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Del rischio di esclusione dalla tutela di pensione, determinato

Sui rischi specifici e sul rischio di pensione del lavoratore digitale

3. Del rischio di esclusione dalla tutela di pensione, determinato

dalla precarietà dell’occupazione, la dottrina avverte da tempo. La gig economy sembra confermare al profilo del futuro lavoratore il ca- rattere di discontinuità lavorativa, che è discontinuità retributiva spesso di basso profilo ed è, di conseguenza, discontinuità contribu- tiva essa pure di basso profilo. Ciò rende elevatissimo il rischio che il lavoratore, che per la l. 214/2011 è inevitabilmente futuro pensio- nato contributivo, non acceda alla tutela previdenziale (alla pensio- ne) per essere attratto nell’area della tutela contro la povertà della persona anziana (con l’assegno sociale).

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Questo senz’altro sollecita una riflessione sulla ristrutturazione del sistema di welfare pensionistico, oggi imperniato sul modello oc- cupazionale mitigato da solidarietà generale e previdenziale che an- cora costruisce la tutela di pensione a misura di un lavoratore che non ha più cittadinanza in un sistema in cui il lavoro è giuridica- mente e socialmente cambiato, con un vulnus all’universalità seletti- va della tutela (art. 38, co. 2, Cost.).

Gli studi scientifici avanzano diverse ipotesi di revisione: tradi- zionali (il sistema multi-pilastro) o decisamente innovative (la pen- sione di cittadinanza svincolata dal lavoro; il mix tra universalismo selettivo e occupazionale). Per quanto urgente, la ristrutturazione del modello sembra però un’ipotesi decisamente futura, realmente praticabile solo quando la coscienza sociale avrà maturato la necessi- tà del mutamento del patto tra generazioni che comporterebbe un qualsiasi diverso assetto del sistema.

Nell’immediato, sono all’attenzione politica interventi di manu- tenzione del sistema, programmati nell’intesa tra governo e sindaca- ti siglata un anno fa. Tra di essi, la cosiddetta pensione di garanzia per i lavoratori attratti nel sistema contributivo. La misura, in base alle notizie che ne dà la stampa, sembra una cosa diversa dall’in- tegrazione al minimo di pensione, oggi accessibile ai soli pensionati ancora retributivi e a quelli ai quali si applica il sistema misto. Essa, infatti, non garantisce la pensione minima: quella determinata an- nualmente in misura superiore all’assegno sociale e che, sistemati- camente, segna la differenza tra la tutela in vecchiaia di natura assi- stenziale (assegno sociale: art. 38, co. 1) e quella di natura previden- ziale (pensione: art. 38, co. 1). Garantisce, invece, una rendita supe- riore alla pensione minima, configurandosi come rappresentazione dell’adeguatezza minima di pensione in corrispondenza ad ogni an- zianità contributiva all’età di pensione ordinaria. Non si conosce il dettaglio del finanziamento, che, in ogni caso, deve necessariamen- te coinvolgere la solidarietà, generale o solo previdenziale, per la parte di pensione non coperta dal montante contributivo indivi- duale.

Pure se sono pochi gli elementi per una valutazione precisa del- l’istituto, di certo si può dire che esso è efficace allo scopo perché realizza un’attribuzione diretta del beneficio di pensione, giuridi- camente legittima per ragioni di giustizia sostanziale. È verosimile, però, che la sua introduzione possa trovare resistenze sociali impor-

tanti ove non sorretta da una distribuzione del sacrificio solidale informata ad equità, perché oggi, risentendo ancora della cosiddet- ta logica della spettanza, la pensione continua ad essere percepita come un credito personale che ciascun lavoratore matura nei con- fronti dello Stato, con conseguente ostilità della collettività verso o- gni forma spiccata di solidarietà. Per questo forse sarebbe utile non abbandonare, ma anzi continuare a perseguire la via del rafforza- mento degli interventi a garanzia di parità delle opportunità di pensione per i soli pensionati contributivi. Interventi nei quali il meccanismo di solidarietà, pur presente, appare meno percepibile come «sottrazione di risorse proprie»: la fiscalizzazione degli oneri sociali, gli interventi di favore sul computo della contribuzione utile ai fini di pensione, le agevolazioni sul cumulo delle posizioni previ- denziali maturate in diverse gestioni.

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Nei più recenti studi giuslavoristici in materia di gig economy il problema posto riguarda la qualificazione del lavoro svolto dai co- siddetti riders, distinguendo tra lavoro autonomo e lavoro subordi- nato, proponendo reintroduzioni varie di terzi tipi di lavoro (lavoro parasubordinato o coordinato), o cogliendo l’inadeguatezza dei si- stemi legali domestici nell’applicazione di tutele in materia di sala- rio, orario di lavoro, controllo, libertà sindacali e sciopero.

Nel presente saggio1 il problema è un altro, si assume che il lavo-

ro prestato mediante piattaforme digitali, nel caso specifico di lavo- ro prestato per imprese della gig economy che distribuiscono beni (si vedano Deliveroo, Foodora, Just Eat, ecc.) o permettono di erogare servizi alla persona o alla famiglia (Vicker, Task Rabbit, ecc.), sia sus- sumibile nel tipo contrattuale del lavoro somministrato di cui al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 e al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276.

Le ragioni di tale sussunzione derivano da alcune indagini scien- tifiche svolte sui fatti e sulle realtà aziendali della gig economy, inter- viste al management e ai lavoratori/riders, confronto con sindacati e studiosi. Come si presenta, nei fatti, al giuslavorista il modello Deli- veroo o Foodora? La piattaforma digitale (ad es. Foodora) coordina, dirige, controlla, sanziona il lavoratore/rider per soddisfare una ri- chiesta dell’utilizzatore (ad esempio ristorante o bar che si associa alla piattaforma) nella distribuzione di cibo verso i propri clienti. Il

* Università degli Studi Tor Vergata di Roma.

1 La versione integrale del presente saggio sarà pubblicata nel 2018 in un volume

collettaneo a cura di Gaetano Zilio Grandi e Marco Biasi.

Michele Faioli

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La gig economy è un processo di matchmaking