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Per la prima via, facendo riferimento alla qualificazione della fat-

Lavori in rete e nuove precarietà: come riformare il welfare state?

2. Per la prima via, facendo riferimento alla qualificazione della fat-

tispecie, le tutele saranno quelle connesse al tipo contrattuale entro il quale si intende ricondurre il lavoro on demand: dal lavoro subor- dinato al lavoro autonomo, dalla subordinazione ‘aggiornata’ dalle nuove previsioni in materia di lavoro agile (l. n. 81/2017) alle colla- borazione eterorganizzate (di cui all’art. 2, co. 1, d.lgs. n. 81/2015), fino alle collaborazioni ‘autentiche’ disegnate dall’art. 409, n. 3, c.p.c. Occorre tuttavia precisare che si tratta di tutele per nulla sufficienti a soddisfare, e in misura adeguata, la liberazione dai bisogni, finan- che quando si applichino le tutele più ampie proprie del lavoro su- bordinato. Ciò a causa della parcellizzazione delle prestazioni e dei bassi salari/redditi che di norma caratterizzano le prestazioni digita- li, caratteristiche, queste, che mal si conciliano con le regole del vi- gente sistema di protezione sociale, ancora strutturato sul modello del lavoratore (maschio) subordinato a tempo pieno e indeterminato e finanziato con il versamento dei contributi in modo continuativo.

Da qui la necessità di individuare soluzioni diverse. Cominciano così a ipotizzarsi nuove tipologie contrattuali; si pensi a quanto pre- vede il d.d.l. Ichino n. 2934 (presentato il 5 ottobre 2017) che in- troduce un inedito tertium genus, ovvero il lavoro mediante piatta- forme digitali (il cosiddetto platform work), del tipo del lavoro auto- nomo, al quale sarebbe garantita la protezione sociale sostanzial- mente attraverso due possibili modalità. La prima passerebbe per la stipula, con la cosiddetta umbrella company (una società di capitali o cooperativa), di un «contratto di assistenza e protezione mutualisti- ca», al fine precipuo di consentire alle umbrella companies di svolgere per intero la funzione di ricostruzione della posizione giuridica del lavoratore autonomo con riferimento, oltre che alla continuità del reddito, alle coperture previdenziali essenziali. Non si tratta di un contratto di lavoro perché non fa sorgere in capo alla società un di- ritto alla prestazione lavorativa, né la configura come somministra- trice della prestazione stessa a utilizzatori terzi. Il modello di riferi- mento è la cooperativa belga SMart («società mutualistica per arti- sti») che, inizialmente preordinata alla tutela di freelancers dello spettacolo, ha poi ampliato la sua platea di riferimento, dando vita ad alcune opzioni di tutela mutualistica e assicurativa per lavoratori autonomi della gig economy. È un’esperienza pilota di (auto)tutela solidale – con una commistione di elementi di tutela individuale e collettiva – per le ipotesi di prestatori effettivamente autonomi e in

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situazione di pluri- e (tendenzialmente) mini-committenza da più soggetti, preordinata a contrastare i principali rischi sociali su di es- si gravanti. La seconda soluzione, offerta a chi lavora per mezzo della piattaforma digitale ma non si avvale di una umbrella company, prevede un meccanismo analogo, se non identico, a quello istituito dall’art. 54-bis, l. n. 96/2017, per il lavoro occasionale; si farebbe, cioè, ricorso a una sorta di voucher virtuale che incorpori la contri- buzione previdenziale. In questo caso ci si avvarrebbe della piatta- forma INPS (istituita per il pagamento di retribuzione e contribu- zione previdenziale del lavoro subordinato occasionale) con la quale le piattaforme digitali dovrebbero interfacciarsi per rendere estre- mamente semplice il pagamento del corrispettivo al lavoratore e la relativa contribuzione all’INPS e all’INAIL.

Senza entrare nel merito della specifica proposta e pur ricono- scendo che alcuni elementi di novità del lavoro svolto per il tramite di una piattaforma probabilmente necessitano, per garantire loro una rete di protezione, della costruzione di nuove categorie, occorre almeno segnalare il pericolo dei consueti tentativi di «fuga» dal di- ritto del lavoro, attraverso il reinquadramento in termini di lavoro autonomo e/o di auto-imprenditorialità di servizi realizzati da pre- statori economicamente o giuridicamente dipendenti dall’«algorit- mo datoriale». Se è vero che la digitalizzazione rappresenta una nuova sfida per il concetto di lavoratore subordinato, tanto da met- tere in discussione più che mai la tradizionale linea di demarcazione tra lavoro subordinato e autonomo, è altrettanto vero che abbando- nare i vecchi modelli potrebbe essere pericoloso, perché si potrebbe delegittimare l’intero diritto del lavoro a fronte di un’estensione del campo di applicazione dello stesso al di là dell’area del lavoro su- bordinato. Oltre al fatto che la costruzione di un’ennesima categoria con tutele sfumate e/o facilitazioni fiscali porta con sé il rischio di allargare l’area grigia o muovere l’area grigia da una zona all’altra, senza eliminarla. In verità, come da più parti osservato, le formule del crowd employment e del lavoro a chiamata via piattaforma sono in divenire e allora perché cucire un vestito su misura per un corpo in trasformazione, col rischio ulteriore che questo stesso capo sia de- stinato a uscire fuori moda in men che non si dica?

Alla luce di tale preoccupazione va probabilmente letta un’altra proposta legislativa che, con una sorta di inversione di prospettiva, recupera invece le tutele del lavoro subordinato (proposta Airaudo,

presentata l’8 febbraio 2017): nel ribadire quanto già previsto dall’art. 2, d.lgs. n. 81/2015, si vorrebbe far rientrare nella eteror- ganizzazione anche quelle attività di lavoro non solo organizzate, ma – per evitare abusi – anche «coordinate» dal committente, che ri- chiedano un’organizzazione, sia pure modesta, di beni e di strumenti di lavoro da parte del lavoratore, come ad esempio l’uso del proprio computer o di qualunque dispositivo in grado di generare un trasfe- rimento di dati o di voce, oppure del proprio mezzo di trasporto, anche se rese prevalentemente o esclusivamente al di fuori della se- de dell’impresa. In alternativa si propone di ricondurre i lavori della gig economy al contratto di lavoro intermittente, ampliandone il campo d’applicazione.