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L'intreccio e i temi del dramma

rispetto a Rosa di Sion

4.2 L'intreccio e i temi del dramma

Come è usuale nelle opere teatrali di Pea, anche Prime piogge d'ottobre inizia in medias res. Ad aprire il primo atto è Fabrizio mentre descrive a Sara la figura della Madonna:

Fabrizio: […] Maternità dolorosa: le hanno deposto il figlio sulle

ginocchia, trafitto nel costato, troncate le ossa. Questa Madre di pietra sta nel Tempo a raffigurare l'Umanità! Vi turbate... siete ebrea...

Fabrizio parla della Madonna secondo la propria ottica cristiana, ottica che egli stesso ha riscoperto:

Fabrizio: […] Io non mi sono mai esaltato per la religione fino a tanto

che sono stato in mezzo ai cristiani. Ma adesso che sono in una casa ebrea, in un paese quasi tutto ebreo, con questo vostro frugare ho finito per rifarmi il segno della croce. E' curioso, adesso, lontano da casa, con il ronzio negli orecchi, di queste lingue greco-turco-ebreo, sento la nostalgia della patria. Cristiano e patriota sono diventato lontano dalla patria e in casa ebrea.

Questo passo non può non rimandarci all'esperienza vissuta in prima persona da Pea, esule ad Alessandria d'Egitto e descritta ne Il servitore del Diavolo in cui l'autore stesso sottolinea quanto sia importante mantenere accesa la

fiamma della terra d'origine per trarne conforto in terra straniera. Pea

s'identifica dunque in Fabrizio, non soltanto per questo ritrovamento della fede una volta che si è lontani dalla propria patria, ma anche per una pacatezza del sentimento religioso che non porterà più alla violenza di Rosa

di Sion, per approdare invece ad una ragionevolezza che esime da un tragico

epilogo.

Sara rimane turbata dalle parole di Fabrizio, non tanto in quanto ebrea, ma in quanto madre, costretta a soffrire un dolore senza consolazione:

Sara: […] Che è mai questa pallida madre che ha visto risorgere il suo

figliuolo glorificato? Quando vi sono madri terrene di oggi e di ieri che non han partorito profeti e che piangono in silenzio tutta la vita... Ecco una madre ebrea che ieri vide appesi i figliuoli ai rami delle piante, ed ella vegliò agitando gli alberi perché i corvi non si avvicinassero, e gridando la notte a che le jene della campagna avessero spavento.

[…] E che direste, Fabrizio, di una madre di oggi a cui morisse lo sposo, ed il cognato le dicesse: - Ho su di te diritto di consanguineità: ne uso: sarai mia moglie!

Questa lunga battuta sembra anticipare in un certo senso ciò che effettivamente avverrà di lì a poco: la morte del piccolo Azaria. Il bambino stesso appare percepire l'infausto auspicio della propria fine nel passaggio delle rondini105.

Allo stesso modo l'aquilone con cui il bambino stava giocando, precipita nel momento esatto dell'entrata in scena di Ghersom e vedremo subito che tra i due non corre buon sangue. Il Capo della Comunità si presenta subito come un uomo prepotente ed austero, infastidito dai giochi del figlio della sua futura moglie, alla quale si rivolge duramente:

Ghersom: Una donna locca fa crollare le mura della propria casa […]

Vorreste essere libera? Eh!... col gran patrimonio che vi ha lasciato il vostro primo marito!

Avido del patrimonio del fratello morto, Ghersom rinfaccia a Sara la presenza di Azaria come la nomina a Rabbino di suo fratello e si avvale del proprio ruolo sociale all'interno della Comunità per ottenere ciò che vuole, celando le proprie pretese dietro il falso nome della legge. A interrompere le recriminazioni di Ghersom su Sara interviene Fabrizio che distrae l'uomo con il progetto della sinagoga di cui era stato incaricato, progetto alquanto ardito dal momento che due ali danno al tempio la forma di una croce. I due uomini si fronteggiano sulla questione in una serie di battute serrate attraverso le quali Ghersom arriva a definire Fabrizio: sovvertitore degli usi

d'Israele. Quest'ultimo, al contrario di tutti gli altri, non si lascia intimidire

dalla meschina arroganza del Capo della Comunità e risponde:

