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A questo punto si pone un triplice problema.
Innanzitutto come ridare vita ai diritti di informazione, oltre il ri- tuale standard di facciata. In verità i diritti di informazione sono «scolpiti» nella generalità dei contratti collettivi a partire dalla metà degli anni Settanta; è poi vero che, come tutti gli obblighi contrat- tuali, essi vanno adempiuti con correttezza e buona fede; che la ri- chiesta di esibizione di atti e di documenti può essere denegata dal- la direzione aziendale solo in presenza di adeguata motivazione supportata dal segreto industriale sulle caratteristiche tecniche del prodotto innovativo; che è possibile redigere un processo verbale con parere di maggioranza aziendale e parere di minoranza sinda- cale, da far valere in sede giudiziaria ex art. 28, l. n. 300/1970.
Tutto questo è vero; resta il fatto che, a fronte di bilanci aziendali quasi sempre inaffidabili, di documenti tecnici difficilmente intelli- gibili; di una delegazione sindacale per lo più sfornita di know-how; tutto ciò premesso si comprende come l’informativa si sia tradizio- nalmente incentrata non già sui processi a monte dell’innovazione tecnologica, bensì sulle ricadute occupazionali e lavorative della me- desima, non di rado con una mera presa d’atto, dati gli attuali rap- porti di forza evidentemente squilibrati, specie in assenza di unità sindacale.
La Carta dei diritti universali elaborata dalla CGIL, all’articolo 39, cerca di offrire una risposta a questa impasse, sia pure solo nor- mativa; non sarebbe male tradurla in accordi sindacali. Il suo arti- colo 39 si inserisce, in effetti, nella struttura di una normativa già esistente, il decreto legislativo n. 25/2007 in materia di informazio- ne e consultazione, con l’obiettivo di estenderne l’applicazione an- che alle imprese con più di quindici dipendenti e di rafforzarne gli strumenti di tutela per renderla maggiormente effettiva.
In questo senso vanno interpretati, ad esempio, l’inserimento dei piani di investimento e sviluppo, dei bilanci di previsione e di chiu- sura di esercizio, l’utilizzo dei contratti cosiddetti flessibili o degli ap- palti tra le materie oggetto di informazione obbligatoria da parte del- l’impresa.
Le modalità dell’informazione vengono fissate dal contratto col- lettivo aziendale, considerato lo strumento più adatto per poter me- glio modulare le tutele in questo campo; al termine dell’informa- zione, i rappresentanti dei lavoratori possono richiedere che si svol- ga una consultazione, all’esito della quale possono emettere un pa-
rere che, seppur non vincolante, potrebbe assumere valore probato- rio in un’eventuale controversia.
Inoltre, nel caso in cui i rappresentanti dei lavoratori ritengano la procedura di consultazione insufficiente a raggiungere l’obiettivo di una partecipazione efficace, ai sensi dell’art. 46 della Costituzione, hanno la facoltà di richiedere un confronto contrattuale con la con- troparte, che sarà obbligata a iniziarlo e portarlo avanti secondo i princìpi della buona fede contrattuale. In questo caso, in mancanza di accordo, i rappresentanti dei lavoratori possono emettere una nota di valutazione, cui il datore è tenuto a dare risposta motivata; e in caso di controversie, entrambi i documenti possono avere valore probatorio. L’effettività della norma viene infine rafforzata attraver- so l’espresso riferimento all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori vi- gente.
Il secondo problema è essenzialmente di democrazia sindacale: co- me transitare da un’organizzazione sindacale a clessidra, segnata da una strozzatura, conoscitiva e decisionale, tra base e vertice, ad una organizzazione a cilindro, per vasi comunicanti.
Il tema è oramai risalente, largamente dibattuto e reso più diffi- cile dal ciclo liberista e da scelte sindacali di emergenza, oltreché da procedure opache di rinnovo, spesso tardivo, delle rappresentanze sindacali.
In ogni caso non è questa la sede per una trattazione ex professo. Restano comunque la centralità del problema e l’urgenza di una soluzione, da perseguire di pari passo con un rinnovamento delle politiche rivendicative all’altezza dell’attuale transizione di lungo periodo; una transizione che richiede risposte di ampio respiro.
