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che connotano la subordinazione non riescano più a svolgere la loro funzione selettiva. Ed è quindi opportuno interrogarsi, ad esempio, se in tali ipotesi la fattispecie prevista dall’art. 2094 c.c. sia identifi- cabile soprattutto in presenza di una «dipendenza organizzativa» che si sostanzia nella necessità di conformarsi a procedure tali da veicolare l’attività lavorativa a risultati determinati, a prescindere dal grado più o meno autonomo delle modalità con cui il lavoro viene svolto.

Un problema strettamente connesso a quello appena descritto è se abbia ancora senso legare gli effetti della subordinazione ad una fattispecie di carattere generico, come quella prevista dall’art. 2094 del codice civile, oppure se sia opportuno seguire una tecnica rego- lativa diversa. In particolare si potrebbero collegare determinate tu- tele allo svolgimento di un certo tipo di lavoro a prescindere dalle sue modalità di svolgimento. Ad esempio, chi opera con le piatta- forme digitali si vedrebbe riconosciuti alcuni diritti fondamentali che devono essergli attribuiti in ogni caso (divieto di discriminazio- ni, sicurezza, tutela della privacy). Inoltre, se in questi casi la presta- zione lavorativa implica condizioni di dipendenza economica (e non necessariamente di subordinazione), il lavoratore dovrebbe avere al- cune tutele di base che attengano alla remunerazione, al diritto di disconnessione, al mantenimento nel tempo della relazione contrat- tuale e così via. Questa mi sembra essere la strada seguita in altri Paesi che hanno introdotto interventi legislativi relativi al lavoro nelle piattaforme digitali o da elaborazioni giurisprudenziali che si fondano, peraltro, su discipline che estendono alcune tutele del la- voro subordinato oltre i confini della subordinazione.

Un’altra questione molto delicata è quella della riservatezza e del potere di controllo di chi gestisce le piattaforme o le tecnologie di- gitali. In questo caso, infatti, vi è la possibilità di accesso a dati per- sonali che possono essere elaborati in totale autonomia, con possibi- lità di monitorare, momento per momento, la vita della persona in- teressata (a prescindere dalla sua qualificazione come lavoro auto- nomo o subordinato). Bisognerebbe interrogarsi su quali protezioni dovrebbero essere garantite a chi si trova a lavorare in queste condi- zioni, che solo in parte sono assimilabili alla disciplina attualmente prevista dallo Statuto dei lavoratori o dal Codice della privacy.

Vi è poi il problema dell’individualizzazione delle relazioni di la- voro e del possibile spazio, in un contesto dove l’attività lavorativa si

svolge ovunque ed in assenza spesso di contatti fisici tra le parti, di forme di tutele collettive per determinare tariffe e condizioni di la- voro. In questo caso viene spontaneo chiedersi se sia ancora ipotiz- zabile la sussistenza di un interesse collettivo che giustifichi la pre- senza del sindacato.

Mi sembra evidente che siamo di fronte a mutamenti epocali che mettono in discussione categorie concettuali consolidate e che ri- chiedono un’analisi approfondita e priva, per quanto sia possibile, di «precomprensioni» e di riflessioni fortemente condizionate dal passato. Senza peraltro cadere nell’errore opposto di una enfatizza- zione di queste nuove frontiere del lavoro, quasi che le novità tec- nologiche fossero in grado di cancellare di per sé le problematicità che esistono o le esigenze di tutela quando queste si manifestano. In sostanza occorrono analisi non ideologiche ma che si sforzino, con le metodologie che sono proprie della scienza giuridica, di indivi- duare le caratteristiche di queste nuove forme di lavoro e le esigen- ze di regolazione che sono necessarie. Senza dimenticare, peraltro, che il diritto del lavoro continua a rispondere ad esigenze di prote- zione che non possono essere tralasciate e che ne costituiscono la stes- sa ragione di esistenza.

Le analisi svolte nel numero monografico della Rivista e le relazio- ni di questa mattina sono molto utili per un dibattito scientifico di alto livello. E, poiché i problemi sono molti e complessi, credo che dovremo continuare ad interrogarci su questioni non semplici e che richiederanno uno sforzo collettivo sicuramente non destinato ad e- saurirsi in breve tempo.

Le inchieste sull’organizzazione del lavoro nelle industrie 4.0 han- no evidenziato essenzialmente i punti che seguono.

Le decisioni strategiche sull’introduzione delle macchine digitali sono effettuate in tandem dall’azionariato di maggioranza e dal ma- nagement apicale; gli adattamenti delle macchine al ciclo di produ- zione sono appannaggio degli ingegneri di processo; nell’uno e nel- l’altro caso il sindacato resta escluso.

Le maestranze sono polarizzate in alto e in basso: gli ingegneri di processo sopra; gli esecutori di processo sotto; quest’ultimo tipo di lavoratore non è più «conoscitore» della macchina ma solo addestra- to al flusso di produzione, perdendo in professionalità specifica, «guadagnando» in job rotation ed in salute fisica (ma non anche men- tale, per l’accumulo di stress).

La paga di livello perde di peso rispetto alla paga di posto; così l’orario standard rispetto a quello «a fisarmonica».

Gli inquadramenti, come da contrattazione collettiva nazionale, sono in larga parte obsoleti.

Aumentano i lavori atipici, anche su piattaforma; aumentano i controlli occulti e la partecipazione individuale subalterna.

La formazione professionale è di carattere esclusivamente inter- no, ma è ancora priva di un percorso continuo.

Di fronte a ciò il sindacato, nel migliore dei casi, riesce a siglare accordi aziendali di contenimento; restano un grave deficit conosci- tivo ed una dissociazione dalla forza lavoro aziendale qualificata: l’u- nica in grado di supportare strategicamente l’azione sindacale.

* Già Università degli Studi di Roma «La Sapienza».

Amos Andreoni

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