Fabrizio: […] Signor Ghersom, voi mi avete offeso già dieci volte, ed

è naturale che non avendomi visto scattare come avrebbe fatto un qualunque mediocre uomo, pensiate alla mia estrema vigliaccheria. […] Vi assicuro, signor Ghersom, che non sono così pacifico e così passivo come voi credete. […] non sono un facchino umile a cui voi siete abituato a comandare, e nemmeno una femminuccia ebrea, io.

105 Anche in questo caso, come già ne La cugina ebrea, le rondini perdono la loro usuale connotazione positiva per assumere quella di presagio negativo. Ciò non può non far pensare a Giovanni Pascoli, il quale nella poesia X agosto, del 1896 accostava la morte della rondine a quella tragica del padre. Pea molto probabilmente risentì dell'influsso di certe atmosfere pascoliane; ciò emerge infatti da questo passo .

E non è forse un caso se a questo punto entra in scena Delila, che sapremo essere l'amante di Ghersom, la femminuccia ebrea a cui si riferiva Fabrizio, in tutto sottoposta all'amante, anche per ottenere il permesso di informare l'ospite sull'orario del pranzo106. Delila spiega allora che cosa sia l'ora

Tekufà, ossia l'ora in cui l'angelo della Morte immerge la sua lama nelle

acque del mondo e l'acqua diventa sangue. Sara, non avendo pensato al

simbolo legato a quell'ora infausta, si precipita, rimproverata acidamente dalla cognata, a svuotare l'acqua dalla camera di Azaria. Ghersom e Delila rimangono soli: la donna ricorda i loro primi approcci, si mostra gelosa del matrimonio ormai prossimo tra l'amato e la cognata, insinua il dubbio nell'uomo di una particolare simpatia tra la futura sposa e Fabrizio. A questo punto Ghersom, dopo aver ipocritamente sentenziato che il matrimonio avverrà soltanto per obbligo di consanguineità e che il suo amore è tutto per Delila, si rivolgerà al Rabbino lamentando il comportamento ambiguo che la sua futura sposa intrattiene con l'architetto. Nel momento in cui giunge Sara a dimostrare la propria innocenza, Azaria esprime tutto il proprio scontento per il suo futuro patrigno107.

Subito dopo, nella fatidica ora del Tekufà, gli si rovescia sul capo una bacinella d'acqua dimenticata dal servo di casa. Sara sveste immediatamente il figlio e lo porta via, lasciando gli altri personaggi sbigottiti di

superstizione. Si chiude così il primo atto, lasciando presagire ciò che

avverrà in seguito: il compimento del vero e proprio “Fato” insito al dramma.

Il secondo atto si apre infatti con l'agonia del piccolo Azaria descritta dalla madre Sara a Fabrizio:

Sara: Chi sa quale mostro vedeva in me, con questo abito scuro […]

Vedermi scacciata dalla mia creatura , mi ha preso la disperazione. Mi sono buttata di schianto per terra, mi sono trovata ginocchioni come una cristiana, ed ho invocato la Madonna e i Santi ad alta voce […] Ed ho pensato agli angeli bianchi che copiava Azaria dal vostro libro. Ho sentito come un suggerimento: mi sono messa l'abito di sposa, le trecce per le spalle, il velo...

Soltanto in questo modo il figlio accoglie la madre, la quale assume per lui

106 Delila: Se mio cognato lo permette.

le sembianze di quella Madre dolorosa vestita di bianco che Fabrizio aveva descritto all'incipit del primo atto. Nel disperato dolore di una madre che teme di perdere il figlio, Sara si trova a pregare come una cristiana, nella speranza che la Madonna interceda per lei, avendo sopportato le medesime sofferenze. Fabrizio confessa di aver visto Sara quella notte e anche di aver assistito all'incontro tra Delila e Ghersom, ma Sara è già a conoscenza della relazione tra i due; allora Fabrizio, credendo impossibile un matrimonio tra Ghersom e la cognata, chiede a Sara di sposarlo:

Fabrizio: […] Se volete essere mia moglie portatemi Azaria e

null'altro.