Il terzo tema, figlio dei primi due, riguarda come costruire la piat- taforma rivendicativa aziendale, assemblando i vari interessi collettivi entro una prospettiva strategica di crescita, innanzitutto salariale, ma anche di reinquadramenti, di formazione continua, di codecisione.
L’azienda 4.0 richiede infatti il massimo di attenzione psichica nel controllo del flusso di produzione; suppone dunque un livello elevato di partecipazione individuale e di gruppo.
L’interazione continua tra lavoratori e la necessità di valorizzare al meglio i costosi macchinari di nuova generazione; tutto questo apre nuovi scenari di ricomposizione degli interessi dei vari seg- menti della forza lavoro aziendale; nel contempo apre nuovi scenari di contrattazione dato l’interesse del management ad ottimizzare i
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flussi organizzativi; apre soprattutto la possibilità di incrementi sa- lariali da guadagni di produttività. Scenari inediti, dunque, che vanno coltivati esercitando la virtù della sapienza tecno-organizza- tiva e della pazienza compositiva.
Entro questo quadro può risolversi con le regole democratiche, cioè col principio di maggioranza, il conflitto tra un gruppo più ampio che pretende di inglobare in sé un gruppo ristretto e quest’ul- timo, se esso rivendica la propria autonomia organizzativa e con- trattuale.
Un simile conflitto avrà una soluzione democratica solo median- do tra diversi interessi e pervenendo ad un compromesso prospetti- co: la precondizione è comunque che gli interessi effettivamente presenti in azienda abbiano tutti la possibilità di esprimersi e di confliggere fra loro, come auspicato anni fa da Gianni Garofalo.
Ormai non vale più il «declinare crescendo» come annotava Bru- no Manghi; ora si rischia il solo «declinare» specie se il campo d’a- zione sindacale resta confinato nello spazio endo-aziendale.
L’esternalizzazione delle attività su piattaforma, la precarietà e al- ternanza dei lavori, la povertà dei redditi, la disoccupazione tecno- logica oramai strutturale; tutto ciò impone sfide nuove. Di qui la ne- cessità di una seria programmazione territoriale, in concerto con le varie organizzazioni che insistono nell’area.
In fondo si tratta di ritornare alle modalità di azione sindacale di fine Ottocento e di fine anni Quaranta con la riscoperta di una con- federalità combattiva e dialogante, a tutto campo.
1. Le relazioni hanno richiamato i rischi a cui è esposto il lavoratore
nell’economia digitale. Rischi che sono sempre peculiari: sia perché specifici, cioè connessi all’esecuzione del lavoro che nasce o anche solo si trasforma grazie alle tecnologie 4.0 – la commistione/confu- sione tra tempo di vita e di lavoro e le conseguenze psico-sociali della connessione informatica, che potenzialmente non ha soluzione di continuità – sia perché, quand’anche generici, cioè comuni a tutti i lavoratori, assumono una dimensione particolare se riferiti ad una carriera lavorativa in rete – tra gli altri, i rischi di esclusione dal welfare, in particolare dalla tutela pensionistica, per la vischiosità che la discontinuità lavorativa, esito verosimile della gig economy, ap- porta alla maturazione dei requisiti di pensione.
Svolgerò due osservazioni sul problema della protezione da en- trambi i rischi; problema che deriva, per i primi, dall’assenza di una disciplina dedicata ai lavoratori del Web e, per i secondi, dal fatto che, benché la garanzia di pensione sia oggetto di una disciplina ad applicazione universale, il rischio di esclusione dei lavoratori precari non è adeguatamente arginato.
2. Dei rischi specifici, ancorché riferibili ad ogni lavoratore che im-
piega ICT, il legislatore si fa carico solo per il lavoratore subordina- to dell’Industria 4.0: il lavoratore agile, per il quale configura un in- teresse alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di la- voro (art. 19, l. 81/2017).
* Università degli Studi di Napoli «Federico II».