando tu arrivi in una classe e proponi un modello alternativo, sì tu lo proponi, però se questi sono condizionati da un modello educativo molto forte, prima di uscire, prima di proporre cose nuove ce ne vuole, è anche una loro diffi coltà”.

La possibilità di attivare forme autonome di partecipazione all’interno del si- stema scolastico è considerata in contraddizione con i presupposti educativi in base ai quali i destinatari sono chiamati principalmente ad esperire in funzione della pro- pria formazione.

Un altro problema osservato riguarda le aspettative dei destinatari. La convin- zione generalizzata è che non ci fossero aspettative precise nei confronti dell’inter- vento: si è osservato come le aspettative, spesso verifi cate durante il primo incon- tro, fossero confuse e divergenti, risultato di una comunicazione preliminare sul progetto che è apparsa infruttuosa. Un operatore dichiara di aver verifi cato l’aspet- tativa di un’osservazione psicologica di diffi coltà relazionali. In un altro caso, si pre- sume che l’aspettativa dei bambini fosse estraniarsi dal contesto scolastico, attra- verso attività diverse, più allettanti di quelle normalmente previste dall’attività di- dattica.

Op 1: “Diciamo che quando si propone qualcosa a scuola nella forma del labo- ratorio loro si aspettano innanzitutto di poter evitare di fare un’ora di lezione, se- condo si aspettano che quello che tu fai sia più piacevole di quello che fanno nor- malmente e quindi sono disposti a tutto, la diffi coltà dell’intervento è quella ap- punto di far riuscire (.) riuscire a far capire che in quel momento tu ti stai rappor- tando a loro come delle persone e non come a degli alunni. E non è automatico farlo all’interno del contesto scolastico, perché non è normale”.

Emerge, quindi, la diffi coltà di osservare l’intervento come un’effettiva possibi- lità di innovazione delle forme di comunicazione. Ciò ha comportato problemi nel- l’attuazione delle tecniche dialogiche.

La capacità di apprezzamento, ossia la disponibilità a valorizzare gli aspetti positivi dell’azione anche nel caso in cui non ci si trovi d’accordo con essa, è stata sì attivata, ma non sempre come condizione dialogica: l’apprezzamento ha infatti assunto per gli operatori un carattere strategico, fi nalizzato o al proseguimento dell’attività, o al proseguimento del dialogo, e ad un’eventuale promozione del cambiamento:

Op 1: “È chiaro che dovendo proseguire e gestire un gruppo di lavoro la se- conda modalità mi permetteva di rendere più produttivo quello che si stava fa- cendo”.

Op 3: “Cerco (..) di dare importanza prima agli aspetti positivi perché credo profondamente che solo se riconosci le risorse che le persone hanno puoi anche continuare un dialogo con loro e anche promuovere anche il cambiamento se se- condo te è importante”.

Op 2: “Quando non sono d’accordo dico semplicemente che non sono d’ac-