Sara: […] Consideratemi male, signor Fabrizio, consideratemi una

schiava a cui sia stato forato con la lesina l'orecchio allo stipite della porta in olocausto ai Mani della casa. La mia volontà non conta. Il mio corpo è per diritto di consanguineità, per giusta legge di Halissà strumento a suscitare progenie al mio signore e padrone.

Sara conosce bene la propria condizione: non ha diritto alla propria volontà, è lei stessa a definirsi una schiava, uno strumento nelle mani del Capo della Comunità. Eppure non è indifferente alle attenzioni di Fabrizio: lo dimostra quel No! (represso) alla notizia che l'architetto lascerà presto la città, dal momento che lei lo ha rifiutato. A questo punto, uscita Sara, intervengono sulla scena Delila, Ghersom e il Rabbino. I due uomini discutono riguardo la buona fede di Sara, messa in dubbio dal futuro marito. Il Rabbino, offeso, risponde:

Il Rabbino (a Ghersom): Dov'è la fondatezza dei vostri sospetti? E tu

[Delila] hai lasciato la porta aperta a mia insaputa per un'azione come questa: dubitare che mia sorella treschi con un galantuomo di cui io rispondo, e questo alla vigilia di un matrimonio, e in un momento in cui una creatura sta tra la morte e la vita. Manco una sgualdrina sarebbe capace di tanto.

In realtà sappiamo che Delila è capace di questo e molto altro, dal momento che non solo ha lasciato la porta aperta per spiare l'incontro tra Sara e Fabrizio, ma si è anche incontrata con Ghersom mentre Azaria stava agonizzando. Prende la parola Fabrizio, Delila è terrorizzata dal fatto che egli possa rivelare al marito il proprio tradimento e tenta più volte di fermarlo, ma l'architetto continua il proprio discorso confermando il suo

intento di sposare Sara e portarla con sé. A questo punto irrompe il pianto di Sara: Azaria è morto e la donna da sfogo a tutti i propri sentimenti trattenuti fino ad allora per amore e protezione del figlio.

Sara: […] Tra me e voi [Ghersom] non ci può essere più nulla!

Per la mia creatura tutto avrei taciuto, tutto sopportato, tutto sofferto... Fino a farmi schiava di un uomo che ha insozzato con la sua onorabilità la casa di mio fratello. […] Maledico la legge di Halissà!! [Rivolta al fratello] Mandalo via o impazzisco! O mi sguscio gli occhi per non vederlo! […] Scaccialo, o ti fai servo! Ti ha offeso! Ti ha insudiciato la casa!

Ecco che, con la morte del figlio, crollano tutte le reticenze di Sara, fino ad allora corretta e sottomessa, ora pronta a far esplodere tutto il suo risentimento per quell'uomo che, sfruttando a proprio vantaggio le secolari convenzioni religiose e forte del proprio ruolo sociale, le ha tolto la libertà e la serenità del figlio morto in rancore con lui.

Il secondo atto si chiude con la processione di angioletti che trasportano le spoglie del piccolo Azaria.

Il terzo ed ultimo atto è l'unico che non si apre con le due figure di Sara e Fabrizio, alludendo forse alla definitiva separazione tra i due. A dominare l'incipit di quest'ultimo atto sono il Rabbino e un uomo della Comunità: quest'ultimo mette l'altro al corrente, piuttosto minacciosamente, del fatto che Fabrizio dovrà essere scacciato, altrimenti il rabbino verrà destituito dal proprio ruolo. Entra in scena Fabrizio che si confronta con il Rabbino, l'architetto è deluso ed amareggiato dal comportamento servile dell'altro, troppo legato al proprio ruolo da rinnegare la cosa giusta per continuare a vivere nella propria immutabile ed ipocrita condizione:

Fabrizio: Un giorno mi dicevate di sentirvi moderno. Adesso vi siete

ricreduto, rabbino.

Il Rabbino: Non si può essere moderni così, come voi credete, quando

sihanno cinquemila anni da rispettare.

Questo piccolo spezzone di dialogo mostra il modo in cui Fabrizio tenta di portare modernità e razionalità in un mondo arcaico, ancora troppo legato alle proprie radici religiose per accorgersi che il mondo è cambiato e che l'uomo ha una propria valenza e volontà individuale, indipendente dal credo e dagli obblighi che comporta.

Fabrizio, incapace di farsi comprendere, si prepara ad andarsene. Sara non riesce neanche a guardarlo perché sa che basterebbe uno sguardo a far vacillare la propria volontà.

Sara: […] Io non vi guardo, eppure sento che dai vostri occhi mi viene una minaccia addosso... Non oso domandarvi perdono... Addio!...

[E poi rivolta al fratello:] Non mi lasciare sola con lui perché sento che mi trascinerebbe dietro la sua volontà.

Sara cerca di trattenere i propri sentimenti, il desiderio di seguire il proprio cuore e quindi Fabrizio, ma la paura di trascinare nel fango il nome del fratello la fa desistere ed allora prega il Rabbino affinché le stringa i polsi con i tefilin di cuoio, tanto forte da farle dimenticare il sogno di una vita diversa e di un nuovo credo in cui le madri possano vedere di nuovo i propri figli. Sara seguirebbe Fabrizio e la religione cristiana perché soltanto grazie a loro è riuscita a trovare un po' di pace al proprio dolore. L'uomo assiste dolorosamente a questo rito ch'egli considera troppo materiale rispetto a quella che è la forza dello spirito e così si rivolge all'amata:

Fabrizio: […] Addio, Sara! Non sono un missionario di Cristo come tu

hai creduto. Volevo farti padrona del mio cuore. Ero mercante della mia causa con parole nuove per te.

Ciò che Fabrizio sostiene è di non aver cercato di convertire Sara al cristianesimo, ma di averla avvicinata a sé attraverso di esso, affascinandola con racconti nuovi alle sue orecchie, in grado di consolarla nei momenti difficili della sua vita attraverso la speranza di un'altra esistenza, più libera e sincera di quella che stava vivendo. Fabrizio cerca di spiegare ciò anche al Rabbino, quando gli elenca, mediante un'ironica allegoria, tutte le ipocrisie di una religione che esclude chiunque venga dall'esterno108. Fabrizio,

allontanato da cristiano è in realtà soltanto un uomo che ama una donna, Sara, a dispetto del credo che li differenzia ed ostacola.

A questo punto Fabrizio, dopo aver terminato il proprio congedo con una novella simile ad una fola, se ne va definitivamente.

108 Tra le parole che Fabrizio rivolge al Rabbino: <<Avete la veste tessuta a filo in croce! Siete dunque cristiano anche voi, rabbino!; Siete dunque cristiano anche voi Rabbino, da che non vivete di pastorizia come Abramo, da che non pregate Iddio sotto i padiglioni di Giacobbe, da che i vostri polmoni respirano l'incenso ortodosso e i miasmi delle città cosmopolite>>. In E. Pea, Prime piogge d'ottobre, Libreria della Diana, Napoli, 1919, pp. 37- 38.

Allontanatosi per sempre il proprio amore, Sara sfoga il proprio dolore ed il proprio astio su Delila, accusandola per le sue malignità e la sua tresca con Ghersom, ai danni del marito. Delila, diversamente dal solito atteggiamento sostenuto e supponente tenuto per tutto il dramma, parla sinceramente a Sara, aprendole il proprio cuore e confidandole tutto l'amore che prova per il Capo della Comunità e che tanto somiglia a quel sentimento che Sara ha sperimentato con Fabrizio.

A sua volta entra in scena Ghersom che, inaspettatamente, rivela alla futura moglie di averla sempre desiderata, scatenando l'ira e la gelosia della sua amante precedente, che lo porterà alla morte. Ora Sara, libera da ogni impaccio e costrizione potrebbe finalmente concedersi a Fabrizio, ma è troppo tardi: egli se n'è già andato.

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